NON VOGLIO ANDARE OLTRE

2 Set 2021 | 0 commenti

«Soffro troppo, lo Stato mi lasci morire»: l’appello di Mario, 43enne marchigiano, tetraplegico dal 2010 dopo un incidente. Ha chiesto di accedere al suicidio assistito. «L’ho detto ai miei familiari e hanno capito».

«Se io potessi prenderei tutti i medicinali della sera, li metterei in un bicchiere e li manderei giù, ma non posso farlo da solo. Se un uomo dice una cosa del genere è perché è arrivato al limite. Come fanno a non capirlo?».

Come fanno chi? La Asl?

«Sì, la Asl. Prima la Corte Costituzionale e poi il Tribunale di Ancona hanno detto che devono farmi questa benedetta visita medica e invece loro non la fanno».

E se non la fanno non innescano i passaggi verso il suicidio assistito.

«Esatto. Se non la fanno e non mandano l’esito al Comitato etico non si può stabilire se ci sono o no i requisiti per il suicidio assistito, di conseguenza nessun medico può prescrivermi il farmaco letale. In pratica la Asl mi sta dicendo: puoi soffrire ancora. Anzi, di più, mi indica la strada che dovrei percorrere».

Che sarebbe?

«Secondo loro se proprio voglio morire posso sempre accedere alle cure palliative. Ma perché? Quella morte è dignitosa? Fine dei trattamenti e sedazione profonda: potrei durare giorni, incosciente e disidratato, consumarmi sotto gli occhi di mia madre, mio fratello, i miei amici… Perché non darmi la pozione letale? Facciamo questa visita, vediamo se ho i requisiti per morire (e io sono sicuro di sì), prendo il farmaco e muoio in pochi minuti, con dignità».

Maglietta azzurra e gambe immobili infilate in un paio di jeans, quest’uomo parla di dignità e fine vita con la dolcezza di un innamorato che parla della sua amata. Non c’è niente di disperato, non c’è depressione e non c’è lamento in quel che dice. Solo la consapevolezza di aver assaporato ogni frutto possibile della sua vita, di «averle provate tutte per vedere fin dove potevo arrivare», come dice lui, «e ora non posso e non voglio andare oltre». In questo racconto si chiamerà Mario ma non è il suo nome. Vive nelle Marche, 43 anni. Era un trasportatore.

Luca Cappato

Mario, com’è diventato tetraplegico?

«È stato una sera d’autunno del 2010, tornavo a casa in macchina. Su un rettilineo un’auto che veniva dall’altra parte ha invaso la mia corsia e io ho sterzato d’istinto, ho preso il palo della luce, l’albero, il casottino dei bagni pubblici…».

Quando ha capito di essere paralizzato?

«Subito. Ricordo che provavo a prendere il marsupio per chiamare casa e ho realizzato che non muovevo più niente. Sono arrivati due ragazzi a soccorrermi e io capivo che stavo per morire, mi mancava l’aria. Gli ho detto: non mi toccate, credo di essermi rotto l’osso del collo. E poi ho chiesto una sigaretta. Per me era l’ultimo desiderio, e mentre quei due mi tenevano la sigaretta per farmi fare i tiri io dicevo: dite a casa che gli voglio bene».

E invece l’hanno salvata.

«Dicevano tutti che sarei morto, ero in condizioni molto critiche. Sono stato in coma farmacologico. Sa quando gli infermieri ti aprono l’occhio e ti chiamano per nome? Forse in quel momento il cervello si attiva perché quando mi sono svegliato avevo in testa un miscuglio di situazioni che erano un po’ quel che sentivo dire e fare attorno a me e un po’ no. Ho vissuto giorni di semirealtà, surreali».

In che senso?

«Chiedevo di essere addormentato ogni volta che mi svegliavo, sognavo che ero morto, tumulato, il funerale. Qualcuno chiudeva il coperchio della bara e io attraversavo il centro della terra ed entravo in un mondo meraviglioso: sole, animali, natura, momenti bellissimi. Poi riaprivano il coperchio e tornavo indietro nella realtà. Vedevo i miei e non capivo. Sono morto? Lo sono anche loro? Ero intubato, non parlavo, sono stati giorni davvero strani. Sono tornato a casa a luglio del 2011, fra i ricoveri successivi ci sono tre mesi di riabilitazione in cui ho ottenuto questo».

Muovere il braccio destro.

«Sì, lo alzo con la forza della spalla e questo mi serve per usare il mignolo. Si solleva il braccio e quando lo lascio ricadere il mignolo batte sulla tastiera del computer, del telefonino, del telecomando. È il mio unico movimento».

Quando ha deciso di voler morire?

«Nel 2015. Una domenica pomeriggio ero con babbo, in cortile. Mi ha chiesto che intenzioni avessi per il futuro e gli ho risposto: finché riesco vado avanti, poi faccio di tutto per avere il suicidio assistito in Italia, se non ci riesco vado in Svizzera. Io so che lui ha capito, è morto l’anno dopo».

A sua madre come l’ha detto?

«Quando è morto in Svizzera Fabiano (dj Fabo, ndr) tutti parlavano di lui e io le ho detto: è la fine che andrò a fare io, mamma. So che poi starà male ma nessuno più di lei sa come sto io, quello che patisco. Dolori, contrazioni, umiliazioni del corpo, fatica, infezioni, problemi al catetere…».

Quindi ha abbandonato l’idea di andare in Svizzera?

«Mi ero dato una scadenza: dovevo mettere da parte 13 mila euro che servivano e poi sarei partito. Mi sono informato, iscritto, ho mandato i documenti, ho ottenuto il primo semaforo verde. A settembre 2020 ero pronto».

E poi ha rinunciato?

«No. Ho cercato Marco Cappato per ringraziarlo per quello che fa per gente come me. E lui mi ha detto: dopo la sentenza della Consulta hai una possibilità anche in Italia. E così mi sono legato all’Associazione Coscioni, ho iniziato

Le giornate a letto

Chi pensa che io abbia torto a non voler vivere? Venga a casa mia una settimana, poi capirà

a sentire Filomena Gallo, avvocata e segretario dell’Associazione. Insomma: ho cominciato a sperarci, mentre le difficoltà fisiche crescevano».

Chi altro sa della sua scelta di morire?

«Mio fratello, i 3-4 amici di sempre e le persone più care che mi hanno aiutato in questi 11 anni. Li ho chiamati uno ad uno e ho spiegato perché. Ho detto a tutti la stessa cosa: io non piango, non urlo di dolore, non mi lamento, a volte scherzo perfino, ma voi mi vedete un’ora e poi tornate alle vostre vite, le altre 23 sul letto ci sto io e le giornate sono lunghe, con la sofferenza addosso sono infinite».

Cosa vuol dire a chi nella Asl le nega quella visita?

«Che sta facendo una cosa grave, sta negando un mio diritto. Filomena Gallo ha inviato una notifica e una diffida: hanno pochi giorni per darsi da fare, poi mandiamo avanti la denuncia penale per omissione di atti d’ufficio. E c’è un’altra cosa che farei: inviterei a casa mia chi pensa che io abbia torto a non voler vivere. Chiunque tu sia ti invito: stai accanto a me per una settimana. Poi capirai».

Articolo di Giusi Fasano per la Stampa

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