MAESTRO JACOPO, DEPENTOR IN SAN CASSIAN

22 Apr 2019 | 0 commenti

    LE DUE VITE DI TINTORETTO

Tra Vasari e il Manierismo, l’ascesa di un artista visionario. Uno guardo alle mostre veneziane, mentre dal 24 marzo si è aperta quella di Washington- I ritratti dei vecchi e quella rivincita sul grande Tiziano- L’uso della prospettiva e della luce ne fanno un precursore.

Tintoretto, autoritratto

A 500 anni dalla nascita, Venezia celebra Tintoretto con una coproduzione internazionale che unisce la Fondazione Musei Civici di Venezia (che, nella persona della sua direttrice Gabriella Belli, ha fortemente voluto il progetto) e la National Gallery of Art di Washington. A Venezia, fino al 6 gennaio, due le mostre portanti: a Palazzo Ducale con «Tintoretto 1519-1594» e alle Gallerie dell’accademia con «Il giovane Tintoretto». A Washington invece un’ampia retrospettiva sarà presentata nella primavera del 2019 alla National Gallery of Art. A curare la mostra di Palazzo Ducale così come quella di Washington (cataloghi Marsilio), sono gli studiosi americani, Robert Echols e Frederick Ilchman; la mostra alle Gallerie dell’accademia è curata da Roberta Battaglia, Paola Marini, Vittoria Romani (catalogo Marsilio Electa). Collegata alla mostra del Palazzo dei Dogi è l’iniziativa di Palazzo Mocenigo «La Venezia di Tintoretto». Orari e biglietti: www.visitmuve.it

Jacopo Robusti detto il Tintoretto nasce nel 1519. Un anno prima della morte di Raffaello. Primo indizio importante per addentrarsi in questo mondo fatto di pennellate intense e atmosfere che sembrano un preludio del romanticismo: nella sua lunga carriera l’artista assorbirà e reinterpreterà la grande rivoluzione di Michelangelo e del Sanzio come un dato di fatto, come una cosa naturale, senza subirne gli effetti al pari di uno choc.

Cosa che, invece, era accaduta a Tiziano, l’«imperatore» della pittura veneziana dell’epoca, di trent’anni più vecchio. Se dovessimo fare un paragone, potremmo immaginare un giovane artista «nativo digitale» che nelle sue opere utilizza con disinvoltura video o file musicali, a confronto con uno più anziano, che invece si è dovuto abituare alle nuove tecnologie.

Casa del Tintoretto in rio della Sensa a Venezia

La mostra alle Gallerie dell’accademia documenta gli inizi di Tintoretto ma soprattutto illustra il tessuto culturale nel quale si è formato, le influenze che ha assorbito per arrivare a concepire il suo capolavoro, l’opera che chiude la rassegna, Il miracolo dello schiavo, realizzato nel 1548 per Sala Capitolare nella Scuola Grande di San Marco.

Un dipinto che sa davvero di prodigio: la figura scorciata di San Marco che irrompe in verticale dentro la scena, come l’invenzione di un grande regista; la forma allungata dello schiavo, scorciata in lungo, come se dovesse fare da eco al santo che sta arrivando in soccorso; e poi i gruppi degli astanti disposti secondo un disordine quasi magico, mai visto prima.

Washington celebra il genio di Jacopo Tintoretto con una serie di grandi eventi legati all’artista veneziano a seguito degli eventi dedicati all’artista nel 2018 nel capoluogo veneto. La National Gallery of Arts, una delle massime istituzioni museali degli Stati Uniti che vanta un rapporto di collaborazione unico con le maggiori istituzioni italiane, presenterà alla stampa americana e italiana tre mostre su Jacopo Tintoretto (1518/1519–1594), organizzate nel cinquecentesimo anniversario della nascita ed aperte al pubblico a partire dal 24 marzo. La prima, “Tintoretto: artist of Renaissance Venice”, in collaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia e le Gallerie dell’Accademia di Venezia, è la prima retrospettiva dell’artista in Nord America e ospiterà circa 50 dipinti e più di una dozzina di opere su carta, inclusi molti importanti prestiti internazionali che viaggiano per la prima volta negli Stati Uniti. Ad essa si affiancano due mostre intitolate, “Drawing in Tintoretto’s Venice” in arrivo dalla Morgan Library & Museum di New York e “Venetian Prints in the Time of Tintoretto”.

