Non poteva che finire così, nella reincarnazione del colonel Aureliano Buendia, in un contrappasso insieme crudele e magnifico.
Si dice che le grandi opere letterarie, come tutti i capolavori, sfuggono ai loro autori, vivono di una vita propria. I personaggi memorabili sembrano replicarsi, e non solo nel ricordo, sembra sempre di intravvederli nelle svolte della vita quotidiana.
Garcia Marquez, ottuagenario, ha l’Alzheimer: “le voci non mi dicono niente. Anche le facce cominciano a sbiadire”, confida ad un giornalista.
Da tempo non scriveva, sono usciti in Italia solo ristampe dei suoi lavori, recuperi giovanili, raccolte di articoli d’occasione, biografie o saggi su di lui.
Me lo immagino, con profonde rughe su quel suo viso di contadino, scosso da un tremito di febbrile concentrazione, chino su qualche oggetto misterioso, proprio come faceva Aureliano sui suoi cavallucci dorati, sui suoi misteriosi amuleti.
Marquez è l’uomo che ha scritto: “ Ognuno nasconde un tesoro che nessuno può rubare perché nessuno può rubare i ricordi e le immagini del passato: ritornano inattesi per addolcire le ore della malinconia”
Ebbene, lui non avrà accanto nulla che possa addolcire quanto gli rimarrà ancora da vivere, e questo non è giusto, per lui e per noi.
Ma forse, perdere i ricordi è anche un modo per alleggerire il fardello, per tornare in una inaspettata stagione in cui ogni cosa appare illuminata per la prima volta e l’ombra dell’oblio prelude la gioia della eterna scoperta.
Grazie, Garcia per le pagine e le parole con le quali ci hai toccato il cuore.