Quella truce ginnastica in camicia nera. Stivalacci, armi alla cintola, gli istruttori atterrivano i bambini . Ed erano la maschera d’ un secolo feroce. Tra le frasi che sempre ripetevano c’era l’invito a ” menare le mani ”
Negli ultimi cent’anni l’ignoranza è finita col diventare il gran fregio dell’esistenza.
Federico Fellini non ha mai fatto politica. In questo, è stato molto simile alla maggioranza delle persone che conosciamo: ha fatto la sua vita, sicuramente aveva le idee chiare, ma è difficile trovare una sua dichiarazione di voto, un impegno politico particolare. Federico Fellini (1920-1993) nasce poco prima della marcia su Roma, e cresce quando in Italia c’è il fascismo; è tra i fortunati che dal fascismo non hanno avuto gravi tragedie in famiglia, e quindi può conservare uno sguardo neutro. Un modo di vedere che gli è stato spesso rimproverato, in vita, ma che è tutt’altro che un modo di tirarsi indietro o di non prendere posizione.
E del resto basta guardare i suoi film per rendersi conto di cosa pensava Fellini del fascismo: e oggi è ancora più facile, perché è passato altro tempo e si sa che per vedere chiaro alle volte il tempo aiuta. Non sempre e non per tutti, purtroppo.
Fellini affronta direttamente il fascismo per la prima volta nel 1970, con “I clowns”. Ha incontrato da poco, nella sua infinita (e suppongo divertente) ricerca di volti e di corpi per i suoi film, un attore molto giovane che impiegherà spesso nei suoi film di quel periodo: Alvaro Vitali.
Appena vede Alvaro Vitali, Fellini non resiste alla tentazione: lo veste da fascista. In divisa fascista, il futuro Pierino è da leggenda: già per conto suo Alvaro Vitali sembra uscito da una vignetta di Novello, ma col fez e la camicia nera diventa davvero irresistibile.
I fascisti che vediamo all’inizio del
film del 1970 non sono lì per caso: si parla dei Clowns, e Fellini elenca i
suoi ricordi infantili, i buffi e i matti del suo paese quand’era bambino. In
questa galleria di buffi e di matti, i fascisti in divisa hanno un posto di
rilievo: ed è difficile non ridere davanti al talento di Fellini che ci mette
davanti una piccola galleria di facce irresistibili. Alvaro Vitali fa
compagnia, sul lungomare, al nostalgico reduce combattente che ascolta i
discorsi del duce recitati dalla moglie con voce stentorea; nella scena
successiva, il piccolo e buffo capostazione irriso dai monelli sul treno non
trova di meglio per farsi rispettare che chiamare al suo fianco il Fascista
Assoluto, truce e mortifero (così perfetto che al suo apparire pare di sentire
la puzza di chiuso e di fumo che sicuramente emanava), un cipiglio grigio e
cadaverico in alta uniforme che arriva col sidecar (come Tognazzi nel
“Federale”) e che costringe i bambini discoli al rispetto delle autorità. Poi
il film prosegue con i clowns veri, quelli del circo, descritti con molto
affetto.
“Roma”, un film del 1974, mostra quello che è sicuramente un suo ricordo
infantile, la traversata del Rubicone. Il Rubicone scorre non lontano da Rimini,
città natale di Fellini; e il maestro unico, fascista convinto, li porta a
ripetere l’impresa di Giulio Cesare. Ecco come Fellini ricostruisce la scena.
Il culto di Roma antica era una caratteristica fondamentale del fascismo, qualcosa di imprescindibile; ma la Roma antica rifatta nel ventennio è davvero una barzelletta. Più avanti nel film, vedremo anche i salti nel cerchio di fuoco, le parate, il pensionante che imita il duce e gli altri che gli dicono quanto gli somiglia ma solo per sfotterlo; ma c’è anche la corsa al rifugio durante i bombardamenti del 1943. Nel rifugio, al buio, un uomo si lascia sfuggire un commento su quanto è brutta questa guerra, e gli arriva una luce in faccia: di fronte a lui c’è un altro Fascista Assoluto, ma non in divisa perché non ha fatto in tempo a metterla, che cerca con la torcia elettrica il disfattista che osa pensare male del duce.
