LA DONNA DELLA FINESTRA

14 Mag 2015 | 0 commenti

La donna della finestra.

Una donna di mezza età e senza più ambizioni contempla la sua esistenza. Con sguardo disincantato descrive i piccoli episodi ai quali assiste dall’alto del suo rifugio. Siamo su un lago, nella desolazione invernale, in una giornata nebbiosa, quando assiste ad un delitto. La realtà irrompe nella sua vita e…….

 

“La nostra identità non è se non questa armonia precaria e finita, sempre ipotetica, che determiniamo fra le diverse facce del nostro essere nel gioco alterno della vita quotidiana, della nostra formazione e dei nostri ricordi” (Ezio Raimondi, Un’etica del lettore, 2007)

Aspettiamo una felicità che è sempre attraversata dalle ombre dell’ambiguità, che la bellezza trascina sempre con sé”

 

Cap. 1 Uno sguardo dall’alto.

donna alla finestra 1

 

Una volta mi sarei detta vecchia, oggi, a volere essere precisi, una donna di mezza età. Brutta? Mah, … quasi brutta, cioè priva di lusinghe, come scrisse un poeta. Sola? No! di certo. Con me vive una gatta che di nome fa Zampa….vedi un po’ la fantasia. Siamo ingrassate insieme. Io ho perso i capelli, lei il pelo, con la differenza che a lei il pelo ricresce, a me i capelli no. Nel confronto vince lei…. ecco cosa ci guadagni ad avere a che fare con altri, sia pure bestie. Sono signorina, embè? Non ho mai voluto impicci, marmocchi fra le gambe, marito da accudire. Ho evitato di darle confidenza, l’ho sviata senza cadere fra le sue lusinghe, posso dire di averla ingannata, insomma. Sempre quella, dico, la vita. L’ho guardata da lontano? L’ho solo intravista? Forse. Meglio che seguirne le illusioni, o le miserie, o gli affanni.

Dalla finestra, in ogni stagione, guardo giù per strada la gente che passa, sento le saracinesche dei negozi alzarsi la mattina, vedo le luci delle vetrine al tramonto, riconosco gli odori di cucina che salgono dal cortile. D’autunno, i colori sbiadiscono nelle nebbie del lago, mentre le ombre si allungano, fino a lambire le finestre della casa di fronte, dove sagome senza nome compaiono oltre le tendine. E’ il mio film muto, che vedo e rivedo, anche se è sempre quello.

Vedete quella laggiù al terzo piano? E’ una studentessa, sta lì dall’anno scorso. Ogni tanto la vedo, china su un libro, ma più spesso è a letto con qualcuno. Uno sempre diverso. Non so cosa ci trovano, lei è più larga che alta, ma forse non fa la schizzinosa a letto.

La giovane studentessa

La giovane studentessa

Non mi piacciono gli uomini, specie se puttanieri, ma ancora meno le donne, almeno quelle con smanie di progresso, di parità, di emancipazione… e altre menate simili. L’uomo da una parte, la donna dall’altra, in casa mia era così. E funzionava. Io, per me, meglio da sola, anche a letto.

All’angolo, sotto i portici, deambula nervoso il negro che spaccia la polvere, con ogni tempo. L’astinenza non la ferma un temporale e poi non ci sono rischi, la polizia guarda da un’altra parte, fanno servizio sul lungo lago, magari a fare flanella attorno ad un chiosco. Camicia e mutanda loro, distingui tu la guardia dai ladri? E poi dicono di legalità… Il negro non parla mai, fa solo gesti e ad ogni gesto qualcosa esce dall’ombra e s’agita intorno a lui. Sembrano falene, attratte dalla luce, poi svaniscono per dare spazio ad altre. I tossici si azzuffano ogni tanto fra loro e il negro li guarda con disprezzo, non per altro, ma gli rovinano la piazza. Poi tutto finisce lì, perché al lago è così, tutto finisce inghiottito, non ci sono novità, la noia sembra galleggiare sull’acqua, insieme alle foglie, tutto l’anno.

Il negro, d’inverno, si sposta al coperto, sotto la nicchia del caldarrostaio, si strofina le mani, dondolandosi sulle gambe. Se passa la guardia civica gli offre dal cartoccio un assaggio, avendo imparato, oltre alla lingua, le buone creanze. Ma quello tira dritto, fino alla ricevitoria del civico 35. Si imbosca. Scansafatiche professionale. Perlustrare il quartiere non gli va, lo sanno tutti. Va matto per l’azzardo. Consulta le uscite su tutte le ruote e magari gioca qualche schema. Passa intere ore a fumare e ogni tanto si affaccia per scrutare la strada.

Spaccio droga

Spaccio droga

Dall’alto di una finestra vedi certi particolari che da terra sfuggono, ma che sono di sorprendente efficacia per rivelarti una persona. Certo, il vestito non fa il monaco, ma il cappello sì, così i guanti o le scarpe, i particolari insomma. I dettagli, i dettagli fanno la differenza…

Mettete il caso del ragioniere commercialista che divide il mezzanino con un’assicurazione straniera. E’ lì per strada adesso, che passeggia lento e solenne, prendendo sotto braccio i clienti e scappellandosi, di tanto in tanto, davanti alle signore che escono per la spesa. In ogni stagione indossa un cappellaccio nero oramai stinto e una sciarpa svolazzante, foggia anni ’20, quasi fosse un cavalier cortese. E’ infatti un romagnolo galante, monumentale, gran fumatore e mangiatore. Sospetto non usi tanto acqua e sapone, avendo sempre le spalle fiorite di forfora. Doveva essere stato, ai suoi tempi, un bell’uomo….

Il cavalier galante mentre attraversa la piazza

Oppure, mettete il caso della vedova che abita due stanze umide e buie a piano terra, già alloggio del portiere, poi arrivate, non si sa con quali maneggi, nelle mani del marito finanziere, prima che costui morisse d’infarto. La donna esce puntuale per la messa delle sette, irreprensibile nella parte che si è assegnata, quella della vedova inconsolabile. Stretta in un vecchio pastrano, velo nero sul capo, cammina trascinando i piedi, rasente al muro, testa china, dolente quasi avesse ad espiare tutti i mali della terra. Si è invaghita del prete, ma non vuole rinunciare alla redditizia messa in scena. Se pecca, ha chi subito l’assolve. Meglio di così! L’inconsolabile nasconde le mani sotto guanti di velluto nero, “per via della psoriasi nervosa”, sospira. Ma è il fegato in disordine. E’ alcolizzata. Da quassù vedo vecchi bottiglioni da due litri per il vino, riempiti di acqua e allineati sul balcone. “E’ per tenere lontani i gatti”, dice la bugiarda. Ma non c’è sera che non si gonfi di vino, prima di seppellirsi nel sudario delle lenzuola.

Vecchina che beve

La vedova si consola bevendo

garzone panettiere

Il garzone del panettiere

Tra un quarto d’ora saranno le dieci, l’ora in cui il fornaio gira per distribuire il pane. Da noi, piccola città di provincia, usa ancora così. Non mi resta che guardare il retrobottega, fumandomi una sigaretta. Il garzone del fornaio è puntuale. Eccolo sgusciare dal retro, infilare l’ingresso delle cantine e da lì risalire per le scale interne al secondo piano. La moglie del padrone lo accoglie in vestaglia, il caffè appena sbollito, il letto rifatto alla meglio. Lo fanno alla luce di un abatjour, li vedo agitarsi oltre le tendine, come ombre cinesi. Lei che sta di sopra quasi lo sommerge con la profusione della carne. Le piace di più, così lo tiene sui binari, stretto fra le cosce. Finisce presto, troppo focoso il ragazzo, ma non ci vuole molto per resuscitarlo, carico per una seconda passata.

Il martedì è giorno di mercato, scendono dai monti circostanti contadini e vaccari con le loro tome. Col mercato sto più volentieri alla finestra, c’è animazione, chiasso, qualche brandello di conversazione mi arriva fin quassù. Puntuali calano anche i mariuoli delle tre carte, carta perde, carta vince… col loro banchetto, le pance dilatate, il pesante accento del sud. Osservano chi passa da una fessura gelida degli occhi, astuti come serpenti. Presto il crocchio si stringe attorno all’allocco, preso in mezzo come una mosca in una ragnatela che più s’agita e più s’invischia. Quanti illusi ci sono al mondo! Chiudo la finestra e mi ritiro solamente quanto le bancarelle sgombrano per fare posto ai netturbini, con le ramazze e i getti d’acqua.

Gioco delle tre carte

Il gioco delle tre carte

Anche la casa avrebbe bisogno di una ramazzata, meglio di un getto d’acqua per liberare i corridoi, il bagno, la cucina dai rifiuti di una vita disordinata. Non butto niente, accatasto e conservo tutto, come capita. Ci si aggrappa alle cose, magari non ricordiamo più di averle.. e nel dubbio accumuliamo. Quando guardo gli oggetti accartocciati, schiacciati, vuoti, i libri di scuola ammuffiti, altri mai letti avvolti dalla polvere, sento un ammonimento.

Zampa

Zampa

Quale non lo so, un ammonimento.. Forse per questo non butto niente. Ora, arrivare in cucina diventa un percorso di guerra. Zampa mi guarda, miagola e si infila ronfando dietro una catasta di libri. Anche lei ha fame.

