ATTRAVERSARE I MURI

11 Dic 2016 | 0 commenti

 

“METTO CONTINUAMENTE SOTTO PRESSIONE GLI AMORI DELLA MIA VITA. TROPPE RICHIESTE, TROPPA OSSESSIONE, TROPPA GELOSIA”- A 70 ANNI SI CONFESSA MARINA ABRAMOVIC , PIONIERA DELLA BODY ART ESTREMA- L’INFANZIA VIOLENTA  FRA ABUSI E SADISMO IN UNA FAMIGLIA CHE SI ODIA-LA FUGA DAL COMUNISMO, POI AMSTERDAM E NEW YORK E LE PERFORMANCE, LE MASTURBAZIONI, LE SCUDISCIATE, UN CALVARIO PER ESPIARE NEL DOLORE LA BRUTTEZZA, I TRADIMENTI, LE OSSESSIONI DEL PASSATO.  

 

 

All’ inizio non mi rendevo conto del significato inconscio delle mie performance, di quanto fosse labile il confine tra lavoro e vita: l’ ho capito solo invecchiando».

Marina Abramović

A riconoscere di aver sempre messo a nudo la propria anima, oltre che il proprio corpo, davanti al pubblico di mezzo mondo, è l’ artista che si è frustata a sangue fino a non sentire più le sferzate; ha urlato fino a perdere la voce; ha stuzzicato un pitone (finché a strisciar via non è stato lui). In Rythm 10, la sua prima performance, nel ’73, spalancò una mano su un foglio bianco e, impugnando con l’ altra un coltello, prese a colpire velocemente gli spazi tra un dito e l’ altro: quando sbagliava il bersaglio, ferendosi, cambiava pugnale e via, tac-tac-tac-tac. In Balcan Baroque, con cui vinse il Leone d’ oro alla Biennale di Venezia del ’97, rimase sei giorni seduta su una montagna di ossa putride, pulendole una per una, come a lavar via le atrocità della guerra nei suoi Balcani.

 Marina Abramovic, pioniera della body art svettata dall’ underground all’ olimpo delle star, è fuggita dalla Belgrado di Tito senza mai liberarsi del suo passato plumbeo. La sua casa di campagna sull’ Hudson, vicino a New York, da cui ora parla via Skype, è un cottage di legno a forma di stella, come il simbolo del comunismo. Come la stella in cui si è sdraiata nel ’74 in Rythm 5 – testa, braccia e gambe nelle cinque punte – per poi farla incendiare (e perdere i sensi, perché le fiamme hanno divorato l’ ossigeno). Come la stella che si è incisa sul ventre con un rasoio in Thomas Lips, per poi scudisciarsi e sdraiarsi sul ghiaccio…

 Oggi quel passato tetro, minaccioso, che è stato storico ma anche familiare, esplode con forza nei ricordi di un’ autobiografia che esce da Bompiani in occasione dei suoi 70 anni – li compie il 30 novembre – scritta con l’ aiuto di James Kaplan, già biografo di Jerry Lewis e Frank Sinatra. Si intitola Attraversare i muri, perché «nel clima oppressivo della Jugoslavia postbellica, i veri comunisti dovevano saper superare ogni ostacolo con la loro fermezza» (parole sue, in un inglese dal forte accento slavo). «Perché a suon di botte e ceffoni mia madre mi ha addestrato a essere un soldato come lei, che dal dentista non voleva anestesia, quando si toglieva un dente».

 Ed ecco 410 pagine di ossessione tutta Abramovic: il resto del mondo dell’ arte compare poco o nulla nell’ universo autoreferenziale della matriarca della performance. Ma ecco pure confessioni franche (ai limiti dell’ esibizionismo), come quando racconta d’ essere stata così disperata per i tradimenti di Ulay, già compagno di vita e di arte, da accettare di far l’ amore a tre con la sua amante, soffrendone allo spasimo. In fondo Attraversare i muri è l’ ultima performance di Marina Abramovic, tra le più azzardate. Perché l’ artista delle azioni estreme non sfida i limiti del corpo, ma quelli dell’ emotività.

Un altro muro attraversato?

«Credo di sì. A 70 anni dovevo pur liberarmi del passato, come un serpente che fa la muta, per crescere, finalmente. E dovevo farlo con sincerità, perché nella mia famiglia si teneva celato tutto. I miei genitori si odiavano – donnaiolo lui, coriacea lei, dormivano nella stessa stanza con la pistola sul comodino – ma di volersi separare neanche un cenno.

 Nemmeno la morte ammettevano: tennero nascosto alla nonna anche il decesso di suo figlio, dicendole che era partito per un lungo viaggio in Cina. Io invece voglio riconoscere che dietro alla super Marina, al guerriero che in pubblico sopporta qualsiasi ordalia, c’ è una Marina insicura, incasinata, che da ragazza si sentiva brutta e goffa: naso troppo grande, occhiali troppo spessi, scarpe ortopediche per i piedi piatti. E da grande si sente brutta e vecchia, rottamata, ogni volta che un uomo l’ abbandona. Il che succede sempre».

L’ ha lasciata Ulay dopo dodici anni di convivenza – in un furgone, in una comune, in una tenda nel deserto – anni di azioni insieme come un unico performer, Marinaeulay. E l’ ha lasciata l’ artista Paolo Canevari, dopo nove anni di divergenze sempre meno trascurabili a New York e un matrimonio. Come lo spiega?

