RIPRENDERSI LA VITA

RIPRENDERSI LA VITA

RIPRENDERSI LA PROPRIA VITA DA VECCHI, APPLICANDO IL TEOREMA SCALFARI: FOTTENDOSENE. RECENSIONE SENZA INIBIZIONI DI VITTORIO FELTRI AL LIBRO DI ANTONIO POLITO PROVE TECNICHE DI RESURREZIONE.  

Tutto si può dire di Antonio Polito, uno dei migliori giornalisti su piazza, vicedirettore del Corriere della Sera, ma non che abbia l’ attitudine ad emozionare il prossimo.

La sua prosa è leggera, razionale, nessun ricciolo sentimentale. Non usa i colpi bassi della malinconia. Eppure è riuscito a commuovere il sottoscritto per l’ ingenuità con cui ha affrontato un’ impresa disperata. Con anima candida, affiorata in lui come il burro dopo essere stata centrifugata dalla vita, si è cimentato in un esercizio da pazzi e senza rete: esaltare la vecchiaia.

Essa gli è tutta davanti, è una parete in cui non ha ancora piantato un chiodo. Ma quale un Cristoforo Colombo che non ha sciolto le vele della Santa Maria, cerca di mostrare a se stesso, ai coetanei, e al mondo intero, che le Indie dei tesori infiniti sono appena oltre l’ orizzonte, così Polito fa con la canizie, sostenendo che è il massimo, ed è una divinità barbuta che versa cornucopie di bellezza, grazie e ricchezze non solo sui vecchi, anche sui giovani dai quali perciò si aspetta onori, gratitudine e forse pure baci da seriche ragazze in fiore. Figuriamoci.

polito cover

Vorrei dirgli: giovane, che ne sai? Tu hai 63 anni, ti tieni in forma facendo ginnastica che non so per quale motivo adesso si chiama Pilates, sei un principiante della senilità, essendo giunto appena nel suo vestibolo, ti stai sistemando le mutande senza pannolone nello spogliatoio, però non hai cominciato a giocare, e già discetti del modo di vincere una partita impossibile. Ho detto della commozione.

Perché? Perché Polito ha ragione: non serve aver ragione contro la protervia del destino. S’ intende: il libro (Prove tecniche di resurrezione. Come riprendersi la propria vita, Marsilio, pp.

polito155, ? 17) è bellissimo. Scritto da dio. Documentato. Ha persino perle di poesia e trasmette buon umore. Tuttavia ha un torto (o un merito?) inesorabile: è perfetta utopia. Polito si veste da Peter Pan e crea un’ isola che non c’ è.

Purtroppo, come dice una pellicola dei fratelli Coen: questo non è un mondo per vecchi.

NEO-REALISTICO Il racconto è da film neo-realistico. Un giorno, improvvisamente, quella faccia davanti allo specchio, non è più la tua. Era una vita che ci convivevi, bella o brutta, ti ci ritrovavi. Ma ecco sei un altro, inizia un altro te stesso, non solo una nuova età, ma sei tu ad essere una nuova, anzi vecchia bestia.

Come provare ad essere felici, o almeno a cavarsela, mentre le forze si smorzano, e intorno scorgi sguardi che suggeriscono: «fatti più in là, tocca a noi»? Le cose sono peggiorate ai nostri dì a causa del diffondersi del linguaggio eufemistico: per non dire che hai oltrepassato l’ invisibile soglia, e sei vecchio, anziano, hanno addirittura introdotto la formula «grande adulto», poveri noi, che falsità, che trucchi ridicoli.

A tale avvenimento piuttosto importante nella vita di ciascuno – dopo il quale ce n’ è solo uno piuttosto seccante, dotato di falce -, e a come viverlo bene, è dedicato questo saggio romanzesco, che merita di essere letto d’ un fiato e poi meditato, attingendone lo spirito battagliero e i consigli pratici. Dico ciò a prescindere dal fatto, già annunciato, che io non ci credo. Credo nei particolari raccontati da Polito, adoro i suoi consigli. Tuttavia la prospettiva finale, e cioè che la vecchiaia possa essere un Eden, sia pure moderato, senza guizzi a causa del mal di schiena, somiglia a quei proverbi consolatori, tipo «sfortunato al gioco, fortunato in amore», con cui il popolo sistema gli sfigati.

