IL GRANDE VECCHIO GILLO DORFLES RICORDA TRIESTE NEGLI ANNI DELLA SUA ADOLESCENZA- UNA CARELLATA FRA STORIA DELL’ARTE E ANEDDOTI SUGLI ARTISTI CHE CONOBBE E CHE LO EDUCARONO AL BELLO E AL GUSTO, DI CUI E’ STATO INTERPRETE AFFASCINANTE E RIGOROSO
GILLO DORFLES Il mio Novecento all’ insegna dell’ arte
MILANO – Nei novantasette anni di Gillo Dorfles (l’articolo è del 2007, oggi Gillo ha 107 anni, n.d.r.) ci sono molte cose che sorprendono. La sua vita è come una scatola di preziosa radica: semplice, antica, solida. La apri e avverti l’ odore di un intero secolo. Gioie e amarezze. Come per tutti. Ma con scarsi rimpianti. E soprattutto con pochi drammi. Ecco, se penso alla vita di Dorfles e al suo modo di raccontarla (forbito senza scadere nell’ affettato) vedo uno di quei caratteri che hanno reso immortale la commedia hollywoodiana: un senso sofisticato e civile di porgere i pensieri e le argomentazioni. Il che, naturalmente, non significa impedirsi di scegliere, di preferire, di detestare. Ma tutto si svolge secondo regole non scritte. Vado a trovarlo nella sua casa milanese, un bel palazzo degli anni Trenta dove abita al penultimo piano. Pare che Dorfles prediliga le scale all’ ascensore. Un tempo amava salirle a gambero. Un modo stravagante per tenersi in forma. Mi accoglie nella sua casa borghese. Dei Fontana e Capogrossi adornano le pareti del salotto. Dalla penombra del pomeriggio affiora un pianoforte a mezzacoda sul quale il professore si esercita quotidianamente. La musica è uno dei suoi impegni. L’ altro è la pittura. Ama dipingere. Per un professore che ha lungamente insegnato estetica può sembrare una stranezza. Se ci si spingesse un po’ oltre verrebbe da dire: ecco la quadratura del cerchio: il critico che volle farsi artista. Quando può scrive. Ora sono apparsi i suoi Taccuini Lacerti della memoria (Editrice Compositori). Sono ricordi, appunti, note che attraversano il secolo. Dorfles non è un uomo emotivo. La cifra dei suoi sentimenti è neutra. Ma è un neutro che nasce non dal vuoto, ma dal troppo pieno. È come se quest’ uomo avesse visto troppo: il crollo di un impero, due guerre mondiali, i totalitarismi, la ricostruzione, la democrazia. L’ individuo e la massa. Dorfles, in un certo senso, è il Novecento visto dal lato meno oscuro. Ma non per questo meno inquietante. In fondo egli è la perfetta realizzazione di una Mitteleuropa senza nostalgia e cupezza. Dorfles è nato nel 1910 a Trieste. «Per qualche anno sono stato cittadino dell’ Impero. Poi quando è scoppiata la Guerra mi trasferii a Genova, la città di mia madre. Restammo lì alcuni anni.
A Trieste tornai quando ormai ero pronto per il ginnasio e il liceo». Trieste l’ ha formata. «La mia educazione vera avvenne tra gli intellettuali e gli artisti triestini: Italo Svevo, Umberto Saba, Bobi Bazlen». Quest’ ultimo sarebbe diventato il vero ispiratore della casa editrice Adelphi. «Quando lo conobbi, alla metà degli anni Venti, era uno stranissimo pifferaio magico». Strano perché? «Perché il suo fascino nasceva da un evidente contrasto. Era fisicamente squinternato, brutto, malvestito; ma il cervello di Bobi era pura armonia. A un sedicenne quale io ero, la cosa produsse un’ impressione enorme». Che differenza di età c’ era tra voi? «Aveva una decina di anni più di me. Da lui ho appreso l’ amore per la letteratura mitteleuropea. Passavamo le serate a discutere di Kafka e Wedekind. Decidemmo anche di prendere delle lezioni di Joyce». Di Joyce? «Nel senso che un professore della Berlitz ci istruiva sulle pagine dell’ Ulysses, un testo come si sa impervio, infestato dal gergo e pieno di concetti». Niente male per un giovane. «Ricordo che mia madre cercava di mettermi in guardia da Bobi. Temeva che la sua influenza potesse alla fine risultare deleteria per la mia formazione». E lei? «Io ero felice di avere conosciuto un simile personaggio. Mi rendevo conto che la sua forza, la sua curiosità, il suo modo di porgere la cultura potevano renderlo inviso.
