Ritratti di poveri

12 Mar 2015 | 0 commenti

Forse la parola poveri è troppo vasta e ambigua, meglio indigenti, cioè sprovvisti di che vivere. Nei miei giri per il centro storico di indigenti ne incontro tutti i giorni, e si fanno sempre più numerosi. Osservandoli capisci meglio come sia cambiato l’essere indigenti oggi. Hanno i loro giri, i loro orari, il loro modo di questuare. Solo le zingare sono tutte uguali, matronali, col loro sguardo estraneo, distaccato, gli abiti sgargianti, le criniere ispide e intricate, braccia e mani sporche. Avide, ma nello steso tempo indifferenti.

Il primo della galleria è piccolo, pelle olivastra, fronte bassa invasa dai capelli corvini, aria dello slavo. Avanza porgendo un cartello, un pezzetto di cartone irregolare scarabocchiato. Chiede latte per il bambino, lo fa da anni, imperterrito. Magari, ancora un po’, sarà questo figlio (immaginario) a prendere il suo posto.

Sempre dall’Est Europa viene un altro questuante, di grande stazza, infagottato, uno zaino sulla spalle. Ha un grande naso che gli copre le labbra, sguardo supplichevole, ti viene incontro con un cappello da baseball, non ha occhi che per cogliere avido quanto vi depositi dentro. E’ uomo di mestiere e bene intercetta i flussi più lucrosi: il sagrato del San Filippo, le code davanti al Museo Egizio, l’ingresso di Eataly, l’entrata a teatro nei giorni in cui il Carignano è aperto. Insiste senza apparire invadente. Di solito cambia il ricavato in un vicino Dì per Dì: il cassiere mi confida che arriva e supera i cento euro al giorno.

La coppia più sorprendente, che sparisce per lunghi periodi, ma che si ripresenta secondo un calendario indecifrabile, è composta da due individui quarantini. Lei è africana, alta, grossa, con voce cantilenante, acuta e lamentosa, ti dice che hanno fame, pretendendo di raccontarti per filo e per segno le loro sventure. Tiene il suo compagno per mano, come una mamma che si trascina un figlio riottoso. Lui è bianco, presumo italiano, sta un passo indietro, alle spalle della campagna, è alto, una gran capigliatura crespa e brizzolata che gli scende sulle spalle, barba incolta, sguardo e modi miti e remissivi.

Fino a pochi mesi fa, sotto i portici, all’inizio di via Accademia Albertina, veniva a chiedere l’elemosina un cieco, vestito sempre con un pastrano grigio, inverno e estate. Corpulento, cera pallida, viso grande e carnoso, aveva modi signorili e una gran voce baritonale, che gli permetteva di modulare, da fine dicitore della questua, una sua salmodiante cantilena benaugurante, in cui le lodi ai santi si intrecciavano con auspici di salute e prosperità ecumeniche. Il portiere del mio stabile sosteneva che era un finto cieco. A me un giorno parve strano che per superare il varco del portone aperto del palazzo, strada che faceva da decenni, il cieco si bloccasse platealmente fino all’aiuto di un passante. Un eccesso di verosimiglianza indebita? Adesso non si vede più e sospetto sia morto.

 

 

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