gennaro sangiuliano antonio polito vittorio feltri aldo cazzullo

GENNARO SANGIULIANO, ANTONIO POLITO, VITTORIO FELTRI, ALDO CAZZULLO

Certo, ci sono soddisfazioni ineguagliabili che ci si può prendere passata una certa età, ed è la possibilità di dire la verità, fottendosene. È quella che è stata chiamata la «mozione Scalfari». Il fondatore di Repubblica se ne uscì con codesta frase: «Se uno attraversa il decennio novanta-cento, e io sono a novantaquattro, allora quello è uno che… scusate… è uno che se ne fotte». Polito propone di non aspettare quell’ età, di cominciare subito a sessantacinque anni. Personalmente, l’ ho fatto. È la libertà che è il dono più prezioso che regalano gli dèi agli anni che passano. Si è prigionieri di un fisico ammosciato, ciononostante ci si è disfatti di altre catene: il conformismo, che non è affatto prerogativa della senescenza ma degli imberbi. Me ne rido della reazione scandalizzata dei giovani, o di quelli che si fingono tali per piacere, che pretenderebbero il servilismo dei vecchi alle idee correnti.

antonio politoESERCIZIO TERAPEUTICO In realtà questa è l’ epoca caratterizzata non dall’ islamofobia o dall’ omofobia, infatti musulmani e froci non sono mai stati così coccolati e vincenti, bensì dalla emarginazione e dalla crudeltà contro i vecchi. Per usare un termine coniato in rima con i precedenti siffatta attitudine persecutoria è definita «ageofobia», caratterizzata dall’ «ageismo». Sarebbe il razzismo contro chi è “in età”. Se non avete mai sentito questi termini sociologici, scovati da Polito, ciò dimostra che il risvolto aggressivo della società contemporanea contro la non più «venerata canizie» esiste eccome, al punto che in vigore c’ è il pregiudizio contrario, vale a dire il dominio della gerontocrazia. Vecchio è ormai un aggettivo spregiativo. Così si legge spesso «vecchio porco», invece giovane porco non esiste. Si guarda con un certo schifo un signore anziano che è rallegrato da una bella ragazza, o una donna matura che si accompagna a un giovanotto, quasi che le rughe siano viziose in sé. Si ritiene, non tanto sotterraneamente, che qualunque cosa faccia un anziano (lavorare, governare, amare, insomma vivere) sia un usurpare ciò che di diritto spetterebbe alla generazione successiva. E perché?

antonio polito vittorio feltri franca leosini

ANTONIO POLITO, VITTORIO FELTRI, FRANCA LEOSINI

Perché sì.

Per levare assurdi complessi di colpa a chi si sta avviando o ha scavalcato i sessantacinque anni di età (in Italia siamo tredici milioni e mezzo) la lettura di Polito è un esercizio terapeutico perfetto.

Fa crescere l’ autostima. Il problema è che Antonio, neofita della vecchiaia, mette l’ asticella troppo in alto. Parlando di felicità esagera. Cala Trinchetto. Del resto è egli stesso a citare Solone che dice al ricchissimo Creso: «Nessuno dei viventi è felice». Provarci va bene, contare di riuscirci è illusione. Quanto a tentare la resurrezione, il mio responso è che se ci si prova, a risorgere, ci si schianta. Prometeo è finito incatenato alla rupe con un’ aquila a mangiargli il fegato. I cristiani – al cui concetto di resurrezione Polito si riferisce – non pensano di farcela da soli, chiedono soccorso, però per ora non è risorto nessuno tranne il Numero 1. Tuttavia, se si esclude il traguardo inarrivabile, le pagine pullulano di consigli salutari, che mi sento anch’ io di sottoscrivere. Due tra i tanti.

Coltivare la pazienza e l’ umorismo. Vero è che a essere trattati come rottami, fa venire il nervoso. Si può resistere. Consoliamoci pensando che i giovani, i quali guardano male noi anziani, quasi fossimo scrocconi che gli occupano il posto auto, soffriranno quando noi avremo finito di patire. Così imparano.