Così successe che quando cominciò a frequentare Linuccia Saba, il vecchio Umberto reagì malamente». Cosa accadde? «Niente di proibito. Però Linuccia era diventata una specie di passione per Bobi, e Saba non lo tollerava. Credeva che Bazlen si fosse infiltrato nella sua casa per adescare la figlia, per la quale il poeta nutriva un affetto più che paterno». Intende dire che l’ attenzione per la figlia nasceva da qualcosa di oscuro? «Dico che la sua gelosia paterna era eccessiva. Saba era diventato un uomo triste, dal cuore stanco. Infragilito dalla malattia, dai frequenti ricoveri nel sanatorio di Gorizia, si era molto appoggiato alla figlia. Sicché le riversò la sua malinconica e prepotente gelosia. La vecchiaia di Saba fu amara e tormentata dalle antiche passioni, non è un segreto che egli avesse delle tendenze omosessuali». Che lui ha raccontato sia pure indirettamente nel romanzo Ernesto. «Fu una confessione viva, spontanea e al tempo stesso crudele». Dove incontrava Saba? «Essendo molto amico di Linuccia, passavo spesso i pomeriggi nella sua casa
. Era un luogo dove regnava il disordine: pieno di oggetti, di poltrone sfondate, di libri sfasciati. Era una casa sporca e fatiscente che contrastava con lo sguardo acuto di quest’ uomo, con il colore azzurro dei suoi occhi. Ma il primo incontro avvenne nella sua libreria antiquaria di via San Nicolò. Ricordo che entrai e vidi questo vecchio con la visiera che mi guardò e bruscamente mi disse: Cos’ ti vol picio?». E lei? «Mi sentivo a disagio. Poi vidi una magnifica edizione del Settecento del Fedone di Platone, cominciai a sfogliarla. E Saba, meno bruscamente: No xe roba per ti. Comunque quella libreria rappresentò per me qualcosa di straordinario. Vi incontrai il meglio della cultura triestina: da Svevo a Stuparich, da Marin a De Benedetti». Svevo non era un vero letterato. «Parlava male l’ italiano e preferiva esprimersi in dialetto. Non era insomma un uomo cerebrale, ma era dotato di un grandissimo istinto narrativo. E poi era spontaneo e spiritoso, tutto il contrario del letterato pedante. A me diciottenne ricordava una specie di vecchio zio. A quell’ epoca si andava insieme a giocare a bocce lungo il Carso. Pochi sapevano chi fosse. Il successo di Svevo arrivò solo dopo la scoperta che ne fece Montale». Cosa è stata la cultura triestina? «Qualcosa di straordinario e forse di irripetibile. Avere ospitato Joyce per dieci anni, e che anni, visto che è lì che è nato Ulisse, sta a significare che quella città nascondeva qualcosa di speciale». Lei accennava a Montale. Quando lo conobbe? «L’ ho conosciuto attraverso Bazlen e Svevo. E poi, con qualche intervallo, siamo restati amici per tutta la vita». Intervallo nel senso che vi siete a volte persi di vista? «A un certo punto accadde che le nostre mogli litigarono.
