PRINCIPE POVERO

4 Set 2017 | 0 commenti

Bambini rom giocano in un villaggio nella zona di Argeș, nel sud della Romania,novembre 2009

Non ho avuto molti rapporti con la famiglia di mio padre. La mia famiglia è sempre stata quella di mia madre. Da noi essere alla moda era una preoccupazione costante, viste le nostre origini aristocratiche. Il nonno era il fabbro del villaggio, e per qualche anno la nonna è stata una specie di sindaca della comunità rom. Il motivo era sicuramente il nostro sangue blu, non il fatto che fosse l’unica rom (termine corretto per zingara) che sapesse leggere e scrivere almeno un po’.

La sola foto che ho di loro è emblematica della passione della nostra famiglia per l’arte: i miei nonni se ne stanno seduti su due sedie eleganti in mezzo alla strada, nei loro vestiti migliori. I pantaloni di nonno hanno un risvolto in puro stile hipster e sono stretti alla vita con una corda, e la camicia è di un bianco impeccabile. La nonna indossa il suo vestito buono, e in testa non ha il fazzoletto. Nel nostro villaggio, nel 1975, era una cosa davvero rivoluzionaria. Sono entrambi scalzi, e alle loro spalle si vede una cavalla che pascola al bordo della strada e il cugino Nelu, artista e bohémien, tutto nudo: era estate, e nonna non passava certo tutto il giorno a lavare.

VESTIVO DA FUNERALE

Mia madre ha ereditato il sangue blu dei miei nonni. Ha sempre avuto le idee molto chiare su come dovessimo vestirci. Ho il sospetto che fosse ispirata dall’abbigliamento dei funerali, altrimenti sarebbe difficile spiegare la sua passione per le scarpe di vernice e i vestiti neri nel bel mezzo dell’età dell’oro del comunismo. Il risultato è che ero lo zimbello di tutta Budrea, dove i bambini della mia età erano sempre nudi e scalzi, mentre io sembravo pronto a ricevere la visita della regina d’Inghilterra.

Un gruppo di Rom ascolta Matteo Salvini a Roma, febbraio 2016

L’adolescenza e la mancanza di uno specchio avevano su di me un effetto spaventoso

L’inizio degli anni ottanta è stato un periodo molto difficile. Stavamo in nove in un appartamento di 58 metri quadrati. Gogu e papà erano alcolisti, zia Ana faceva la casalinga, e non avevamo un soldo. E se anche ne avessimo avuti, non ci sarebbe stato nulla da acquistare. Mamma comprava le scarpe facendo in modo che potessero andare bene al maggior numero di persone in famiglia.

Io, per esempio, ho avuto un paio di scarpe che erano state portate da mia madre, da mia sorella e da mio fratello. Mi piaceva un sacco giocare a pallone e, tornando a casa da scuola, prendevo sempre a calci qualche castagna o qualche sasso. Il risultato era che le mie scarpe avevano perennemente la suola bucata. La riparavamo con il nastro adesivo.

La mia uniforme scolastica era sempre pulita e perfettamente stirata e le mie camicie erano dure come il legno, a causa della passione di mia madre per l’appretto.
In quel periodo sono diventato celebre tra i ragazzi con cui prendevo l’autobus perché l’adolescenza e la mancanza di uno specchio avevano su di me un effetto spaventoso, che si manifestava anche nell’abbigliamento: mi capitava di indossare una scarpa elegante al piede sinistro e una da ginnastica al destro, o di sperimentare metodi mai visti per abbottonare le camicie.

La testa nel pallone
Giocavo molto a basket, ma le scarpe da pallacanestro esistevano solo nei miei sogni più scatenati. Le uniche cose che possedevo che gli somigliassero almeno un po’ erano delle scarpe da boxe. I miei amici, che occupavano tutti una posizione un po’ più elevata nella scala sociale, si mettevano a ridere quando mi vedevano giocare a pallacanestro vestito con un paio di mutandoni, la maglia bianca d’ordinanza e le scarpe da boxe.

Ogni tanto Edi, un mio compagno di classe, mi prestava le sue scarpe da ginnastica della marca tedesca Romika. Escluso il sesso, niente era paragonabile al piacere di correre con delle vere scarpe sportive ai piedi. Durante l’ultimo anno di liceo un giorno sono capitato per caso in un negozio di sport proprio mentre scaricavano le scarpe da basket. Erano bianche con una striscia bordeaux. Il paio più piccolo era numero 45. Io portavo il 41 e mezzo. Le ho comprate, ho messo del cotone all’interno per farmele andare bene e mi sono sentito finalmente molto fiero di me stesso.

Non sono più povero, ma non per questo mi sono convinto di discendere da una stirpe di principi

All’inizio degli anni novanta mia madre faceva le pulizie da una donna tedesca che lavorava nella fabbrica tessile della città. Aveva più o meno la mia taglia, e per qualche anno ho portato i vestiti che lei non indossava e che regalava a mia madre. Qualche volta è capitato anche che degli uomini ci provassero con me per il mio abbigliamento.

Ci ho messo anni a capire che i vestiti maschili non sono uguali a quelli da donna. Ma l’esperienza è stata utile per educarmi all’omofobia tipica della nostra cittadina. In seguito, ho cominciato a comprare i vestiti al mercatino dell’usato di Craiova, dove in realtà si trovavano soprattutto cose rubate in Germania.

Per anni ho giocato a pallacanestro con i boxer, pensando che fossero calzoncini. Anche il mio primo paio di vere scarpe da basket l’ho comprato di seconda mano, in un mercatino in Inghilterra. Erano delle Nike, pagate tre sterline. Con lo stesso entusiasmo con cui mettevo i vestiti della signora tedesca, indossavo anche l’unico abito in mio possesso, che però mi stava malissimo perché doveva andare bene anche a mio padre, il quale era cinque centimetri più basso di me e pesava 15 chili in più. Per un bel po’ di tempo ho comprato solo scarpe in svendita. A volte erano troppo grandi, altre volte troppo piccole. Ma l’importante è che erano scontate.

Oggi mi vesto con maggiore cura, e credo di ragionare e di agire meglio rispetto a vent’anni fa. Il che non vuol dire che sono diventato un Coco Chanel. Non sono più povero, ma non per questo mi sono convinto di discendere da una stirpe di principi. Scrivo questo perché, negli ultimi tempi, ho visto un mucchio di idioti che, per il solo fatto di essere arrivati in tv o di aver conquistato qualche carica o qualche incarico pubblico, si sono convinti di essere diventati degli Einstein della politica, del giornalismo o della cultura.

Soprattutto, però, negli ultimi tempi mi sembra che il numero di questi Einstein sia cresciuto pericolosamente. Il fatto che io sia stato povero e che sia perfettamente consapevole delle stupidaggini che sono capace di dire, pensare e scrivere mi rende immune a questo terribile virus, che in Romania ultimamente sta mietendo sempre più vittime.

(Traduzione di Mihaela Topala) Questo articolo è uscito sul settimanale romeno Dilema Veche e sul settimanale www.internazionale.com

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