Articolo di Vittorio Feltri per Libero Quotidiano

SCALFARI COL FELZ

SCALFARI COL FELZ

Paolo Flores d’Arcais (a sinistra) e Eugenio SCalfari

“Eugenio Scalfari ha sempre sostenuto che il suo impegno giornalistico fascista fosse iniziato nella seconda metà del 1942 su “Roma fascista”. In realtà, diversi mesi prima, con gli articoli su “Gioventù italica” e “Conquiste d’Impero” ora ritrovati dal professore della Statale di Milano Dario Borso. Ne pubblichiamo qui alcuni stralci come contributo importante alla verità storica. “

Inizia così l’articolo pubblicato sull’ultimo numero di Micromega, a cura del suo direttore Paolo Flores, d’Arcais. Micromega è una rivista da 30 anni organo della “sinistra illuminista”, termine quest’ultimo voluto da PFd’A per non confondere il giornale fra i tanti organi riformisti, progressisti,libertari, filo-partitici, pro-cattolici, ecc. che, pur non disdegnando, al pari di Micromega,i fondi sull’editoria (https://www.giannellachannel.info/finanziamento-pubblico-ai-giornali-come-funziona-italia-europa/)  sono stati travolti lo stesso dalla crisi della carta stampata.  

L’articolo di Dario Borso fa parte di una ricerca più ampia che il professore sta svolgendo sugli intellettuali nel periodo del fascismo prima del 25 luglio. Bolso ha avuto accesso a delle lettere scambiate tra Scalfari e Italo Calvino (furono compagni di banco, come più volte ricordato da Scalfari) che attestano senza dubbio alcuno di come Scalfari, già dal febbraio 1942, si vantasse con Calvino di essere entrato a far parte di un “vivaio giovanile” scrivendo su “Gioventù italica” e “Conquiste d’Impero”.

Gli stalci che riporta Micromega sono interessanti per l’esplicito tono irridente di Calvino verso il coetaneo, la disapprovazione per la sua sbandata ideologica, lo scetticismo verso le idee magniloquenti che Eugenio esprime, il fanatismo che porta Calvino a definirlo scemo e pagliaccio. Purtroppo la risposte di Scalfari a Calvino non sono note.

 

“Più volte Eugenio Scalfari ha rimemorato i suoi esordi letterari facendoli invariabilmente risalire ad alcuni articoli usciti nella seconda metà del 1942 su Roma Fascista, settimanale del Gruppo Universitario Fascista: ma è vero?
Giunto nella capitale da Sanremo verso la fine dell’anno precedente, egli intrattenne regolare corrispondenza con l’ex-compagno di liceo Italo Calvino. Le lettere del primo non sono tuttora disponibili, quelle del secondo sì. Stralciando limitatamente alla prima metà del 1942:

12 febbraio: «Stai diventando un fanatico, ragazzo mio, stai attento. Ti stai esaltando di queste idee, tanto da montarti la testa. Curati. Distraiti.»

1 marzo: «Dunque tu, Eugenioscalfari, scrivi su riviste letterarie giovanili? Scrivi articoletti sull’arte novissima, eh? Sei capitato in un vivaio giovanile? Ma che bravo! Bravo, bravo, mi compiaccio proprio. Ahahahahahaah!»

7 marzo: «La faccenda del vivaio giovanile non è molto chiara. Scrivi meno balle, racconta fatti e ambienti e persone. Adesso il giornalino non è più del vivaio, è dell’Azione Cattolica. Che casino! […] Quando la finirai di pronunciare al mio cospetto frasi come queste: “tutti i mezzi son buoni pur di riuscire” “seguire la corrente” “adeguarsi ai tempi”? Sono queste le idee di un giovane che dovrebbe affacciarsi alla vita con purezza d’intenti e serenità d’ideali?»

21 aprile: «Mandami, appena vede la luce, il numero di Gioventù Italica che porta il tuo battesimo dell’inchiostro tipografico. Siccome avrai naturalmente scritto delle gran frescate, polemizzerò con te. Quello che rimane per me un gran mistero è come facciano a vivere le varie Gioventù & ProgenieRoma & Ischirogeno, che pullulano dalle tue parti. E, quel che più conta, dove piglino i soldi da dare a degli sciagurati come te.»