«Metto continuamente sotto pressione gli amori della mia vita. Troppe richieste, troppa ossessione, troppa gelosia: una tempesta di emozioni tragicamente balcanica. Unita a un accanimento sul lavoro che nessuno riesce a reggere. Anche perché finisce per porli in secondo piano. Gli uomini mi abbandonano perché, insaziabile, pretendo tutto l’ amore che non ho avuto da bambina. E perché non mollo mai: devo sempre dimostrare di vincere. Contro chissà chi».

I suoi genitori, forse?

«Temo di sì. Prima eroi di guerra, poi membri di rilievo del Partito, erano fissati con il coraggio, la disciplina marziale, la determinazione. Siccome ero terrorizzata dall’ acqua, a sei anni mio padre mi buttò giù dalla barca e si allontanò a remi: a furia di bere e scalciare, imparai a tenermi a galla. Mia madre invece era ossessionata dall’ ordine e dalla pulizia: la notte mi svegliava urlando, se dormivo scompigliando le coperte. E al minimo sgarro mi picchiava fino a farmi blu.

 

 

Abuso di minore?

Probabilmente. Ma quei maltrattamenti mi hanno fatto diventare quel che sono. Devo il mio successo a quelle regole umilianti, alle pene fisiche, allo spauracchio di mia madre. Da lei ho ereditato anche terribili emicranie, che sono state una valida palestra per imparare a tollerare il dolore. Così oggi sono molto severa con i miei studenti: impongo loro giorni di digiuno e di silenzio, ore e ore a contare chicchi di riso, escursioni sotto la neve o nel caldo torrido».

Forse anche sadismo e masochismo si ereditano…

«Non credo, perché nella vita di tutti i giorni detesto il dolore fisico. Lo accetto (e sconfiggo) solo durante le mie performance. Perché ho imparato, nelle mie lunghe frequentazioni dello sciamanesimo e delle filosofie orientali, che il dolore è un muro, straziante, insopportabile, ma chi riesce a trapassarlo accede a un diverso stato di consapevolezza.

A una nuova fonte d’ energia. Illimitata. E la Marina impaurita diventa la Marina eroica. Una sensazione inebriante. Che raggiungo solo davanti al pubblico, perché è dagli spettatori che traggo forza. Senza di loro non arriverei in fondo».

Il passare degli anni non aiuta.

«Solo il fisico è più debole. La mente più salda che mai. La prima volta che realizzai Thomas Lips, azione faticosissima – la stella incisa sul ventre, le scudisciate, il ghiaccio – avevo 29 anni e durò un’ ora. L’ ultima volta ne avevo 59 e ne durò sette.

Era il 2005, al Guggenheim di New York, dove riproposi sette performance storiche, mie e altrui: Seven Easy Pieces. Per una settimana, sette ore al giorno, feci di tutto: compreso masturbarmi dalle 17 a mezzanotte sotto una pedana, con un altoparlante che amplificava gemiti e fantasie sessuali, come aveva fatto Vito Acconci in un lavoro degli Anni 70. Da giovane non ce l’ avrei fatta neanche con un allenamento olimpionico».

Ebbe molto successo. Ma fu con la retrospettiva del 2010 al Moma che sfondò i confini del mondo dell’ arte, raggiungendo il grande pubblico. Clou: lei seduta immobile per tre mesi, otto ore al giorno senza bere, mangiare, fare pipì, sostenendo lo sguardo degli spettatori. Che furono 850 mila dal vivo e milioni sul web.

Marina con Ulay

La sua vita è cambiata?

«Da giovane mi accusavano di andare contro le convenzioni, oggi di far parte del mainstream. Prima ti rendono una star, poi ti incolpano di esserlo. Per questo ho dedicato l’ autobiografia “ad amici e nemici”: sono intercambiabili. Mi scontro con fiumi di gelosia. E di lavoro: la lista degli impegni arriva al 2020.

Festeggerò i 70 anni al Guggenheim, l’ 8 dicembre, e andrò a ricaricarmi in India. Poi una retrospettiva a Stoccolma, dove esporrò per la prima volta i dipinti kitsch della mia gioventù: ho imparato a esibire anche ciò di cui mi vergogno. Quindi mostre in Danimarca, Svizzera, Germania, Cina. Uno show per sole donne nel Qatar. Soldatino ligio, non mollerò».

 È ancora convinta che l’ arte sia sinonimo di libertà, come quando fuggì dalla Jugoslavia?

«Quando si è giovani e senza soldi si viaggia leggeri: fino ai 45-50 anni sono stata povera in canna. Ma la libertà ti è inesorabilmente preclusa, se ti obbligano a essere sempre la migliore».

Marina in Balkan Baroque

E a sfidare il destino: a 14 anni giocava alla roulette russa con la pistola carica di suo padre…

«Ebbrezze da ragazzi. Il vero problema è l’ imperativo a svettare. Il cui prezzo da pagare è la solitudine. Perché è difficile trovare un uomo che non si senta minacciato dal tuo successo. E io reggo la sofferenza fisica, non quella emotiva.

Le rivelo un segreto, però: sto per innamorarmi di nuovo… Non mi chieda altro: su di me incombe sempre il rischio che vada tutto a rotoli».

Maria Abramovic in una foto di Thomas Lips

  Articolo di Antonella Barina per Il Venerdì – la Repubblica

 

 

 

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