L’impressione che fece sui veneziani fu probabilmente simile, nella portata, a quella che aveva fatto, nel 1516, l’assunta di Tiziano, una delle composizioni più originali della pittura dell’epoca. Ma come aveva fatto un ragazzo di bottega come Tintoretto ad arrivare a concepire un’invenzione così forte?

Certo, aveva assorbito con naturalezza i nuovi linguaggi che venivano da Roma e che si diramavano, poco alla volta, nelle città del centro nord (come Mantova). Certo, frequentava coetanei talentuosi come Bassano o vecchie star come Sansovino. Però c’è un aspetto che i curatori mettono in evidenza e che innesca un racconto suggestivo: proprio perché «schiacciato» da Tiziano, come molti altri giovani dell’epoca, Tintoretto non sceglie di copiare questa figura così ingombrante ma fa un dribbling e guarda al grande rivale del Vecellio negli anni Trenta, cioè al Pordenone.

Uno che si ispirava a Michelangelo e che aveva, a suo modo, interpretato il manierismo del centro Italia. Così Tintoretto può inserirsi in quella linea originale e coraggiosa che sfidava il «tizianesimo», poteva insomma contrapporsi alla corrente dominante e trovare una originalità attraverso una «maniera» tutta nuova. Teatralità, gusto per il magniloquente ma mai eccessivo, una certa inclinazione agli «effetti speciali». Si arriva così al Miracolo dello Schiavo: scegliendo una via traversa che passa per le linee michelangiolesche del Vasari, per la pittura coraggiosa e quasi rapita del dalmata Schiavone, per i toni fiabeschi di Francesco Salviati.

Quando Il miracolo dello schiavo venne svelato, non tutto andò benissimo: una parte della committenza ebbe da ridire, tanto che Tintoretto si arrabbiò moltissimo e minacciò di riprendersi l’opera. Però qualcosa si era sbloccato e Robusti poteva finalmente far parlare di sé non solo e non più come un «pittore veneziano» ma come un artista dalle grandi ambizioni.

Ebbe quindi numerose commissioni, compresi alcuni incarichi delicati come un dipinto storico per la Sala del Maggior Consiglio nel Palazzo Ducale. Ma la vendetta di Tiziano stava arrivando. E non da sola: presto giungerà in città un rivale molto più temibile, Paolo Veronese. Nuovo, coraggioso, bene introdotto negli ambienti. Ma questa è la maturità di Tintoretto, dunque, un’altra storia. Che si srotola a Palazzo Ducale.

Cinquanta dipinti e venti disegni sintetizzano a Palazzo Ducale la produzione della maturità che passa attraverso la ritrattistica, tappa fondamentale dell’attività di Tintoretto. Se infatti Tiziano immortalò l’establishment internazionale, il talentuoso figlio del tintore ritagliò per sé il ruolo di pittore ufficiale della gerontocrazia veneziana.

E c’è un motivo preciso: a partire dagli anni Cinquanta Tintoretto subentrò a Tiziano nell’incarico di ritrattista dei dogi, tutti uomini che conquistavano la carica nella maturità. Ma mentre il pittore di corte degli Asburgo si manteneva fedele alle convenzioni che imponevano di conferire al modello una dignità aulica, enfatizzata da abiti lussuosi, gioielli, tendaggi, Tintoretto lavorava invece per sottrazione, finendo per togliere anche la minima ombra retorica e ogni riempitivo dell’immagine. Concentrava la luce su viso e mani e da lì traeva tutti gli elementi realistici che gli servivano a svelare l’anima dei suoi modelli.

Non si limitava a guardarli con oggettività, ma li metteva in posa con lo sguardo direttamente rivolto al riguardante producendo così una scossa emotiva, un rapporto diretto e coinvolgente. Ma per conquistare il ruolo di pittore di Stato, Tintoretto non si era semplicemente affidato al talento.