O meglio, la Mosca – che era la compagna di Montale – interruppe i rapporti con noi». Per quale ragione? «La più antica del mondo: la gelosia. Eusebio – che era il soprannome che a Montale aveva dato Bazlen – si era invaghito di una poetessa. E per un certo periodo mia moglie fu la depositaria delle lamentele della Mosca, fino al giorno in cui le disse: “ma lascia che si diverta un poco!”. Voleva placare la gelosia, ma il risultato fu che la Mosca troncò i rapporti perché convinta che anche noi facessimo parte del complotto amoroso». E Montale? «Di fronte a quella giovanottona prepotente, fisicamente esplosiva e per di più poetessa, sto parlando della Spaziani, aveva perso la testa». Non dava l’ impressione di uno che si lasciava andare facilmente. «A volte era un uomo permaloso, scontroso, dai tratti molto liguri. Ma quando si sentiva di buon umore sapeva esaltare le sue doti migliori: l’ intelligenza e la fantasia. A parte quelle incomprensioni con la Mosca, devo dire che abbiamo passato insieme a mia moglie delle serate bellissime con lui». A proposito di sua moglie, so che era legata alla famiglia di Toscanini. «Era la figlioccia. Fece da testimone di nozze quando ci sposammo. Con Toscanini ci vedemmo spesso. E l’ impressione che ebbi di lui era di un uomo testardo e autoritario. Capace però di passioni travolgenti, come la storia che ebbe con Ada Mainardi. Tra i due c’ erano trent’ anni di differenza. Nelle lettere che le spediva si firmava “Artù”!. Era dotato di una grandissima intelligenza musicale. Peccato che detestasse tutto quello che era stato scritto dopo Debussy. Ricordo che una volta ci incontrammo nella sua villa di Riverdale, a New York, e mi parlò malissimo di Busoni e di tutta la musica dodecafonica».
Lei cosa ci faceva a New York? «Erano i primi anni Cinquanta e per me che da tempo mi occupavo di arte, quella città diventava imprescindibile. La mia formazione è stata abbastanza singolare. Sono laureato in medicina con una specializzazione in psichiatria. Mi sarebbe piaciuto analizzare la mentalità del prossimo, rilevarne le stranezze e le anomalie. Ma alla fine hanno prevalso gli interessi estetici ed artistici». Si può applicare la psicoanalisi all’ arte? «Hanno provato in tanti, con pessimi risultati. Il complesso edipico non serve nell’ arte». Però può esserci un rapporto tra arte e follia. «Diciamo che è un rapporto che può servire a comprendere meglio certe motivazioni dell’ artista. Ma non aiuta a intendere l’ opera. Per questo sono un po’ freddo davanti alla recente rivalutazione di Wolfli, un pazzo di Zurigo che ha dipinto lungamente in manicomio, ed è stato definito uno dei più grandi artisti del secolo scorso. Mi pare una enfatizzazione di un artista interessante, ma sopravvalutato in quanto schizofrenico». Mi scusi, se uno non sapesse niente e guardasse un “taglio” di Fontana, potrebbe essere indotto a ritenere quella tela opera di un pazzo. «Fontana era perfettamente normale, semmai rifletteva con la sua opera una diversa inquietudine. Sono stato tra i primi ad apprezzarlo e non me ne pento». Mentre so che non ama Giorgio Morandi. «Quella frangetta, quell’ apparente modestia, quella finta riservatezza nascondevano l’ animo di un furbacchione. Era un uomo di presunzione e ambizione sconfinate.
