TONI CIBOTTO

11 Gen 2018 | 0 commenti

 

 

Ad agosto dell’anno appena passato è morto Gian Antonio Cibotto, Toni per tutti quelli che l’hanno conosciuto o letto. Era nato nel 1925, aveva 92 anni, quasi tutti trascorsi a Rovigo, dopo qualche anno a Roma, sùbito dopo la laurea, con Cardarelli e Fabbri.

 

 

In bilico fra attività giornalistica e la riscoperta del repertorio del teatro popolare veneto, si trovò a fare il mestiere dello scrittore quasi per caso, come nota Cesare De Michelis:..” trascinato dagli avvenimenti, spinto dall’urgenza di testimoniare per rendere giustizia, senza esplicite ambizioni letterarie, ma ricco di un vivo senso morale”

Toni Cibotto in una foto giovanile

E’ quanto si legge nella nota a commento del libro Cronache dell’alluvione (Marsiglio editore,1980),  testo che meglio caratterizza Cibotto e che segna il suo esordio come “regolare uomo di penna”, com’ebbe a scrivere Eugenio Montale sul Corriere del 6 ottobre 1954.

La grande alluvione del novembre del 1951 cambiò il Polesine per sempre, ne allontanò gli uomini, e chi rimase o tornò si trovò cambiato.  Successe così a Toni Cibotto, che ancora nel 1961 scriveva a Livio Rizzi, il maggior poeta polesano, “di essere stato costretto ad amare una terra da cui sognavo unicamente di andarmene”. In questa affermazione c’è molto della natura un po’ lunatica e umorale di Toni, la sofferenza che gli derivava del senso di soffocamento per la ristrettezza della vita provinciale.  Ma in realtà Rovigo è veramente città ristretta nella sua pochezza?

 Vale la pena di riportare queste poche righe, tratte dal libro Rovigo, i tempi e i luoghi, scritto da un altro polesano da poco scomparso, anch’egli giornalista fine e delicato, Sergio Garbato.

Sergio Garbato (Foto Donzelli)

“”Rovigo appartata città di provincia? Forse sì, ma ormai tanto tempo fa. Rovigo città di campagna come suggeriva uno scrittore che l’ha molto amata? Sì, ma oggi la campagna è lontana. Rovigo città di confine? Certamente, ma con misura. Rovigo città d’acqua? A patto, però, di tenere a mente che è tutto il territorio a essere stretto tra i due maggiori fiumi d’Italia e tagliato in ogni direzione da altri fiumi e canali. Rovigo città di pianura? Naturalmente, ma i colli euganei sono a due passi e le loro forme si profilano nell’azzurro quando il cielo è terso. Rovigo città d’arte? Se ne parla in tempi recenti e i capolavori e le raccolte preziose non mancano. Rovigo città di poeti? Ce ne sono stati diversi e hanno lasciato traccia vivida e affettuosa. Per cogliere l’identità smemorata e smemorante di questa città si può, forse, cercarla con il cannocchiale rovesciato della storia, magari per trovare il segno di una duplicità che si manifesta in ogni tempo ma in modo diverso. Ci sono le vestigia di un castello medievale perduto che si affaccia su una strada di grande traffico urbano, per riconoscersi nello specchio deformante del presente. C’è la città estense e c’è quella veneziana, con palazzi prestigiosi e la memoria affascinata di stagioni d’arte e cultura, ma anche di complesse vicende idrauliche. C’è la piazza grande e c’è quella più recente e attigua che occupa lo spazio che era stato di una chiesa e una terza che si apre là dove era il ghetto ebraico. C’è un duomo luminoso e maestoso, ma c’è anche l’antica chiesa francescana che ancora offre i suoi tesori e poco oltre un tempio dedicato alla Vergine che è anche il trionfo del manierismo veneto. A percorrerla e ripercorrerla, Rovigo offre stimoli e suggerimenti, ma con pudore e reticenza, come ha sempre fatto, in un continuo intreccio di presente e passato. Una città disseminata di segni e indizi che non si lasciano catturare al primo sguardo..”

In realtà senza il Polesine e la sua gente Toni non avrebbe potuto scrivere. Lo dimostra la sua produzione, lo dimostra il rammarico, lo sdegno che fanno da contrappunto all’asciutta cronaca di quel 14 novembre e delle settimane che ne seguirono.

“Gente indocile la polesana, amara, di poche parole, sentenziosa e amante del vino e delle strambe fantasie; gente violenta, rissosa, eppure piena di abbandoni, capace di avarizie feroci e di squisite gentilezze, portata alla solitudine, ai pregiudizi, alle superstizioni, con individualità, come ha scritto Marchiori [Giuseppe Marchiori, critico d’arte e giornalista, nato a Lendinara nel 1902. n.d.r.], del tipo toccato dalla follia”

Nello scarno libretto l’immagine del fiume in rotta e che tutto divora e sommerge è resa con la partecipazione dell’esperienza, in presa diretta diremmo oggi.