 

 

 

Cap. 2 Delitto con vista

Qui da noi capita che i tramonti sono spazzati dal vento che nasce dalla pianura e va verso il lago, il cielo per intere settimane è zuppo di pioggia. Quando non c’è il vento ci sono le nebbie che scendono dalle montagne. Già dal primo pomeriggio, in autunno, le ombre si allungano e nell’oscurità spicca la luce dei lampioni, avvolti nel loro baluginio giallastro come in un bozzolo.

Dalla finestra vedo rari passanti, la vita sembra rallentare, prendersi una pausa. E’ un momento brutto per me: le foglie secche che cadono, il senso di abbandono che tutte le cose sembrano restituire all’occhio. E’ l’autunno chiuso dei laghi. Non ho niente per distrarmi e tanti pensieri si affacciano, chissà da dove. Non mi aggrappo ai ricordi perché trascinano in fondo.lampioni nella nebbia Andrei a picco, come le barche lasciate a marcire nel lago. Sarà per questo che evito facce che conosco, qualunque cosa che mi trascini dietro il passato. Al diavolo! gli anni trascorsi, il tempo che è andato.. Per spezzare la tensione apro la finestra e mi sporgo; da lì vedo la fine della piazza, la macchia scura dei giardini sotto la scarpata della ferrovia che corre in alto. Dalla strada mi arriva l’eco di pochi passi affrettati che si perdono nella sera che avanza. In piazza, i vetri del Mocambo sono appannati. Mi immagino i soliti che fanno flanella, stravaccati ai tavolini. Non ordinano mai più di uno spritz, che sorseggiano in silenzio. La sponda del lago già non si vede, l’indovino solamente, dietro la coltre grigia della nebbia, nei varchi che si aprono quando perde bave e si sfilaccia. Gioco ad immaginare, a dare una forma e un nome alle ombre evanescenti che dal basso sembrano risalire verso la finestra, quasi risucchiate dalle luci della casa.

Proprio all’angolo estremo della strada, dove già si apre la piazza, sento un borbottio inquieto, poi delle voci alterate. Ecco un grido, un monosillabo che sembra provenire da molto lontano per propagarsi nella nebbia, rimbalzare fra le case. E’ tutto così rapido e inatteso che i suoni bruciano in un attimo, come faville quando si staccano dal fuoco, tanto che dubito sia accaduto.

Ma ecco che sento una fuga di passi, vedo due ombre che si agitano, stagliarsi per un attimo nel cono di luce di un lampione. Sembrano lottare, finché una delle due ombre scivola, si aggrappa all’altra, convulsa, quindi si stacca, barcolla sospesa, poi come attratta da terra, si accascia, inghiottita dalla nebbia. Adesso, solo adesso, mi pare di sentire un colpo secco come lo scoppio di un petardo. Istintivamente mi ritraggo, chiudo la finestra. La suggestione è così forte che dalle fessure sembra filtrare un odore di polvere da sparo. Non riesco però a staccare lo sguardo dalla strada, come ipnotizzata sto lì, impietrita, Mio Dio!, proprio nel punto dove la donna è caduta, vedo un braccio sbucare dalla coltre nebbiosa, agitarsi debolmente, come per invocare aiuto. Donna? lampioni nebbia gialliMa perché ho pensato a una donna? Se ho visto un’ombra e poco più? Mi passo una mano sugli occhi e mi allontano dalla finestra, oramai stretta dalla paura. Tremo al contatto con le mie stesse dita, mai così ossute e gelide. Ma che mi è preso? Sono solo suggestioni, non c’è nessun braccio laggiù, nessuno!, solo sbuffi di nebbia. La finestra mi attrae di nuovo. Devo convincermi che sono solo le fantasie solitarie di una vecchia. Mi affaccio giusto per vedere.. Mio Dio! Ma quello è un uomo, sì non posso sbagliare. L’impermeabile chiaro si staglia sul nero di un muro alle sue spalle. Vedo il cranio lucido, i riflessi della luce sui suoi occhiali. Mi appare alto, agile, si muove con incredibile leggerezza e velocità, fugge, mi sembra quasi di sentirne l’affanno. Sta per essere inghiottito dalla notte quando, un attimo prima, alza repentino la testa, verso l’alto,.. mi guarda!?

La mano mi va d’istinto verso l’interruttore che chiudo repentinamente, quasi rabbiosa. Che mi abbia vista alla finestra? Mi sale dalla gola un breve riso, un poco isterico: ma se lo sa tutto il quartiere che sto alla finestra! Già, ma l’uomo era del paese? Più probabile fosse uno sconosciuto di passaggio, magari in piazzista, non un turista, no in quella stagione. Le mani corrono agli scuri che richiudo con circospezione, in silenzio, mentre rifletto, al buio. La fronte appoggiata al freddo della maniglia, gli occhi chiusi, rivivo in un istante la scena della strada. Che cosa ho visto? Che cosa è accaduto?  Ecco, che cosa è accaduto veramente?… Inutile riaprire la finestra, guardare in basso, il buio e la nebbia sono impenetrabili. Un ferito, forse morente da soccorrere,…. ma che sciocchezza! Dove corre la fantasia. Non è questione di coraggio, che forse verrebbe, è il ridicolo. Cosa ho visto, dunque, e cosa immaginato? L’unica cosa razionale è cercare di rispondere a questa domanda….. Una donna, ho pensato a  una donna…perché poi? Beh, in questi casi una donna c’è sempre… in questi casi?.. ma quali?.. e l’uomo, che sia stato uno che si trovava a passare per caso, che magari si affrettava a tornare a casa, in famiglia, per sottrarsi alla nebbia? Niente di più facile, chi sta volentieri al freddo e all’umido? Dunque…Che strana idea chiamare la polizia.. buoni quelli! Invocare soccorso? Per cosa, per chi? Ma che idee balorde vengono ad una vecchia…..

nebbia sul lagoMi specchio nel bagno, il solito viso stanco, segnato dalle rughe con un disordine impietoso. Sono decisamente brutta. La pelle opaca, i capelli stopposi. Da qualche parte avevo letto l’elogio della bruttezza che, al contrario della bellezza, col tempo può solo superarsi. Quello che vedo ora specchiandomi è il.. bel risultato.. poi adesso… cos’è quel tremolio impercettibile al labbro di sopra? Mai successo prima. Anche Zampa sembra irritata, cerca le carezze, ma poi se ne sottrae inarcando minacciosa la schiena. “Dalla strada qualcosa è arrivato ad invadere la nostra vita, ma per un attimo, tranquilla Zampa. Ora è tutto a posto, domani con la luce tutto sarà diverso, su mangiamo e poi a nanna”.

 

 