Dopo “I clowns” e “Roma” Fellini tornerà ad affrontare il tema, per esempio in “Amarcord” e in “Intervista”; ma mi sembra che come galleria di esempi possa bastare. Una visione del lato comico e cialtronesco del fascismo, tra pochi invasati e molti indifferenti, con gli oppositori costretti al silenzio: probabilmente la realtà era davvero questa. All’epoca in cui Fellini girava i suoi film, questo suo modo di vedere il fascismo non piaceva, perché non sembrava abbastanza netto; oggi si può dire che è una visione probabilmente molto saggia oltre che veritiera, è lo sguardo di un bambino diventato adulto e che, ormai al sicuro e lontano da quegli anni, non può fare a meno di ridere nel ripensare a quelle facce e a quegli atteggiamenti. La mistica fascista è quanto di più lontano da Fellini possa esistere; e certamente, come dicevo all’inizio, non avere avuto morti in famiglia aiuta a guardare a quel periodo con un certo distacco. Nel mio piccolo, senza voler fare paragoni, ho un ricordo simile degli anni Settanta, un periodo in cui non si poteva aprire un giornale senza leggere di bombe e di stragi (ancora oggi senza risposta, da Milano a Brescia alle bombe sui treni), o di sequestri di persona opera della criminalità comune; ma sono anni che io ricordo per tutt’altri motivi. Avevo 16-17 anni, vivevo in provincia, avevo altro per la testa, e se non si è toccati direttamente dalla Storia è facile convincersi che tutto va bene, anzi benone. E se la Storia tocca un tuo vicino di casa o un collega, è facile anche alzare le spalle e far finta di niente: nel ventennio fascista lo hanno fatto in tanti, con i risultati che abbiamo visto.
Questo mondo che faceva ridere Federico Fellini sta risorgendo oggi anche in Romagna, con grotteschi pellegrinaggi a Predappio e dintorni. Pellegrinaggi guidati anche da preti, come se fosse un santuario, Lourdes o Fatima o Loreto: forse Fellini si sarebbe divertito a ritrarlo ed è un peccato che nessuno sappia farlo oggi. Un mondo un po’ sporco e molto grottesco, dove la fede nel duce si mescola alle nostalgie per il bordello, in un amalgama strano e decisamente spiacevole, una specie di rito dove, tra un rutto e una risata grassa, non meraviglierebbe ritrovare la maschera del porco usata da Kubrick in Shining.
Per completare il discorso, mi piace mettere qui di seguito il ricordo dell’infanzia fascista di un altro insospettabile, Elémire Zolla. Zolla, nato nel 1926 e quindi un po’ più giovane di Fellini, era uno studioso di storia delle religioni, uno dei grandi eruditi della nostra epoca. Data la sua specializzazione sarebbe facile metterlo tra i “fascisti”, come si è fatto nel ’68; ma a Zolla non piacevano le dittature, e del resto non era una persona facilmente etichettabile. Questo è il suo ricordo del fascismo, che traggo da un articolo del 1998 (l’articolo per intero è facilmente reperibile sul sito del Corriere della Sera, sezione “archivio”).
Non aggiungo altro, dico solo che i suoi rimandi allo sciamanesimo e simili fanno parte del suo campo professionale, e in questo caso li trovo particolarmente appropriati.
” A partire dal 1936 feci a Torino le scuole elementari e medie, aspra e penosa esperienza. Non causa la scuola stessa, che mi riusciva divertente, ma l’immissione nell’orario di esseri curiosi e sinistri, sempre nuovi istruttori di “educazione fisica”. Ne conobbi decine. Di anno in anno sempre peggiori. Atteggiavano la faccia a smorfie sfrenate, col proposito di atterrire il loro pubblico di bambini. Erano la maschera del Novecento. Uomini di mezza età e talvolta giovinastri.