“Incontriamo il Po. E’ così gonfio che tra la riva e il pelo dell’acqua ci sarà mezzo metro. Fa un’impressione tremenda… Le golene sono completamente sommerse. Fra i pioppi spunta ogni qual tratto gente che trascina le masserizie sulla strada… Oltrepassata la grande curva golenale, arriviamo in vista del fiume. Sembra il mare. Corre lento, gonfio, terroso, portandosi dietro migliaia di relitti che vengono a urtare contro la riva come trottole”

“Ore 20,30. E’ arrivata la notizia, portata non si sa da chi, che il Po ha rotto… Vedo frecciare la macchina del Gazzettino… mi informano che il Po ha rotto a Occhiobello e Paviole dove siamo diretti… Sfiliamo accanto a una litania di gemiti, lamenti, richiami, smarrimenti, invocazioni. Sono dovuti scappare così come si trovano…i più fortunati hanno potuto tirarsi dietro le bestie, che legate ai carri osservano pigramente il trambusto. Sembra di essere tornati indietro di qualche anno, ai giorni della guerra: lo stesso scappare disordinato, lo stesso guardare implorante.”

“Lo scroscio dell’acqua è assordante, pauroso. Siamo oramai in vista delle squarcio. L’acqua entra con una velocità e un fragore di cascata, scaraventando onde furiose contro l’argine, che si sgretola aprendo sempre più la bocca”

 A rendere incalzante il racconto non mancano episodi gustosi, descrizioni di caratteri, riflessioni morali, come questa: “.. nulla nella vita ci rende comprensivi e tolleranti come la coscienza della nostra debolezza, e nulla più feroci d’una debolezza che per timore fuori luogo, ci porta a considerarla uno stato d’inferiorità, da dissimulare. In fondo l’amore, il bisogno di confidenza, nasce dalla reciproca consapevolezza d’una inferiorità e dal bisogno di superarla aiutandoci con la mano di un’altra persona. L’egoismo invece da una inferiorità che ha paura di se stessa, e si giudica peccato, ombra morale, segno infamante”

Né, lasciandosi per un attimo la tragedia alle spalle, mancano i momenti lirici: “ Lendinara, annunciata dalle agili ciminiere che s’incastrano di prepotenza tra la carovana di lunghe nuvole ingombranti il cielo, ci accoglie con la sua notturna dolcezza di paese scampato al disastro. Una dolcezza fatta di strade tranquille e deserte, di luci che si allargano timorose dai lampioni, di canti isolati che svaniscono in lontananza, di rumori sommessi sulla piazza sbiancata dalla luna, di vento odoroso d’erba, spinto a folate discontinue dall’Adige vicino”

Le Cronache sono inframezzate di proverbi, un modo per l’autore per riportare al centro, con la loro saggezza popolare, i protagonisti di quei giorni.

Cesare De Michelis, editore e amico di Toni. E’ a capo della Marsiio editori in Venezia

Uno, in particolare, sembra riassumere paradossalmente tanto disastro e tanta sofferenza: “L’acqua e ‘l cuor fa morir in silenzio”.  Il silenzio notturno, la case spettrali, le stalle vuote, la fila degli scampati composta e inerte. La vera disperazione, ci dice Cibotto, non gesticola, è muta, è impietrita. E i lamenti più dolorosi sono quelli delle bestie: “ Non ho mai sentito lamento più doloroso di quello delle bestie. Specie o buoi e i cani. Passando davanti alle stalle o alle case di campagna, udiamo continuamente il loro richiamo. Finisce con un rantolo sordo, strozzato, come un lamento senza speranza”.

Elisabetta Sgarbi, che Toni incoraggiò nei suoi primi passi come editrice. La Nave di Teseo si appresta a pubblicare quest’anno l’opera omnia di Cibotto.

Sfuggendo alle descrizioni neorealistiche, immergendosi nell’esperienza dell’alluvione col corpo e col cuore prima che con la mente, Toni Cibotto scrive un resoconto di straziante normalità, schietto e ancora oggi commovente, che apre più speranze di quelle che sembra volere abbandonare. E’ bene che Toni Cibotto abbia scelto di essere primo a Rovigo, piuttosto che ultimo a Roma. Se no non avremmo avuto il piacere di conoscerlo, nè avute le Cronache dell’alluvione, un piccolo classico minore che vale la pena rileggere, per ricordare un uomo serio e uno scrittore di razza.

 

 

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