Cap. 3 Una visita inattesa

Michele Aldrovandi

L’ispettore Aldrovandi

Il campanello echeggia fragoroso e insistito. Ho un sobbalzo,.. mentre trascino i piedi verso il portone, mi interrogo inquieta: ma chi è? E’ da poco passata la mezza, l’odore delle cucine, invasa la tromba delle scale, sembra filtrare da sotto la porta in un pulviscolo appiccicoso. “Non ricevo a quest’ora!” sbraito infastidita. Risponde solo un lieve scalpiccio, qualcuno è lì dietro la porta in attesa. Rincaro: “Se siete un venditore ambulante non ricevo nessuno, vada via!”  “Sono il dr. Aldrovandi mi apra per cortesia”, la voce è quella di un uomo, dal tono nasale, ma dolce. “Non conosco nessuno con questo nome… non vedo…” “Aldrovandi, Michele Aldrovandi, signora”, poi sento che si accosta allo stipite e sussurra: “ sono un ispettore di polizia..” Oh, madonna, ma cos’è questo impiccio stamattina! Mi guardo intorno confusa e allarmata, quasi non mi accorgo che sto liberando il chiavistello. Oltre che imprudente devo essere impazzita – mi dico- ma intanto sto aprendo allo sconosciuto. Non mi ricordo l’ultima volta in cui un uomo è entrato in casa. Ora uno c’era, in carne e ossa. Più carne che ossa, per la verità. Non sembra scomporsi, ha l’aria di averne viste tante. Corpulento, faccione dozzinale reso un poco pensoso, quasi severo dagli occhi affondati nelle orbite e dalla fronte ampia. Sui cinquant’anni. Usa un dopobarba asprigno, che sa di cuoio bagnato. “Che c’è- gli chiedo sgarbata- ho da fare, non mi sembra l’ora questa..” L’uomo non sembra sentire, gira intorno lo sguardo indagatore, squadra il corridoio oltre le mie spalle, ingombro di libri e cianfrusaglie accatastate. Quello che vede non deve essere di suo gradimento perché non riesce a dissimulare una smorfia. Disappunto? Sorpresa? Poi subito sbotta: “Fiiuuh, che… strana casa la sua”.  Sono indispettita dall’uomo e non faccio niente per nasconderlo. Ci do dentro con l’arma dell’ironia: ”Cos’è, un concorso che non so, tipo casabellaepulita? La manda il comitato di quartiere, la Croce Rossa o cosa?” Mi guarda col suo sguardo affondato, stringendosi nelle spalle, come per riordinare le idee e una risposta che non viene. “Senta, è sordo, per caso? Si può sapere cosa vuole?” La mia voce irritata gli arriva sulla cotica delle guance come un puffo affettuoso, perché imperturbabile mi fa:” Sono qui per farle alcune domande”. Il tono è di chi dice: confessa i tuoi peccati e sarai perdonata. Non funziona così -penso- devo cambiare tattica con questo qui. Intanto lo tengo lì, inchiodato sulla porta, in piedi, fra l’odore dei cavoli, sotto il contatore della luce… Lui si toglie il cappello, tossisce, si sbottona l’impermeabile. E’ stempiato e piccole gocce di sudore si formano sulle tempie. Sto zitta, muta, assumo un’aria distratta, nemmeno infastidita, come se lui nemmeno fosse lì. In piedi, aspetto si decida a togliere l’incomodo. Ora pare farfugliare qualche parola, ruota la testa allentandosi il colletto, cerca di posare il cappello, ma l’attaccapanni è lontano. Allora lo schiaccia sotto un braccio. Per darsi tono, sfila una sigaretta e fa per accendersela, ma lo blocco, implacabile. A dire che i segni del fumo mi si leggono sulla pelle opaca, né gli saranno sfuggite le mie dita macchiate di nicotina. Uscendo da un torpore inspiegabile, l’uomo ha una mossa repentina, si volta, richiude l’uscio, si toglie il lungo impermeabile chiaro e, col tono incolore di chi legge un rapporto, mi fa:” Nel tardo pomeriggio di ieri, nella piazza su cui si affaccia questo palazzo, lato imbarcadero, una donna è stata trovata morta.. assassinata.”  Si ferma, scruta la mia reazione, che non viene, sono lenta di riflessi, il blocco dei pensieri mi rende inespressiva. Riluttante, l’uomo riprende: “ Una donna sui trenta-trentacinque anni, bella, molto bella, …. lei non ne sa niente?” La domanda è come un pugno allo stomaco, vacillo e la voce stenta a trovare l’uscita. “E … cosa dovrei sapere?” rispondo abbassando impercettibilmente lo sguardo sotto quello di lui, che sembra mandare bagliori. Poi aggiungo, quasi a giustificarmi: “Non ho preso i giornali, questa mattina, non sono ancora uscita… per la verità esco di raro”  Mi fa: “Eppure è successo proprio sotto le sue finestre”. Lo guardo, seccata dall’insinuazione che percepisco sotto le sue parole: “Se per questo, tutte le finestre del palazzo dànno sulla piazza”. “Lo so – replica asciutto – infatti sto sentendo tutti nel palazzo”. Dunque non è venuto solo da me, è la prassi, uno scrupolo investigativo. Mi sento subito sollevata, senza motivo.  Senza pensarci gli indico una sedia, poi mi siedo davanti a lui, facendogli segno che può fumare. Il ghiaccio è rotto. Lui in silenzio, galantemente, me ne offre una. Sembriamo due vecchi conoscenti all’ora dell’aperitivo. “Ma che ora era esattamente?” mi viene da chiedergli, mentre aspiro con voluttà il fumo. “Le cinque, forse.. sono in corso accertamenti, ma quell’ora lì, più o meno, era già buio, fa buio presto in questa stagione” Una pausa, appena rotta dal respiro un poco ansimante dell’uomo che guarda fisso il pavimento, ingombro di cianfrusaglie. Sono io che riprendo: “ e poi la nebbia…” “E sì, è vero –risponde con un tono quasi dispiaciuto, poi indicando la finestra- ma questa è la piazza principale, bene illuminata” Mi scruta con un occhio freddo, indagatore, attento alle più piccole sfumature della voce. “Infatti- rispondo vaga- poi mi viene l’idea buona: “C’è stato qualche passante, l’avete individuato, sentito?… e quelli del bar, qualche negoziante..?” Sì, sono in corso indagini, vedremo, sentiremo, tutto può essere utile…indagini complesse, difficili. La morta non aveva documenti, non sappiamo nemmeno il nome. Sappiamo solo quello che si vede, giovane e bella.. nemmeno un segno particolare, un difetto,… forse non era nemmeno di qua.” Obietto: “nemmeno un segno, magari la foggia del vestito.. un’etichetta” L’uomo alza la testa e socchiude gli occhi, come a volere rivedere una scena ferma nella sua memoria: “Abiti eleganti, ma di serie, biancheria di classe- esita un istante: “ anche quella intima”. Coglie il mio disappunto perché si stringe sulle spalle, allaga le braccia e mi fa: “ E’ il nostro mestiere, cosa ci vuole fare..” “Comunque io non so niente, non ho visto niente”- replico con tono sbrigativo.  “N’è sicura? Un piccolo indizio, qualcosa di insolito, si sforzi! Una voce, un rumore…mi dicono che lei sta spesso alla finestra”. Il tono melenso della sua voce nasale mi irrita: “In casa mia e del mio tempo faccio quello che mi pare e piace!.. o è proibito?” “Ehi, ehi, non la prenda così! E’ il nostro mestiere fare domande, ricordi che sono un poliziotto. Per cercare la verità dobbiamo essere un po’ impiccioni. Ma è nell’interesse della giustizia. Eppure pochi lo capiscono, sapesse quanta reticenza, addirittura ostilità” Ora il faccione di Aldrovandi è rosso per l’irritazione, l’aria paciosa è svanita come d’incanto, i suoi occhi sono incupiti e ridotti a puntini incandescenti.  “Non so niente, le ripeto! E poi ieri sera c’era una nebbia che non si vedeva a un palmo.” “E come lo sa, se non è uscita, perché lei non è uscita, vero?” Gli rido in faccia, liquidatoria: “non serve uscire, basta che mi affaccio, poi io la sento all’odore la nebbia”.

“Quindi lei non ha visto niente e niente è in grado di riferire per aiutare le indagini. Ho capito bene?” Sul verbo aiutare la voce dell’uomo aveva avuto una sottolineatura imbarazzante. “Sì è così, mi dispiace”- concludo con un tono freddo che non ammette repliche. Il colloquio è finito.

La pappagorgia di Aldrovandi ha un leggero fremito quando apre le braccia conserte, emettendo uno sbuffo di disappunto. E’ a disagio, prima si guarda intorno, poi fruga nella tasca dell’impermeabile per cercare una sigaretta. Ma il pacchetto è vuoto. “Maledetto vizio!-impreca- queste uccidono” Si mette il cappello, poi dice sconsolato, come parlando fra di sé: “Alla fine finisco sempre per parlare di morti, in una maniera o nell’altra. Maledetto mestiere!”

Abbozzo la smorfia di un sorriso e in fretta aggiungo: “ Mi dispiace.. ma ora è tardi, mi voglia scusare”. Gli apro la porta e per un attimo la sua schiena si staglia nella penombra delle scale, poi Aldrovandi si volta lentamente. Il suo viso ha perso la paciosa severità di qualche istante prima, la stanchezza, o forse la noia, lo hanno indurito di nuovo. Prima che la porta si richiuda alla sue spalle mi lancia uno sguardo freddo e penetrante che mi fa scorrere un brivido lungo la schiena. Abbandono la porta solo quando sento le porte dell’ascensore richiudersi, mentre si avvia verso il basso.

 

Cap. 4 Soliloquio

Le persone viste dall’alto sono come punti informi di colore, su cui spiccano i crani lucidi, le pelate precoci, o nel caso delle donne, i cappelli che ondeggiano sopra le spalle col ritmo dei passi.

Donne sedute al bar

Donne sedute al bar

Io sono sempre in vedetta. Ma da quella sera mi sono fatta prudente, rimango dietro le imposte, nascosta a occhi indiscreti. Osservo il via vai, ogni tanto sbadiglio di noia. Più spesso mi distraggo, il pensiero vola altrove, vecchi ricordi affiorano, come da un tombino scoperchiato. Hanno un cattivo odore e mi inquietano. Ma anche quelli recenti…. La scena della sera prima mi torna agli occhi. Ora che ci penso, la testa di quell’uomo, dell’assassino dico, o almeno credo, mandava bagliori intermittenti, come una palla lucida quando rotola e rimbalza, spinta da una forza irresistibile. Durante la notte, girandomi nel letto, nel buio mi pareva di rivedere il suo sguardo. Un bagliore in fondo agli occhi, che si accendeva improvviso come oro che luccica, un raggio, qualcosa di corposo, di pesante, che avresti potuto scagliare come una pietra, un coltello o una freccia. Qualcosa era stato scagliato fino alla mia finestra e sembrava ancora incagliata lì. Per questo mi affaccio meno volentieri e a fatica lascio cadere lo sguardo d’abbasso, oltre il davanzale. Il poliziotto, quel Aldrovandi, non è più ritornato, né si è visto gironzolare, come eclissato. Che tipo scostante ed equivoco! Chi avrà avvertito la polizia: un passante, un avventore? Chissà se era intervenuta subito dopo il fatto. Forse la ragazza non era ancora irrigidita dalla morte e Aldrovandi avrà fatto in tempo a fiutare gli odori ancora tiepidi del suo corpo. Mi immagino il suo sguardo lubrico mentre abbassa la gonna sulle gambe della sventurata. Lo vedo chino sul suo volto a scrutare i contorni della bocca, socchiusa nell’ultimo respiro. Quanti baci aveva dati o ricevuti quella bocca, ravvivata da un’ombra di rossetto? Aldrovandi non aveva accennato al rossetto, ma a me piace pensarla così. Il poliziotto, con una punta di tremore nella voce, le aveva confidato che era stata giovane, bella, molto bella, calcando sulla bellezza di quel corpo inerme, ma ancora caldo, che evidentemente conservava ancora il potere di turbare. Brutto mestiere, ma soprattutto brutta gente, quella. Alla larga. Aveva fatto bene a stare zitta. Per un nonnulla ti coinvolgono e ti sconquassano la vita per mesi. Dichiarazioni, sopralluoghi, processi, testimonianze… alla larga! Invadenti, prepotenti, irriguardosi.. anche per l’età. Tutti così! Se ci capiti in mezzo rischi di stare peggio tu che non l’assassino. Avevo fatto bene a stare zitta. Chi, con un po’ di sale in zucca avrebbe fatto diversamente? Alla larga!