29 aprile: «Fa piacere poter dire: sapete, stasera ho da scrivere a Eugenio Scalfari, il noto pubblicista, è mio amico, siamo stati compagni di scuola, sì, proprio lui, il più noto scrittore contemporaneo, quello che scrive nientedimeno che su Conquiste d’Impero. […] Ci scrive anche Giuseppe [Bottai], ma sì, proprio Giuseppe, sono colleghi, “il mio Peppino” lo chiama Scalfari. […] Ho atteso a risponderti alla tua doppia ultima perché attendevo la copia di Gioventù Italica che mi è arrivata oggi. […] Non posso definire il tuo articolo altrimenti che: strano. Strano che tu ti metta a scrivere di queste cose, strano che tu mostri una così sicura cognizione in fatto di tragedie greche che credo conoscerai quanto conosco io, cioè ben poco.»

21 maggio: «Per quanto io aspiri a un “modo di salire” e tu a un “salire ad ogni modo”, l’esempio dell’amico mi sarà certo di sprone. […] Manda roba: Conquiste d’Impero, tua tesi per quell’affare del convegnochesoio, Roma Fascista che – scusa – non ho capito bene che cosa è (un giornaletto del Guf)?»

10 giugno: «Tu che sempre hai vissuto in una sfera lontana dalla vera vita, uniformando il tuo pensiero all’articolo di fondo del giornale tale e talaltro, ignorando completamente uomini fatti cose adesso ti metti a scrivere di economia, di argomenti ai quali sono legati avvenire benessere prosperità di popolazioni. Questa più che faccia tosta mi sembra impudenza. […] Lo so, sono amaro, ma, ragazzo, nella merda fino a quel punto non ti credevo. Il giornale fa pietà, è un vero sconcio che si lasci pubblicare tanta roba idiota e inutile. […] Ti conoscevamo come uno disposto a tutto pur di riuscire, ma cominci a fare un po’ schifo.»

21 giugno: «Me ne frego che tu ti offenda e mi risponda con lettere aspramente risentite (oltre che scemo sei pure diventato permaloso), quello che ho da dirti (e te lo dico per il tuo bene) si compendia in una sola parola: PAGLIACCIO! […] Chiunque ti legga, vedendo uno che fa sfoggio di erudizione ad ogni sillaba, che fa di tutto perché i suoi concetti appaiano il meno chiari e determinati possibile, non può fare a meno di credere che tu sia un IGNORANTE che ripete pappagallescamente frasi e termini raffazzonati a casaccio.»

Ed ora, in prima assoluta, ecco a stralci i due articoli scalfariani in questione:

L’elemento “tragedia” nell’animo umano, n. di marzo-aprile 1942 di Gioventù Italica, organo della Gioventù Cattolica Italiana diretto da Luigi Gedda: «La tragedia nasce dal dubbio e dal dolore non dell’individuo, ma dell’umanità intera, in quanto scaturisce da quei sentimenti di carattere universale e non particolare, che tutta l’umanità interessano. […] Essenzialmente dinamica, essa si evolve parallelamente all’evoluzione della nostra coscienza dei due opposti termini dall’incontro dei quali scaturisce il conflitto tragico: Uomo–Dio. Secondo i tempi, secondo i paesi, secondo la fede dei popoli, varia il risultato del conflitto: ora esso si risolve con un annientamento della volontà dell’uomo di fronte a quella di Dio, ora con un’emancipazione dell’uomo da Dio. Ma v’è una terza fase della tragedia ch’è quasi sintesi delle due precedenti, fase essenzialmente religiosa e corale nella quale su tutto domina il pianto eterno dell’umanità in travaglio […]. “O uomini che preferite restare nel vostro guscio, e frodare la vita come un piccolo Bonturo piuttosto che adorare la morte come un Ulisse ardimentoso!” Questo grida lo spirito tragico in ciascuno di noi, che è ancora e sempre conflitto; conflitto tra l’Uomo e il tempo, che lo schiaccia e lo annulla inesorabilmente; tra la libera volontà dell’Uomo e il Destino che la nega e la distrugge; tra la forza fisica dell’Uomo e le oscure potenze cosmiche scatenate […]. Noi vogliamo un Uomo migliore fra altri Uomini migliori, e fidiamo nella forza della tragedia (s’intenda: della tragedia non del dramma) per giungere a questo risultato. La tragedia come concertazione scenica deve rinascere e rinascerà. Essa sarà essenzialmente religiosa e avrà compito religioso: scoprire Dio nell’Uomo!»

