Oggi è Pasqua e secondo le previsioni avrebbe dovuto piovere a Torino, invece c’è un sole bellissimo e dalle vicine montagne giunge un’aria di neve che avvolge stuzzicante la città.

I modi di dire, a ben guardare, svelano impietosamente la fallacia del pensiero umano, e di come raramente l’uomo sa ragionare oltre una prospettiva antropologica.

Non è solo questione del  limite esistenziale, battito di ciglia che vale assai meno del più piccolo e remoto bagliore che annega nel nero dell’universo.

E’ soprattutto la pretesa dell’uomo di porsi al di sopra della natura, spesso contro la natura, non essendo viceversa che un mero accidente della stessa.

I parametri di giudizio non possono che essere lo specchio di questo modo di concepirsi.

Per tornare al titolo di questa riflessione: cosa vuole dire stagione?

Per il meteorologo una convenzione scientifica, date dalla quale e fino alla quale avvengono, con palese variabilità, alcuni fenomeni.

Nella esperienza collettiva, stagione è non più di una impressione o una serie di ricordi, con la inevitabile conseguenza che la stagione diventa bella se associata a bei ricordi, magari di gioventù, brutta se ci ricorda tradimenti o malattie.

Per non parlare poi dell’aggettivo bella, concetto estetico che si presta alle dispute più feroci e inconciliabili.

Si potrà osservare, senza troppi sofismi, che bella vuole dire mite, soleggiata, azzurra, ecc. Ma basta una semplice domanda per dimostrare la non plausibilità del termine: in Africa, magari nel deserto del Sahel assetato, il sole non manca, ma chi si azzarderebbe a definire bello quel clima?

Quindi stagioni e belle sono due termini su cui da secoli si esercita la vanità umana, la sua pretesa di disciplinare il tempo incasellandolo a piacimento.

Solo riflettendo sulla labilità delle parole possiamo apprezzare l’eloquenza del silenzio.