Ecco il ragioniere uscire dal portone di casa. E’ in ritardo e trafelato si affretta verso l’auto, stringendo sotto un braccio un grosso faldone, che evidentemente non è entrato nella borsa rigonfia che gli rimbalza sulle gambe. In quel momento, la moglie del comandante dei traghetti della Compagnia Lacustre attraversa impettita la strada.

La consorte del comandante dei traghetti

La consorte del comandante dei traghetti

Il Passator Cortese, preso da meccanico impulso, fa per scappellarsi ossequioso, ma il fascio di carte gli sfugge da sotto il braccio, sparpagliandosi come foglie al vento tutt’intorno e annegando nelle pozzanghere lasciate dalla pioggia. Mi giungono le sue imprecazioni soffocate, la rabbia gli gonfia le vene del collo, mentre bestemmiando si china goffamente a raccogliere i fogli. Mio Dio! Senza il suo aplomb è irriconoscibile, sembra un qualsiasi energumeno. Ah, gli uomini!

Anche il poliziotto doveva nascondere qualcosa di losco, sotto la irreprensibile maschera professionale. Lo sento, intuito femminile, non so, ma sarei pronta a giurarlo. Con un secondo incontro sarei stata pronta a smascherarlo. Non che ne lo augurassi, figurati! Ma, una persona così equivoca ha senz’altro una doppia personalità. Quel balbettio mellifluo, quei suoi modi insistenti, la pretesa di “cercare la verità”, come aveva detto! Mio Dio, la verità, magari da racchiudere in un rapporto, in mezzo alle scartoffie, questa la loro verità, quasi che il mondo potesse stare nello spazio di un mattinale di polizia.

No!, ho fatto bene a stare zitta, più ci penso e più me ne convinco. E poi che cosa avevo visto in fondo: delle ombre agitarsi, una che cade, un’altra che fugge, o si allontana, non so, ma nulla più. Avessi fatto anche mille deposizioni, mille confronti cosa potevo dire di utile che la polizia già non sapesse? Senza contare il fatto che per quella poverina nulla c’era da fare… per la verità Aldrovandi non aveva detto se la morte era stata immediata, ma insomma, uno sparo, così ravvicinato… Chiamare il 113 per dire cosa, se non avevo in fondo visto niente di preciso, lo sparo poteva essere un mortaretto, un motorino. Tutto era stato così rapido e confuso, così incerto. Lei lassù, così lontana.. Chi poteva fermare oramai la mano di quell’uomo?

Sono ancora le dieci. Il giorno non sembra volere passare, sulla superficie piatta del lago tutto sembra sospeso, non una vela che si muove, i battelli ancorati, i locali sul lungo lago chiusi. Venerdì da noi i locali pubblici sono di turno la mattina, prima della baldoria per fine settimana. Ma il panettiere non è di chiusura, né la moglie che sopra aspetta il garzone che, infatti, eccolo che spunta dal retro. Va a fare la sua consegna di giovinezza fra le gambe insoddisfatte della fornaia, ed è bello in fondo chiedersi se il giovane sia preda o predatore, o forse, come sempre, un po’ l’uno e un po’ l’altro.

Cosa cucinano oggi nel condominio? Ah, di venerdì andava il baccalà, col pomodoro fresco, alla fine una spolverata di pan grattato, pepe nero e prezzemolo. L’Amalia, quando stava bene, me ne portava sempre un assaggio, avvolto nella stagnola, ancora caldo. Dopo la rottura del femore, esce poco, non si affaccia più, anche se sta di fronte, ma si cucina ancora per lei. Mangiare in solitudine è tutto fiele. Per fortuna io ho Zampa che mi fa compagnia. Agli animali manca solo la parola, ma per esprimere il loro amore per i padroni è superflua, basta uno sguardo. In televisione non avevano detto di quel cane che per dieci anni ha aspettato il padrone morto, fino a che la vecchiaia non si è portato via pure lui? Ho preso Zampa perché il gatto è un animale fiero e indipendente. Con lei sarebbero inconcepibili certe scene di promiscuità o intimità imbarazzanti, di sbaciucchiamenti leziosi, come quelli che vediamo fra cani e padroncine. Anche l’amore si fa grottesco quando è espiazione per il vuoto che ci circonda…. L’amore, bah…[..] Ad un amore sbagliato ho sempre preferita la solitudine. La trovo la soluzione più dignitosa, un modo per rispettare il prossimo, in fondo, anziché aggrapparsi per affondare insieme. Io so di essere troppo severa con me stessa, di non concedermi niente. Sono fatta così, è il mio daimon.. e poi perché tanti dubbi e rimorsi…..rimpianti. Il mondo fuori è cattivo, è sporco.

Anche per quel fatto lì, per quell’omicidio, perché  tanti scrupoli? Io mi faccio i fatti miei, come tutti. Non so poi che erano tutte balle quelle storie sul cittadino esemplare, collaborante, ecc. ecc.?  Io che non ho mai fatto male a nessuno devo sentirmi forse omertosa? Reticente? Facciano!, facciano il loro mestiere perché sono pagati per questo…. Una che non sa non sa.

 

Cap. 5 Visita con fuga

Lo guardo, ancora sorpresa e scossa. E’ entrato in un lampo. Si è fatto largo fra le cianfrusaglie, spostando dei libri, come uno di casa. Ora è affondato in poltrona, le gambe accavallate. Fasciato in un elegante doppio petto grigio, principe di Galles, gli occhiali cerchiati d’oro, l’orologio di marca che s’intravvede dal polso della camicia, non sembra quello del giorno prima.

Ricambia il mio sguardo, senza imbarazzo, in silenzio, rilassato. Mi guarda, paziente, la mani accostate alla bocca, soffiando leggermente sulle punte delle dita. Non somiglia a un poliziotto, piuttosto a un professore, a un facoltoso commerciante, appesantiti dall’età. Entrando mi aveva ripetuto il suo nome, sillabandolo come una filastrocca: “Al…dro…van…di. Ma, Michele è meglio”. L’ho fatto entrare, arrossendo per la sorpresa, o forse è entrato da solo.

Il poliziotto Androvandi

Fa per estrarre il distintivo, un gesto automatico, poi ci ripensa: “non serve”. Lo interrogo con gli occhi. “ Non sono in veste ufficiale”- mi dice accostando l’indice alla bocca e guardandosi intorno. Poi soggiunge: “strana casa la sua… ah, già glielo detto”. Intanto io penso cosa voleva dire in “veste non ufficiale”. Le indagini sono finite? Il caso è chiuso? L’assassino è stato scoperto e messo in galera? Ma l’uomo non pare volere cogliere queste mie domande. Continua a guardarsi attorno incuriosito, si alza, si accosta ai quadri alle pareti, osserva da vicino dei soprammobili, quasi noi si fosse lì ad ingannare il tempo in attesa della cena. Gli piombo frastornata alle spalle: “Ma cosa  è venuto a fare?”

“Una visita riparatrice. Mi sembra di non essermi comportato bene l’altro giorno. A volte il mestiere indurisce, ci fa ruvidi, sgarbati addirittura.”

“Una visita?”

“Sì, per scusarmi, perché se no?… a che pensava? Sorride disinvolto, si accende una sigaretta: “Permette, vero?”, ma già il fumo azzurrognolo sale verso l’altro. Ripiomba in poltrona e con lo sguardo mi invita a fare altrettanto. Uno di fronte all’altra, due vecchi amici in amabile conversazione.

“Ma… ma le indagini… a che punto sono?”, finalmente il rospo mi è uscito. Non è semplice curiosità, ma qualcosa che mi spetta, dopo tanto disturbo.

“Vanno di qua e di là, raccogliamo indizi, accostiamo i pezzi..” risponde vago l’uomo.

“Ma seguite una pista, avete dei sospetti, ispettore?”

“Michele, mi chiami Michele, non sono un ispettore… non in questo momento” corregge e poi aggiunge: “ ma, che dirle.. le ipotesi sono tante, si va avanti come di routine”. Gesticola in aria con le mani, c’è nella sua voce disappunto, l’ esitazione di chi parla controvoglia. A me sembra evasivo, più di quanto il riserbo istruttorio non imponga.

“Ma, ispettore…” riprendo.

“Michele, mi chiami Michele”

“Ispettore, ma lei,…la.. la donna, com’ è morta?”

“Come cosa?” Ora finge di non capire, si vede che si diverte a tenermi nell’incertezza.

“Sì, insomma, è morta sul colpo, oppure….. ha avuto il tempo…”

“Un colpo d’arma da fuoco, questo lo sa, ha sentito il colpo, mi pare” Ha fatto scivolare la frase con tanta naturalezza, ma io che resto vigile, per fortuna, non abbocco al tranello. “Io so?, cosa so? Si sbaglia, ispettore….”

Finge di non sentirmi, si apre la giacca e sogghignando da una fondina estrae un’arma: “una come questa”. E’ nera, lucida, minacciosa. Sono scossa da un brivido. La voce dell’ispettore è ora tesa, alterata: “In pieno petto, ma senza toccare il cuore- poi quasi riflettendo su se stesso- non poteva colpire il cuore”.