Riguardo ogni tanto un’immagine fotografica. Già l’abbigliamento era bieco, nero come il sottosuolo. Foschi e scintillanti gli stivalacci, nerastre camicia e giacca. Di voce ruvidi e violenti, come attori specialisti in partacce di gangster. Parlavano per minacciare. Esortavano al sacrificio, a fatiche stremanti. Narravano episodi temibili. Ragazzi costretti a sfiancarsi, spossati, soldati distrutti da sforzi innaturali. Davano per scontato che il destino di tutti culminasse nel servizio militare. Imparai allora, per citare Herzen (dall’Altra riva VI, 125 – 6) che “la sottomissione dell’individuo alla società – al popolo – all’umanità’ – all’idea – e’ una continuazione del sacrificio umano… crocefissione degl’innocenti che pagano per i colpevoli”.
La messinscena truce cui ero costretto ad assistere era complicata, efficace, paurosa. Quella gente, che col tempo ha dismesso nella memoria una fisionomia individuale, diventando un unico ghigno anonimo, mirava a infondere terrore nei fanciullini a disposizione, ne rubava le anime e le strizzava, torcendole come i panni che una lavandaia getti nel fiume e inzuppi per poi torcere fino a farne scivolar via un rivoletto, ritorcendo fino all’ultima goccia. Già il tono che adopravano era sufficiente, coltivato nei covi della criminalità, sulle piazze d’armi. Ordito per togliere di mezzo la persona, disporre all’obbedienza meccanica, riparare a ciò che le famiglie potevano aver allestito. Gli episodi che narravano erano sempliciotti, terrificanti: “favoriti” che subivano le torture più bieche e imparavano a ubbidire tremando.
In seguito verificai: il loro rango di “professori” era un’invenzione tra le più esagitate e tremende del regime fascista. A studiarne la scena, stavano proclamandosi emissari dal mondo dei morti. Neri, come le tonache dei preti. Cinti di pugnali e rivoltelle, come gli “arditi” che sbrigavano le faccende più terrificanti nella guerra di trincea. Stranamente nella vita li avrei rincorsi. In Corea sarei andato in cerca di sciamane, nel Nuovo Messico avrei stanato in miti villaggetti indigeni qualche sciamano locale; i modelli dello sciamanesimo terrificante li avevo subiti a scuola, le sciamane coreane si abbigliano da “generali cinesi” per cercare le anime smarrite nei cieli.
Quello spiegamento di terribilità non mi sottomise mai. Osservavo i poteri che volevano esercitare, partecipavo. Li detestavo, ma volevo apprendere i loro artifici. Desideravo imparare quell’arte gelida. Che ci voleva a effondere terrore? Bastava digrignare i denti alla loro maniera, esaltarsi con episodietti ridicoli di fascinazione e paura. Spandevano quell’atmosfera di assurdo spavento, insegnavano quell’arte: mi disponevo ad apprenderla. Come cani feroci abbaiavano e ululavano. Sfavillavano con gli occhi. Che ci voleva? Avrei poi conosciuto cerimonie tanto più complesse: (…)
Agivano con malagrazia. Camminavano goffamente. Ma proprio queste stonature accrescevano l’effetto paralizzante, mortificante. Tra le frasi sempre ripetute, “menar le mani”, “Dio stramaledica gl’Inglesi”. Il Novecento e’ un secolo atroce, comunista e fascista. Le sue premesse si concepirono nell’Ottocento ma nel Novecento si attuarono. Il Novecento è il secolo dell’ignoranza come gran fregio dell’esistenza. (…)
(di ELEMIRE ZOLLA, 21 agosto 1998, Corriere della Sera)
Il pezzo è tratto dal sito Deladelmur
http://deladelmur.blogspot.com