Lettera di un lettore
La paura della solitudine è una brutta bestia, perché ci rende estremamente fragili e dipendenti dagli altri. Può arrivare, in certi casi, a farci accontentare del primo rapporto che ci capita tra le mani. Anche dei rapporti di cui non siamo soddisfatti, né tantomeno contenti. Perfino dei rapporti che ci fanno male. La paura della solitudine ci rende poco esigenti nel selezionare le nostre relazioni. Quindi esposti ai ricatti affettivi.
Cosa che non ci aiuta certo a crescere, ad evolvere positivamente, ad affermare le nostre potenzialità. Pier Paolo Pasolini un giorno ebbe a dire: «La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la mia solitudine, che è la mia debolezza». Cosa voleva dire? A mio avviso questo: l’indipendenza è una forza, ma presuppone la capacità, il coraggio di affrontare la solitudine. E questa non è una situazione comoda, facile da reggere, Perché fa emergere tutte le nostre debolezze.
Giovanni Lamagna
Risposta di Umberto Galimberti
Se «l’ uomo è un animale sociale», come ci ricorda Aristotele, la solitudine è la sconfitta della condizione umana, di cui si accorse anche il Dio del libro della Genesi (2,12) che, dopo aver creato Adamo, disse: «Non è bene che l’uomo sia solo». Questa è anche la ragione per cui quando il bambino di pochi mesi incrocia lo sguardo della madre, sorride. La sua gioia è nella fuoriuscita dalla solitudine, nella quale non potrebbe in alcun modo sopravvivere.
La solitudine non tarda a innescare vissuti depressivi e, come tutti sappiamo, la depressione abbassa le difese del sistema immunitario e ci espone con più facilità alle malattie. Ma oltre alle malattie fisiche, la solitudine ci induce a rimuginare senza sosta quelle idee negative che potrebbero attenuarsi o addirittura sciogliersi se avessimo la possibilità di comunicarle a qualcuno.
Chi di noi non ha mai sperimentato che, quando ci assale un dolore, la prima cosa che facciamo è cercare qualcuno a cui comunicarlo, onde poterlo attenuare grazie a qualche parola di conforto. Oggi evitiamo anche di comunicare il dolore, perché temiamo che dopo gli amici, anche se non ci evitano, certo diradino la loro presenza per non essere annoiati dal nostro lamento. E così il dolore, al pari della povertà, tende a nascondersi, aggravando in tal modo la condizione di solitudine che, a questo punto, diventa la nostra tomba.
I più esposti alla solitudine sono a mio parere i giovani e i vecchi. I primi perché hanno come interlocutori il loro telefonino e tutti quegli strumenti ironicamente definiti “social”, perché non possiamo chiamare “socializzato” un uomo solo davanti allo schermo del suo computer.
Se poi su questo comportamento abbiamo ancora qualche dubbio, dal Giappone e dalla Corea del sud ci informano che la prima causa di mortalità giovanile è rappresentata dall’ Hikikomori, sindrome che descrive quegli adolescenti che vivono reclusi nella loro casa o nella loro stanza, senza alcun contatto con l’esterno, neppure con i familiari (che provvedono alle loro necessità alimentari e fisiologiche), sempre attaccati al computer. Dopo un certo periodo si suicidano. Il fenomeno comincia a diffondersi anche in America e in Europa.
Le persone anziane sono naturalmente le più esposte alla solitudine, anche se non sono prive di assistenza da parte di figli, nipoti o istituzioni sociali o religiose. Ben venga l’assistenza e mi auguro che il Ministero della Solitudine che la premier inglese Teresa May ha intenzione di istituire, non si risolva in un Ministero di Assistenza. Perché la solitudine è qualcosa di più radicale.
È l’esperienza della propria insignificanza sociale quando hai l’ impressione di non interessare a nessuno, e altro non raccogli se non un gesto di gentilezza in questa società, dove le persone passano vicine al prossimo come si passa vicino ai muri.
In una simile condizione nessuno ti vede e quindi nessuno ti guarda, per cui in un certo senso sono da invidiare quelle persone di fede che si sanno guardate dall’occhio di Dio, che sarà anche un occhio che giudica, ma almeno da qualche parte c’è qualcuno che ti guarda. E con quello sguardo ti sottrae all’abisso della solitudine, che diventa tragica quando in una coppia uno dei due se ne va e ti lascia solo al mondo, perché nessuno più ti restituisce quello che con lui o con lei hai condiviso.
Ma soprattutto – e questo è l’ aspetto più tremendo – hai perso il testimone della tua vita perché, consapevoli o meno, tutte le cose che nella vita facciamo, le facciamo perché uno sguardo le accoglie e le testimonia. Quando se ne va il testimone si perde anche la motivazione, l’intensità, la voglia che sono gli ingredienti della vita stessa. E qui la solitudine ti si offre in tutta la sua abissalità. E non c’ è parola che possa lenirla.
Umberto Galimberti è un filosofo, sociologo, psicoanalista e accademico italiano, anche giornalista de La Repubblica
In copertina un quadro di Edward Hopper (+1967), pittore statunitense, famoso per le numerose scene di solitudine dei suoi lavori.