Come suo costume, aveva studiato una strategia. Ambizioso, venuto dal nulla, senza maestri né appoggi, ma molto determinato a sfondare nell’iper competitivo ambiente artistico veneziano, si era fatto notare esponendo alla Merceria — vetrina per i giovani — due ritratti: il proprio e quello di suo fratello «finti di notte, con si terribile maniera, che fece stupire ognun’uno», racconta il biografo Claudio Ridolfi. Quel quadro non doveva essere dissimile dall’autoritratto che apre la mostra di Palazzo Ducale, arrivato dal Philadelphia Museum of Art: gli stessi occhi «di brace», arroganti e affamati di gloria e di soldi con cui si presenterà anche il giovane Caravaggio. La tattica di conquista del mercato resterà identica per tutta la vita: attuare una spietata «concorrenza cinese» consistente nell’abbassare i prezzi e «tirar via di pratica», come disse Vasari che disapprovava la sua velocità. Tintoretto si mise a offrire ritratti di piccole dimensioni, limitati alla testa e alle spalle, eseguiti rapidamente e a costo ridotto e il successo fu facile. Approfittando delle assenze di Tiziano, nel 1551 il figlio del tintore risultava già pittore di Stato e tutta l’élite politica e intellettuale sedeva davanti al suo cavalletto.

Tranne le donne. Tintoretto ne dipingerà poche e non riuscirà mai a rubare al rivale La vecchiaia Jacopo Tintoretto, Autoritratto, 1588 ca, Parigi, Musée du Louvre, in mostra a Palazzo Ducale l’impareggiabile dono di restituirne la sensualità. I vecchi, al contrario, furono il suo cavallo di battaglia. Negli anni ‘70 e ‘80 i ritratti dei venerandi che conquistavano le più alte cariche della Serenissima costituirono la parte preponderante della sua produzione: una parata di dogi, magistrati, vecchi combattenti, restituiti senza alcun intento idealizzante, ma anzi con il volto affaticato dall’esperienza e dal peso delle responsabilità.

Non eroi; non potenti ambiziosi; ma uomini provati, intenti a contemplare, con gli occhi cerchiati di nero, le palpebre gonfie e le guance scavate, la melanconia della vicenda umana. Una carrellata di anziani in cui Tintoretto infilò i soggetti. Una parata di dogi o magistrati restituiti con il volto affaticato dalla lunga esperienza. Non faceva le vedute ma colse il carattere della sua città nei volti dei suoi abitanti anche se stesso, nel magnifico autoritratto che chiude la mostra, arrivato dal Louvre.

A fine percorso ci troviamo così di nuovo faccia a faccia con le sembianze dell’artista, ma il giovanile sguardo di sfida è diventato di un’intensità emotiva così intima che ora sembra cercare la confessione. A settant’anni, ricco di gloria, Tintoretto è triste. Nessun dettaglio allude alla sua attività di pittore. Quell’estremo autoritratto appare come un legato tragico della propria esperienza di vita e arte: sic transit gloria mundi.

Il racconto Tintoretto dipinge Venezia perché prende il contenuto, non il contenitore. La città viva, non la città vuota, da cartolina. Tintoretto, più di tutto, dipinge i veneziani, l’energia e l’astuzia di quella potenza. Fa ritratti, più di un centinaio con la sua bottega; passano da lui i dogi e i patrizi di secondo piano, i membri delle Scuole e i mercanti. Ma poi ruba i loro piedi, le loro barbe, i loro seni, anche per fare i santi, i personaggi della mitologia antica, le figure di contorno. Prende i volti, la furbizia e la gloria. Prende i vecchi e i giovani. I vestiti, la ricchezza, i tappeti e gli specchi, i pizzi e le gorgiere. Non è sua, la rivoluzione del Rinascimento, della verità dei tratti, ma lui la amplifica. La porta verso il destino, attraverso la luce. Per questo, Venezia non è solo negli uomini, negli interni. Venezia c’è nelle grandi scene, perché c’è il suo cielo, ci sono le nubi scure come coperchi di rame, i colori, e l’impeto con cui cambiano.

Articolo di Roberta Scorranese ( rscorranese@corriere.it)

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