“Perché?”- aggiungo esitante, ma la domanda rimane senza risposta. Fra di noi scende un silenzio pesante e irreale. Mi alzo, mi stringo nelle braccia, rabbrividendo all’idea del delitto, alla sorte della sventurata sconosciuta e allora mi sforzo e incalzo: “ Ancora niente, non un nome, né il suo, né quello dell’assassino…?”

L’ispettore ha come una smorfia di fastidio: “ Ma come? Sa che non la capisco?” La sua voce bassa si era fatta severa. “ Fino a ieri del delitto non voleva nemmeno sentirne parlare, non aveva visto niente, non ricordava niente, non poteva riferire niente… niente di niente. Quasi che a quella finestra lei non ci fosse mai stata. E oggi…”

“Cosa vuole dire?”

“Niente, che voglio dire? Forse è meglio cambiare discorso va, per lei… e forse anche per me”

“ Ispettore, che fa ora, mi minaccia?”  Non posso più stare seduta, sono in mezzo alla stanza, a gambe divaricate, con l’aria di volerlo assalire. La mia irritazione, il mio tono risentito lo colgono impreparato.

“Su, si rilassi, non la prenda così!”

“ Non mi dica come la devo prendere o non prendere. Non insista con questo tono, che mi salta la mosca al naso” Ora do sfogo a tutta la mia tensione: “ Io non ho nulla da nascondere, Androvandi.. Aldrovandi, o come diavolo si chiama!” Nulla! Questa conversazione non doveva mai avvenire… non abbiamo niente da dirci…perciò”

“Si calmi!, non mi fraintenda, non voglio essere cattivo con lei”

“Senta, se ne vada. Scuse accettate e finiamola lì!”

“Eppure non posso lasciarla così, verrei meno a…”

“A cosa?”

“Non so come dirglielo”

“Ma dire cosa?” sbuffo impaziente, la gola secca.

L’ispettore scuote lentamente la testa, sospira senza rispondere. Sfila una sigaretta, ne batte una estremità sul dorso della mano e mi fa: “Un po’ di compagnia le farà bene”

“La compagnia me la scelgo, se la voglio!”

Oltre le volute di fumo, mi osserva in silenzio, fa un fugace sorriso. Sembra aspettare… e non avere fretta. O forse non sa cosa dire.

“Sa che lei è uno strano individuo,  un ispettore sui generis” Mi esce cosi, ma volevo dire peggio.

“Trova?” Non c’era sfida nel suo tono, solo sincero interesse.

“Sì, trovo!- replico indispettita- lei è invadente… in casa mia poi… alla mia età. E’ sconveniente, tutto ciò….non sta bene affatto”

“Le voglio confessare una cosa, la compagnia fa bene anche a me” Ora si è fatto serio, si sente che vuole confidarsi e mi invita a sedere: “Grazie,…ma non so il suo nome: G puntato sul campanello sta per..

“Un nome come un altro, un nome comune…”

Non insiste, ma è dispiaciuto, ma non demorde, anzi incalza, avvicinandosi: “ho bisogno di parlare, il nostro è un mestiere di brutture che alla fine ti riducono in solitudine..”

La mia rabbia stava sbollendo, ma tenevo il punto: “E la compagnia la cerca in questo modo? Introducendosi di soppiatto in casa?” L’irritazione della mia voce costringe Aldrovandi ad abbassare lo sguardo, si fissa la punta delle scarpe, in imbarazzo. Gli spiego, oramai addolcita: ”se la vuole sapere tutta mi sento come profanata, lei mi mette a disagio, tutto questo mi mette a disagio.”

Col suo tono nasale farfuglia qualcosa che non capisco, si agita sulla poltrona, la pappagorgia prende a tremare come gelatina: “..ero contrariato dalla brutta figura.. volevo rimediare..”

“Ma sia pure! C’è modo e modo, ispettore. Bastava una telefonata, che diamine!”

“Non avevo il suo numero” – sussurra.

“Ma scherza o fa sul serio? Lei è della polizia e non ha il mio numero? Questa è bella davvero! E non sa neppure il mio nome!” L’uomo è imperturbabile, la domanda gli scivola addosso. Lei è della polizia, mi ripeto fra me e me. Lei è della polizia…. si fa largo il sospetto, resto impietrita, lo sguardo dilatato: “ Ma chi è lei veramente?” E pronunciando quel veramente la voce si incrina.

”Ecco, sono venuto per questo……”

(…….)

“Per dirle di me, di…ma lei è così irritante!”, finge dell’astio, ma la sua voce resta compassionevole.

“Io irritante, lei entra in casa mia, la fa da padrone e io sono irritante?”

Ora è preoccupato: “non alzi la voce, ci possono sentire… non ci devono..”

“Esca subito da casa mia, esca subito! Oppure chiamo…”

“Che cosa? la polizia?” Non c’è ironia, quasi un rammarico per la piega delle cose. Quell’uomo mi disorienta, mi sguscia ogni volta dalle mani, proprio quando…. mi guardo intorno, oramai in preda all’ansia, quasi a cercare aiuto. “Mio dio, ma questo è tutto assurdo”.

“Senta, se si calma e si rimette seduta, le dico chi sono e perché sono venuto da lei. Non ho ostilità verso di lei, non posso averne, non ce n’è sarebbe motivo,… almeno penso.”

Lo guardo ammutolita, cado a sedere, incapace di ragionare, di intuire oltre le sue parole. L’uomo si passa la mani sugli occhi affaticati e sospira profondamente, prima di dire con voce incolore:” Sono io l’assassino”.

Un singulto soffocato mi esce dalla gola, la terra mi manca sotto i piedi, resto lì paralizzata, mentre lui prosegue: “Io sono l’uomo che hai visto scappare quella sera, così come io ti ho vista alla finestra..”

D’istinto scatto in piedi, volo verso l’ingresso, spalanco la porta e mi lancio giù dalle scale. Nel buio pesto incespico e scivolo, poi sullo slancio, aggrappata alla ringhiera, quasi ruzzolando, volo da un piano all’altro. Vorrei gridare, chiamare aiuto, ma non ho respiro né voce e il cuore pompa, pompa solo la paura più folle. Non mi sfiora l’idea di bussare ad una porta, siamo fuori stagione, sono disabitati, non posso perdere nemmeno un attimo. Ogni passo falso, ogni esitazione è fatale, fa la differenza fra la vita e la morte. Dai.. dai.. dai! Mi sembra di sentire dei passi alle spalle, no!.. è l’ascensore che cala sibilando fra i piani, proiettando bagliori che scivolano inghiottiti nel buio. Mi posso salvare, oltre quel buio, in fondo al tunnel c’è la strada, la folla, gli uomini del Mocambo, il negro che spaccia all’angolo. Davanti a me pochi gradini ancora, già filtra il chiarore sotto il portone massiccio, oltre c’è la salvezza, la fine dell’incubo.

Finisco nel buio, fra due artigli che mi stringono fino a soffocare, un tentacolo mi imbavaglia, sento il respiro aspro dell’animale sul collo, simile a una vampata che ustiona. Poi qualcosa mi solleva di peso, mi scaraventa nell’ascensore, le ombre delle scale prendono a roteare vorticosamente e una coltre di silenzio mi annulla.

 

Cap. 5 Pausa caffè

Nella stanza, in cui la penombra si fa sempre più densa, si agita una figura tozza, un uomo che fuma in silenzio. Ne sento il respiro pesante e quel suo profumo aspro, lo stesso di prima, giù per le scale. Quanto tempo è passato? Le saracinesche si abbassano rumorosamente. Un’altra giornata di lavoro è finita. Immagino che il crocchio intorno al banchetto delle tre carte sia sciolto da tempo e la vedova, dopo il suo giro in canonica, ha di certo scolato parecchio. L’uomo fuma in silenzio, la testa china fra le gambe, sembra nemmeno vedermi. Vedo la sua schiena, grande come la dorsale di un cetaceo, che si allarga ai fianchi sotto la camicia tesa. Mi accorgo di essere legata, ma respiro liberamente, non sono imbavagliata. Ho le braccia intorpidite che sembrano volersi staccare dal corpo, tanto mi fanno male. Non oso guardarlo ora che sono più vigile, come certi animali d’avanti ad una minaccia, gioco la carta dell’immobilità, quasi che il pericolo possa con ciò allontanarsi, svanire. Vedo l’uomo riflesso nello specchio, si è ravvivati i capelli, tolta la cravatta. Nell’immagine distinguo in basso il tavolino che gli è accanto e la pistola appoggiata sopra, come lasciata lì per caso, che manda deboli riflessi di acciaio.tavolo con pistola

Ora l’uomo si è mosso e va verso la cucina, si china e accarezza Zampa che si stiracchia, ronfando di piacere, fra le sue gambe. Sento il rumore della pioggia sui vetri, dunque la tregua è durata solo una mattina. Apro una fessura degli occhi, appena sufficiente per distinguere il suo faccione smunto privo di ogni espressione, la fronte è striata da graffi profondi, sembra smagrito d’un tratto. Si è accesa una sigaretta su gas, poi è tornato a sedersi. Ostentatamente non guarda dalla mia parte, ma credo abbia percepito che sono tornata vigile e presente, ma non muove un muscolo, non dice una parola, la sigaretta appesa fra le labbra, il fumo lento che sale. Oramai è buio nella stanza, il silenzio è diventato intollerabile.