Come artista indubbiamente è stato un grande, ma come fantasia, diamine, era limitato alle sue bottigliette. Era coetaneo di Fontana, ma tra loro c’ è l’ abisso di un secolo». In che senso? «Fontana ha creato un’ arte nuova che ha influenzato intere correnti: spaziali, nucleari etc. Mentre Morandi ha rivangato tra le vecchie figurazioni, con estrema raffinatezza, ma senza alcuna innovazione. Questo non vuol dire che Morandi non sia stato un grande della sua epoca. Ma il suo sguardo era rivolto al passato. Quello di Fontana si proiettava sul futuro». Che cosa è stata la critica in Italia? «Difficile dirlo. Intanto separerei il lavoro dello storico dell’ arte da quello del critico che esercita il suo gusto sul presente». Abbiamo avuto dei grandi storici dell’ arte. È d’ accordo? «Sì. Berenson, Longhi, e in parte Ragghianti, furono storici molto preparati. Ma capivano poco della contemporaneità, non avevano la sensibilità sufficiente per analizzare il presente. E poi non c’ era il mercato che c’ è oggi».
Che cosa ha cambiato il mercato? «Tutto. Quando un Principe o un Papa ordinavano un’ opera a Raffaello o a Simone Martini era un gusto epocale e senza sbalzi che si imponeva. Oggi gli sbalzi sono infiniti e dettati dalla collaborazione perversa che a volte si instaura tra critici inaffidabili e mercanti senza scrupoli. Non ci vuole molto a lanciare un artista mediocre». Non pensa che questo stato di cose sia dovuto anche al tramonto dell’ idea di bellezza? «Lascerei il bello fuori dalla porta. La cosa da tenere sott’ occhio è che la durata di un’ opera si è accorciata enormemente. Il barocco ha resistito per secoli. L’ arte nucleare è durata cinque anni». Perché ha scelto di fare il critico e non lo storico dell’ arte? «Ho una certa difficoltà a memorizzare le date. E poi il passato è una grande immensa nebulosa, occorre un talento particolare per saperlo attraversare. Preferisco il presente. È il motivo per cui mi sono interessato fra l’ altro al design, una esperienza contemporanea della quale ho vissuto gli albori». Che rapporto ha con gli oggetti? «Sono come i sentimenti, però più affidabili. Stanno alla base della nostra vita di relazione». Riflettono anche una civiltà, un’ epoca. «La moda, il design, l’ arredamento sono le spie di ciò che una società rappresenta e delle sue evoluzioni». L’ Italia eccelle in questi campi. Perché? «Siamo un paese dotato di talento e di fantasia. Requisiti invece assenti nella politica, dove regna lo sbraco e il cattivo gusto». Cos’ è uno snob in una società di massa? «Un uomo meno solo di quanto si creda. Da noi ci sono snobismi intellettuali, mondani e politici. Non trova che mentre si verificano dei casi di sinistrismo snob, non c’ è un destrismo altrettanto snob? Mirare a eccellere per una certa qualità mondana ed effimera non danneggia nessuno. Tutt’ al più è una perdita di tempo». E il suo tempo come lo trascorre?
«Suono per me, quando nessuno mi ascolta. Ma la cosa che mi affascina di più è dipingere. Ogni tanto, con qualche fatica, scrivo. Nella scrittura non c’ è quella immediatezza creativa che si verifica nella pittura, dove a volte hai la sensazione che un Dio o un demone ti cattura». Lei crede in Dio? «È una domanda che non si fa, esula dalle mie competenze terrene». Diciamo allora qual è il suo rapporto con la fede. «Credo in qualcosa che prescinde dal crudo e duro materialismo. Ma mi fermerei qui, anche perché finiremmo col parlare di religione». La spaventa? «Non il parlarne, ma per quello che rappresentano – ossia il dogmatismo che le anima – sì, mi terrorizzano. Vorrei un mondo liberato dalle certezze assolute. Forse il Novecento ci ha lasciato una eredità ambigua». Lei che lo ha attraversato quasi interamente che giudizio ne dà? «Mi aspettavo qualcosa di più. Ma ormai quasi centenario non ho più il diritto di ritenermi deluso».
Articolo di ANTONIO GNOLI per La Repubblica
Precente articolo su Gillo lo trovate in questo sito sotto: Gillo, Angelo era troppo, del 20 aprile 2017