……. Dietro la protesta si cela anche un linguaggio dei simboli.
Cuba porta il peso dello stigma, come ha detto Slavoj Zizek, (filosofo e psicanalista sloveno ndr) di vivere intrappolata nel sogno degli altri. Se abbiamo imparato l’arte della protesta, adesso bisogna imparare anche l’esercizio della traduzione della protesta.
La sintassi è ideologia, e il linguaggio si trova ascoltando nel profondo i fatti, non girandoci intorno. Si dà un nome alle cose accedendo, entrando, penetrando nella melma delle parole scomode che ci disorientano. Il nominare confonde. Il linguaggio non esiste in funzione nostra, è piuttosto il contrario.
Non possiamo coprirci con le parole come dietro a un velo, la parola è intemperie, e la verità comincia nel momento in cui il linguaggio ti lascia allo scoperto. Il problema con la grammatica che giustifica, anche se parzialmente, ciò che avviene a Cuba è che perpetua la disciplina dell’eufemismo, l’unica disciplina esistente nell’ambito cubano del reale, l’unica che sta dietro alle istituzioni dell’Isola.
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Una volta ho letto che il cammino più breve tra due punti di dolore è la poesia. Quando prolunghiamo questo cammino, tra curve e curve, girando in tondo, stiamo uccidendo la poesia e, in questo modo, uccidiamo anche l’uomo. Cuba è una finzione, i cubani no. Chi traffica con le parole, traffica con la vita degli altri.
Ancora non sappiamo dove stiamo andando ma comunque è meglio così, piuttosto che sapere che prima dell’11 luglio non stavamo andando da nessuna parte.
Estratto dell’intervento su La Stampa dello scrittore Carlos Emanuel Álvarez