“Non so chi sei, non lo voglio sapere, dimenticherò tutto purché te ne vai…” Sentivo la mia voce come fosse di un’altra, incolore, impersonale.

(—)

“Io non c’entro, non ti ho fatto niente…” Singulti mi impediscono di continuare. Mi sposto trascinandomi sul pavimento, nello sforzo penoso di allontanarmi, poi vedo la mia immagine riflessa nella credenza: è una massa confusa, spiccano solamente gli occhi, dilatati dalla paura. Quasi mi vergogno di scoprirmi così fragile… e piango.

“Calmati, calmati…” mi esorta Aldrovandi, come ridestato da una sua visione. Ma non ci riesco, singhiozzi mi sgorgano dalla gola aperta, fra conati di vomito, e brividi lungo le gambe.

“Basta, basta, stai zitta, zitta! Fammi pensare”,  si alza di scatto, cammina nervoso su e giù per la stanza, poi la cucina l’attrae di nuovo. Lo sento armeggiare, scorre l’acqua e sento che sta azionando il gas. Dal profumo capisco che si sta facendo il caffè. Rientra nella stanza, si avvicina e me ne offre una tazzina. Incredibile!

Pausa caffè

Pausa caffè

“Ah, già che sei legata…” mi viene dietro e mi scioglie i polsi. Incredibile! Ripetere gesti così usuali sull’orlo del vuoto li rendeva incomprensibili e innaturali. Almeno per me, non credo per lui, per quello strano uomo, violento e dolce nello stesso tempo, che ora si muove nella stanza come un marito premuroso.

In queste casi reagisco con l’ironia, rilanciando la sfida: “Il caffè della condannata”- sibilo con disprezzo.

Lui subito mi corregge,  sorridendo amaro e senza spiegazioni: “ Dei condannati..”

Finito il suo caffè, Aldrovandi, con la stessa insospettabile agilità di quella sera sulla scena del delitto, mi gira attorno una due tre volte, poi si arresta alle mie spalle, si china, quasi si appoggia a me, temo il peggio, di sentire le sue mani risalire intorno al collo; ma niente, da lui solo un bisbiglio, parole appena percettibili: “non ce l’ho con te, ma con me”. Sobbalzo rovesciando il caffè e lui premuroso mi allunga il suo fazzoletto. Proprio allora l’orologio della cattedrale scandisce le ore: lunghi battiti solenni, che penetrano nei vicoli e si propagano sulla distesa del lago. Oramai è notte. La mia mente è vuota, i pensieri non riescono a formarsi, svaniscono man mano, come risucchiati in un abisso. Di fronte alla finestra Aldrovandi si accende l’ennesima sigaretta, guarda la piazza, cerca un lampione, poi sospira come a cacciare un brutto pensiero.

Cap. 6 Gloria

“Era una bellissima donna, la più bella che avessi mai avuto. Bella e perversa, ma questo lo capii dopo. Veniva dall’altra sponda del lago, da quella Svizzera. Quando conobbi Gloria ero già sposato, matrimonio riparatore, senza amore, poi lei abortì. Per Gloria lasciai tutto, lavoro, amici, città. Sono sempre stato timido, con le donne, non sapevo mai come trarmi di impaccio, ma con lei no, tutto mi riusciva facile… Con lei mi sentivo importante, scoprivo doti sopite, inaspettate, insomma ero un uomo nuovo”.

Gloria e lo studente

Gloria e lo studente

“Dite tutti così”- l’interruzione a bassa voce, mi viene spontanea, ma poi mi ritraggo, dissimulo, quasi non avessi detto nulla. Mi dico che devo sforzarmi di stare zitta, di non mostrare interesse alle sue chiacchiere.

Aldrovandi, che sembra non avere sentito, prosegue nella sua confessione. “Venimmo a stare qui, lontano da occhi indiscreti, da chiacchere. Le presi una casa sul lago, con una terrazza piena di sole, un rifugio ideale. Un nido d’amore. I primi tempi furono un fuoco perenne, in cui consumarsi senza riserve. Si viveva come se non esistesse niente all’infuori di noi, senza orario, senza regole, liberi come l’aria. Gloria si rivelò una donna egoista, capricciosa, volubile. Ben presto attorno a noi si fece il deserto, ma non mi lamentavo, mi bastava lei. La giustificavo sempre, ero come accecato: ritardi inspiegabili, piccoli dispetti, crudeltà gratuite, come solo poteva farle una bambina, tutto andava bene. Più io davo, più rinunciavo a me stesso per annullarmi in lei, invaghito oramai come un adolescente, più lei si faceva esigente, intollerante, un nonnulla era per lei pretesto per liti e scenate. Il sorriso, se mai l’aveva avuto, perché a pensarci era più un ridacchio enigmatico, sparì dalle sue labbra. Capivo che era incapace di dare, succhiava avidamente da tutti, ti ammaliava per poterti sottomettere. L’amore era oramai una sofferenza, ma non riuscivo a smettere, non trovavo la forza per lasciarla, per liberamene. Mi accorsi di essere così cambiato da non provare nessuna vergogna di me stesso, per lo stato di soggezione e di servilismo in cui Gloria mi aveva ridotto. Ma era solo l’inizio, a quel punto arrivarono le richieste più avvilenti e umilianti. I soldi non le bastavano mai. Prese a rubarmeli di nascosto. A letto si negava. Oppure cedeva, ma esigeva varianti che imparava per eccitarsi dai film porno. Un amore carnale, violento, senz’anima. Ormai usciva da sola, senza dirmi dove andava. Il mio tempo si trasformò in un’unica attesa: quando sarebbe uscita, quando sarebbe rientrata. Poi successe. Una mattina, all’alba, rientrò accompagnata da uno studente che avevo già visto girargli attorno. Prese a frequentarci, prendevano il sole sulla terrazza, incuranti della morbosa attenzione che li seguiva. Mi informai: non era uno squattrinato, anzi la sua casa era la più bella del lago. La storia girò e fece scandalo. Allontanato che fu il ragazzo da casa, Gloria pretese di farlo stare con noi… giusto il tempo per cercare una soluzione, disse. I due non uscivano mai, solo il sabato sera, per il resto dormivano e bevevano tutto il giorno stravaccati sui divani. Pensai che era arrivato il colmo. Ero roso dalla gelosia. Fu una scenata terribile, negava di esserne innamorata, ma  lo voleva lì e ne parlava come si parla di un capriccio da soddisfare, di un ninnolo da tenere vicino. Nel mentre litigavamo, l’oggetto del desiderio ci guardava annoiato, poi uscì a prendere il sole.

La notte del litigio la passai per bar, vagando sul lungo lago. Negli alberghi conoscevano la mia storia e mi ripugnava farmi vedere così… alla fine, sfinito dalla fatica, mi addormentai nella sala d’aspetto della stazione.

Stazione di notte

Stazione di notte

La mattina al mio rientro, sotto lo sguardo sprezzante a amorevole ad un tempo di Gloria, ogni rabbia sbollì e con essa i terribili propositi della notte. Avevo bisogno di lei e così l’ebbe ancora vinta. Subii la presenza del giovane amante e l’idea di dividerla con lui, pur di tenere in piedi quella specie di amore, in cui, scivolare fra le sue braccia, non era contemplato. I due amanti prima mi ignorarono, come se non esistessi, poi affinarono la loro crudeltà chiedendomi per eccitarli di assistere alle loro effusioni, poi di parteciparvi. Ancora per poco, poi avrei toccato il fondo da dove non si risale più ”

Aldrovandi ha la voce spezzata dalla fatica, si gira, vedo la tensione e la sofferenza che gli segnano il viso. Si sposta spettrale nel cono di luce della finestra, come aspettando un gesto, un cenno per andare avanti. Ma io ho un grumo di sentimenti contrastanti che, uniti alla paura, mi bloccano. Una piega dolorosa gli attraversa allora il viso.

“Presi a considerare il modo per farla finita. Non potevo dargliela vinta fino in fondo, sparendo dalla sua vita, senza colpo ferire. Troppo comodo. In uno sprazzo di lucidità esclusi dalla partita l’amante, il ragazzo, una vittima come me, in fondo. Prima o poi sarebbe toccato il suo turno, finiti i soldi o il fascino torbido che il loro rapporto conservava agli occhi di Gloria. Dovevo trovare un modo grandioso e terribile che impedisse a Gloria di fare altro male. Una forma di giustizia, che mettesse la cose al giusto posto, che potesse riparare al male fatto. L’idea, prima confusa, prese via via contorni precisi. Il processo è semplice, una volta eliminate le subordinate, non rimane che una sola strada aperta davanti. Decisi così che avrei ucciso Gloria. Dopo mi sarei ucciso anch’io, perché una volta ripagata lei, dovevo riabilitarmi agli occhi del mondo. Il suicidio, come forma radicale di ribellione, mi appariva il gesto più nobile e forte. Avrei lasciata una lettera per spiegare, ma soprattutto perché tutti parenti, amici, concittadini, sapessero chi in realtà era Gloria. Mi vedevo la scena, disegnavo i particolari. Due corpi trovati esanimi una mattina, due persone note e chiacchierate per i loro liberi costumi, due vite spente, ma un solo rimpianto, quello per l’uomo capitato nelle mani di un essere così spregevole e indegno. Il movente, una volta tanto spiegabilissimo: non il solito delitto passionale nel banale tran tran della provincia, ma un atto di giustizia”.

[..]

“Il pomeriggio della sera del delitto, il giovane amante aveva lasciata la città per un’eredità. Affrontai Gloria col deliberato intento di provocarla. Lei perse subito le staffe, divenne violenta, arrivò al punto di mettermi le mani addosso. Io la respingevo, schivavo, senza reagire, con una calma che la sconcertò. Stremata e senza forze, alla fine prese cappotto e borsetta e uscì, sbattendo la porta. Sentivo che il tempo delle elucubrazioni era finito, che era giunto il momento di agire. Uscii che si faceva sera, lucido, calmo. Con le nebbie e lo scuro precoci, la piazza mi sembrò il set ideale. lago-unnamedAl rientro, Gloria doveva per forza passare dal lato destro della piazza che scorre lateralmente al lago, di solito deserto verso l’imbrunire. Il freddo precoce di quella giornata avrebbe allontanato ogni testimone. Mi appostai in agguato. Stringevo spasmodicamente la pistola sotto l’impermeabile. Al momento giusto, appena scorsi Gloria inoltrarsi nella piazza deserta, la rincorsi.

La scena del delitto

La scena del delitto

Udendo i passi, Gloria si voltò incuriosita. Scorta l’arma puntata verso di lei non sembrò sorpresa. Forse non riusciva ad afferrare la situazione. Cosicché non tentò nemmeno la fuga, anzi, inspiegabilmente, mi si fece incontro, piombandomi addosso proprio mentre premevo il grilletto. Il colpo, soffocato dai vestiti, partì senza fare rumore e, deviato forse dalla borsetta, la colpì all’inguine. Gloria cadde ginocchioni, poi premendosi l’addome con le mani si riversò su un fianco, emettendo un unico, profondo gemito. Io la guardavo ipnotizzato, tenendogli l’arma puntata contro. Intanto lei si trascinava verso la luce del lampione, agitando debolmente la testa e le braccia, come una farfalla infilzata.”

A quel punto del racconto non riesco a trattenere un grido di raccapriccio: “ Ma allora non è morta subito?”

“No, agonizzava, il sangue che gocciolava formava sul selciato una pozza di sangue, era come un uccello con un’ala spezzata, finalmente domata, vinta. Seguivo la scia di sangue, giravo attorno a lei, sordo ai suoi gemiti, sorpreso di come fosse facile troncare il filo che ci lega alla vita. Fu allora che ti vidi alla finestra.”

“Mio dio!, mio dio!, ma ero lì da ore, come sempre, non…” ma non mi riesce di andare avanti, non ho più fiato, sono inebetita.

“Ti guardai, vedevo la tua ombra agitarsi, aspettavo un grido, un allarme, com’era inevitabile, ma senza timore, anzi quasi con sollievo. Bloccato nell’attesa spasmodica che qualcosa, facendo precipitare la situazione, ponesse la parola fine al dramma, perché io ero oramai incapace di premere il grilletto per finire Gloria. Ma non succedeva niente, il mondo si era fermato, solo Gloria si contorceva, spezzata in due, invocando aiuto. Ebbi paura, allora. Dovevo ucciderla e scappare, non dovevano trovarmi… un delitto fra tanti… Come in un incubo alzai l’arma con tutte e due le mani per frenare il tremore che le scuoteva, mirai a quel corpo che tanto avevo desiderato, mio dio… come fosse il bersaglio di un tirassegno.”cadavere-donna-scatolone-tuttacronaca_thumb_big

“Ci fu un secondo colpo allora?, quello!, il solo che avevo sentito!” farfuglio ad Aldrovandi.

“Sì, poi fuggii.. e tu eri ancora lì che guardavi”

“Ma io… non sapevo, non vidi. Potevi essere chiunque… Non avrei potuto fare niente, era tutto deciso. Perché hai voluto coinvolgermi, mio dio in questa storia?”

Cap. 7 Verso l’epilogo

Michele si stropiccia gli occhi, si schiarisce la voce. Ha un tono bonario: “alzati non stare lì rannicchiata per terra, come una cagna bastonata. Vuoi un po’ di acqua?, a me è venuta una sete con tutto questo parlare”. Si riempie un bicchiere che beve avidamente. Si accende una sigaretta, ora è più calmo e mi guarda:” Sai, la prima volta ero venuto per parlarti, non per ingannarti. Ma come potevo presentarmi e dirti del delitto senza le credenziali giuste.”

“Così hai inventato Aldrovandi….”

“ No!, mi chiamo veramente Aldrovandi, già questo depone a favore della mia buonafede. Non volevo ingannarti, né farti del male, solamente non sono un poliziotto.”

“Non ti credo, mi hai mentito in tutto! Perché dovrei ora….”

Aldrovandi mi interrompe, sbuffando impaziente: “Rifletti bene, che bisogno avevo di ucciderti se avevo fermi propositi suicidi. Le indagini non mi avrebbero scalfito: morto suicida cosa potevo temere? Nessuna accusa, nessun testimone, nessun processo. C’era un’altra cosa, invece, che mi ha tenuto sveglio per tutta quella notte.”

“Che cosa, più di un delitto?”

“ L’idea della sua inutilità. O meglio, la morte di Gloria da sola non mi bastava. Non mi avrebbe riabilitato agli occhi del mondo, i miei intenti sarebbero stati travisati”

“ Ah, sì? e come?, e che vuol dire travisati?- replico con sarcasmo- resta il fatto che sei qui in carne e ossa, del tuo suicidio che ne è stato?”

Mi guarda fisso, come fossi una ragazzaccia ostinata: ”Mi vedi qui, ma non per mancanza di coraggio, come forse pensi tu. Gloria era stata ripagata, ma non potevo dare seguito…non ancora. L’inutilità mi ha distolto dal mio proposito.. Vedi, l’assenza di testimoni mi andava bene, potevo fuggire indisturbato, ma sul delitto sarebbe sceso presto il silenzio. L’unico possibile indiziato morto suicida, il giovane amante con un alibi sicuro, una breve indagine e poi l’archiviazione. La verità non sarebbe venuta mai fuori. Tu lo sai, in provincia, per un nonnulla sei sulla bocca di tutti, ma con la stessa facilità può calare un mutismo impenetrabile su fatti viceversa atroci. Mi tornò in testa l’idea di una lettera-memoria, avevo provato a stenderla, ma poi l’avevo scartata, mi sembrava inefficace e melodrammatica. Uccide l’amante e si suicida dal dispiacere! Bel titolo di merda! Sottotitolo: In una lettera i motivi dell’insano gesto. lettura-giornaliCome rendere quello che hai dentro e ti brucia…come parlare della devastazione della tua vita? Gloria non era conosciuta per quello che era, una troia approfittatrice, una sanguisuga senza pudori. Chi l’avrebbe creduto? Un pezzo di carta non bastava, occorreva una testimonianza viva, partecipe, un… complice in grado di riferire filo e per segno, di capire dolore e umiliazione, magari avendoli sofferti. Dopo la prima visita, fatta come un animale ferito e stordito che può far male, ma senza intenzione, chissà per quali misteriosi segni, capii che qualcosa ti aveva messo sulla mia strada, che quello sguardo verso la finestra quella sera era stato un segno del cielo, che tu potevi essere quella che cercavo. Dovevo perciò parlarti, subito, prima degli inquirenti. Nel frattempo, fui costretto a differire i miei propositi suicidi. Ero più che mai convinto che dovevo trovarti e farti sapere che si era trattato di un’opera di giustizia. Una magra soddisfazione, penserai. Da morto poi.. E’ vero, ma sentivo che mi sarei rivoltato fin nella fossa e mai trovata pace, se non mi scrollavo l’immagine di cornuto e debosciato che mi era stata cucita addosso. L’unica maniera attraverso la quale recuperare la dignità che mi era stata rubata eri tu, che diventavi nella mia mente una specie di procuratore testamentario. La gente collegando le due morti alla vera storia, avrebbe capito e dato ad ognuno il suo. A ognuno il suo…capisci? Forse, nelle rievocazioni, se non nella vita, avrebbe trionfato il bene. Ecco perché sono ritornato”.

“Procuratore testamentario, io? una zitella sdegnata e chiusa al mondo? L’hai trovata proprio giusta…!”

Aldrovandi sorride bonario e calmo e determinato riprende il filo del suo ragionamento. “Nel momento in cui ti vidi alla finestra balenò nella mia mente uno scenario che non avevo previsto, elettrizzante perché risolveva alla radice il mio problema di giustizia. Vedi, come ti dicevo, cosa assai diversa dall’oblio, che pure temevo assai, era l’idea per me intollerabile che l’equivoco fra bene e male sarebbe rimasto oltre la mia morte, o nonostante quella. L’inutilità, appunto. Sarebbe stato naturale, non conoscendo i fatti che ora sai, che tu, come tutti, attribuissi la morte di Gloria all’opera di un balordo, di uno sbandato, che per pochi spiccioli o perché tormentato dalla libidine, approfitta di una ragazza e, trovandosi armato, la uccide. Tant’è vero che la donna è stata trovata priva di borsetta e di ogni altro effetto personale che potesse aiutare le indagini. Oppure, avresti potuto avvallare, suggestionata dalle prime supposizioni della stampa o del pettegolezzo nostrano, magari nella confusione del momento o spinta o suggestionata dagli investigatori, l’ipotesi che si era trattato di un litigio fatale fra innamorati. Un’azione di giustizia, seguita da un suicidio espiatorio, ridotti a un mortale litigio fra innamorati? Questo sì sarebbe stato immorale! E così, purtroppo, sarebbe apparso, non bastava una lettera, non bastava la mia morte… ma con la tua deposizione potevo evitalo, purché tu sapessi la verità. Se il destino aveva voluto che tu assistessi al fatto…  e per farlo dovevo parlati e dirti del perché di quel delitto, la storia vera di me e di Gloria, non quella che avrebbero raccontato i giornali. La tua testimonianza sui fatti avrebbe ristabilita la verità. Ti è tutto chiaro, ora?”

(—-)

“Resta il fatto, Aldrovandi, che tu questo me lo racconti solo ora.”

“Per forza, eri scorbutica e ostile a tal punto l’altro giorno che in pratica mi hai sbattuto fuori. Non ricordi? Ero così turbato che quasi a tentoni trovai l’ascensore. Ad ogni piano sentivo il cibo andare su e giù dalla rabbia, tanto era stato lo scorno.”

Tutta quella sua retorica amorosa sulla pelle della povera crista, mi dava i nervi. Gli dissi che la storia non mi aveva commosso poi tanto. Gli dissi pure che aveva sbagliato tutto, fin dall’inizio: “L’amore va coltivato, ma non con la verità, ma con sapienti menzogne”.

L’uomo mi guarda frastornato, poi replica: ”Sento del cinismo nelle tue parole, lo stesso di Gloria”.

“No, l’amore è una parola, i sentimenti spesso mossi da ignobili moventi, la tua è una storia come altre e altre ne seguiranno”. Tace, ma i suoi occhi di vetro sembrano ora perforarmi. Ma la paura mi è passata, lui l’avverte e risponde con un lungo, misterioso sorriso.

 

Sento che sta riflettendo in silenzio su di me. Cosa pensa? E’ un mio limite questo sguardo freddo sulla realtà? O non è ciò che mi ha salvata? I sentimenti mi annoiano e i sentimentali ancora peggio, sono un trabocchetto. Quanto male si può fare in nome dei sentimenti, questi impulsi reconditi che turbano e sconquassano, mai appagano. C’è cosa più equivoca dei sentimenti? Quando l’hai manifestati sei perduta, gli altri ne fanno quello che vogliono, li sfigurano, li beffeggiano, te li rivolgono contro.. come ogni faccenda di cuore quella dei sentimenti è la strada più sbagliata per la ricerca della felicità…

[…]

Nemmeno gli sconfitti mi attraggono, ma lui no, non so perché, cosa mi invoglia a sfotterlo? Sono impaziente e vorrei darci un taglio: “Aldrovandi, bene, ora l’hai fatto, mi hai raccontata la tua storia d’amore tragico. Ho sentito una sola campana, ma faccio finta che sia stato un duetto. D’altronde l’altra solista è… indisposta. No, no, scusa il sarcasmo. Non volevo.. Capisco che ci sono dentro, anche se non ho fatto niente per esserlo. Diffonderò la novella ai villici, non so come, ma lo farò…non è questo che volevi? Quindi….?”

“Quindi cosa?”

“Quindi- chiedo senza apprensione alcuna-  mi lascerai in vita, non è così? Se mi uccidi nessuno saprà, gli inquirenti collegheranno la mia morte a quella di Gloria, o forse no, essendo morto l’unico indiziato. Ma se vuoi che si sappia la verità, mi devi lasciare in vita, correre questo rischio…”.

“Certo non fai nulla per convincermi di correrlo…”

“ Non hai tu parlato di destino. E poi alla mia età, solo mi dispiace di Zampa, prometti che la porterai con te se….”

“ Giochi a fare la cinica, la dura, ma non mi incanti. Sai perché non mi temi? Hai capito che non sono un violento, ho ucciso, ma non sono caratterialmente un assassino. Con Gloria è stato diverso. Ho l’impressione che storie come queste ti siano tornate alla mente, il sentimento più inaridito è come un fuoco che cova sotto la cenere. Prima o poi…”

(–)

Si ferma, poi gli ritorna il suo sorriso indecifrabile: “Sai che l’alternativa, a questo punto, non è fra te e me. Poi, chi ti dice che io voglio vivere? Il carcere lo posso evitare, oppure no, ma in un caso e nell’altro tu il tuo compito ce l’hai. Tu hai un ruolo in questa storia, che lo voglia o no. Quello di testimone speciale, privilegiato dalla sorte. Quando verranno gli inquirenti, quelli veri, saprai cosa dire. A proposito non so nemmeno il tuo nome..”

“ Gloria..”

“Scherzi?”

“No!, sono serissima. E’ un nome comune. Ma mi chiamano, meglio chiamavano quando ero giovane e in società, Glory”.

“Glory, hai capito?”

“Che cosa, Michele?”

“Che la mia morte senza di te, senza la tua testimonianza sarebbe inutile”

Cap.8 Finale ma non troppo

Aveva scandite queste parole con solennità. Gli occhi affossati luccicavano e la voce nasale si spegnava in un balbettio commovente. Sembrava un adolescente indifeso. All’aspetto supplichevole subentrò una posa di dignitosa attesa. Abbassai lo sguardo, turbata come da tempo non mi succedeva, la sofferenza umana non è un bel spettacolo. Pochi sanno soffrire con dignità, Michele lo faceva. Ora lo sentivo più vicino, capivo i suoi pensieri, l’idea di saperlo in salvo e felice, fuori da quella bufera, mi piaceva.

“ Devi proprio farlo?”- gli domandai

“Quale sarebbe l’alternativa? La galera a vita.”

“Se tu dovessi decidere di non…. Insomma di farla finita, forse un’alternativa ci sarebbe…”

“Non capisco, cosa vuoi dire. E la testimonianza..?”

“ Quella resterebbe, per un atto di giustizia, perché il mondo sappia. Non hai detto così? Il suicidio anche, per evitare indagini, controlli, foto segnaletiche che ti corrono dietro per tutta la vita. Solo che il corpo non si troverebbe. Non sempre i corpi vengono restituiti, quante persone scompaiono ogni anno”

Michele mostrò di avere capito, ma sorrise amaramente: “Già, ma che vita sarebbe da salvati e sommersi. Non so Glory, non so…”

“Per troppo tempo siamo stati coperti, è ora di uscire, non l’hai detto tu prima. Il tempo passa, i ricordi sbiadiscono, la vita riprende. La speranza è l’ultima a morire.”

“Anche per te è stato così, Glory?”

“Sì, anch’io mi sono seppellita.”

“Com’è andata?”

Troppo lungo da raccontare.. forse un’altra volta… se ci sarà… Non so se mi sono salvata, Michele, ma sono qui e ti parlo, ti dico cose che non avrei mai pensate. Non so di che parli, Michele, ti avrei detto prima di adesso. Stavo bene, quando non sapevo?, forse. Ora che so mio malgrado devo fingere di non sapere. Non è assurdo? Bastava che tu, quella sera, non avessi rivolto lo sguardo in alto, o che io non fossi stata alla finestra per guardare quella piazza vuota. Chi pensava di potere avere nelle mani il destino di un uomo. Non amo la gente, ma non la uccido. Non ho il tuo concetto di giustizia. E’ andata così. Ma ci riuscirò. Ma ci riuscirò a raccontare la tua storia….”

“Glory, non volermene. Non sempre le cose le cerchiamo, sono loro che cercano noi. E’ un appuntamento che ci viene incontro e al quale non possiamo sottrarci. Sei una donna coraggiosa e buona.”

Michele scruta oltre la finestra, si volta e dice: “La pioggia si è un po’ calmata, è bene che vada. Mentre lui raccoglie sciarpa e cappello, mi avvicino alla finestra e la spalanco, respirando a pieni polmoni l’aria fresca della sera. La luna è bassa all’orizzonte e sta appesa in cielo come un grande occhio in bilico. Michele richiama Zampa a sé, che gli lecca le scarpe. La giornata di confessione sembra avere sollevato l’uomo perché è sereno, nonostante gli occhi cerchiati dalla stanchezza: “Sai che non ho sonno, ma fame.”

“Vuoi qualcosa?-ora vorrei trattenerlo, troppe cose mi sembrano ancora sospese fra di noi.

Ma non dà risposta, forse si chiede se lo tratterrò.

“Dove vai?” -gli faccio.

“Torno al mio paese, sull’altra sponda. Deciderò se affondare o, in ogni caso, tirare i remi in barca. Ma tu -dice sorridendomi premuroso- non richiuderti nella tua solitudine. Glory, sei migliore di quello che credi,…… in fondo ci assomigliamo.”

“Aspetta -gli dico- prendi questo ombrello, è da donna, ma almeno ti ripari.”

Mentre lo stringe ha un’incertezza, poi mi afferra una mano, la sua è morbida e calda. Gesticola, fa una smorfia un po’ buffa. Credo sia il suo modo di dire grazie.uomo-ombrello-pioggia

E’ oramai inghiottito per metà dal buio delle scale, quando sente il mio richiamo. Non trovo le parole. Lui paziente aspetta. “Michele, domani se vuoi passa sotto la mia finestra e fammi un cenno, capirò, …….. magari, sì.. ecco, potremmo partire insieme. La vita sul lago riprenderà a scorrere come sempre, anche senza di noi.”

 

 

 

 

 

 

 

 

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