Spiritualizzare la corporazione, n. di giugno 1942 di Conquiste d’Impero, mensile diretto da Corrado Petrone. Designato nel 1937 presidente del Comitato Nazionale per l’Indipendenza Economica, docente di Storia e Principi del Diritto Fascista alla Sapienza, cooptato nel 1941 alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, il direttore apre il numero con: «Occorre selezionare i quadri del Partito Nazionale Fascista eliminando le scorie, in modo da dare al Partito un’essenza di aristocrazia di popolo» – dopodiché a ruota Eugenio: «L’ordinamento corporativo, base della politica e del programma del Fascismo, è una di quelle creazioni che, conquistate da una Rivoluzione Vittoriosa, sono destinate poi a rimanere eterno retaggio della società umana quali principi indistruttibili acquisiti sulla via del progresso […]La sintesi corporativa interessa ed investe in pieno i rapporti tra l’individuo e lo Stato e pone improrogabilmente il problema del regolamento di tali rapporti, regolamento che si applica seguendo due principali direttrici vettoriali: responsabilità-gerarchia. Lo Stato moderno, non fosse altro che per ragioni pratiche, deve essere essenzialmente gerarchico e aristocratico, e in esso l’individuo deve sentirsi intimamente responsabile dell’incarico che gli compete. La civiltà illuministico-liberale deriva l’esistenza dello Stato da un’origine contrattualistica tra singoli e perciò artificiale, e pone l’eguaglianza alla base della società come identità di concessione di libertà che Ognuno fa a Tutti. […] Noi aborriamo da una società tutta allo stesso livello, composta di grandi steli d’erba e di piccole querce; noi vogliamo un’eguaglianza più nobile, quella che purifica tutti davanti alla vita e al lavoro, che rende degni e meritevoli di rispetto il manovale e il filosofo, l’industriale e il poeta. […] Per raggiungere tale risultato non basta auspicarlo: è anzitutto necessario combattere e credere. Il mondo moderno è assetato di fede più che di tutto, di una fede che, dopo tanto scettico relativismo esistenzialistico, rappresenti alfine un punto fermo per ridare all’uomo un metro assoluto per disceverare il bene e il male, per premiare il bene e per punire il male. La battaglia spirituale è già stata iniziata, grazie all’opera e alle direttive precise del DUCE, fin dai primi anni del Fascismo. A noi spetta il condurla a compimento.”

Il 23 settembre Scalfari, che nel frattempo aveva sfornato una nutrita serie di articoli per Roma Fascista, annunciò a Calvino di esserne divenuto redattore-capo. Lo fu per un trimestre, rimanendo nondimeno fascista fino al 24 luglio 1943 quale collaboratore fisso di Nuovo Occidente, il mensile ultramussoliniano di Giuseppe Attilio Fanelli.

Articolo di Dario Borso per Micromega (http://temi.repubblica.it/micromega-online/)

 

OTTANT’ANNI, SEGNO DEL CANCRO E TANTE COSE DA DIRE

OTTANT’ANNI, SEGNO DEL CANCRO E TANTE COSE DA DIRE

L’AUTOIRONIA DI UN PICCOLO,GRANDE VECCHIO: ROBERTO GERVASO– UN PO’ GIORNALISTA, UN PO’ STORICO, UN PO’ COSI’..-  UN’INQUIETUDINE CREATIVA CONSUMATA FRA LIBRI, AFORISMI E DONNE- L’ITALIA?: CHE PALLE!!

 

Roberto Gervaso con la moglie

Roberto Gervaso. Trecento papillon, cento cappelli («tutti Borsalino, li porto sempre. Un po’ per proteggermi, un po’ per vezzo»), duecento donne amate («tu selezioni molto? Io per niente: ho preso di tutto nella vita, duchesse e commesse, miss e bruttine, anche una teologa, anche una zoppa, anche una balbuziente che ritrovava la parola solo a letto…»), una moglie bellissima («che in un momento di distrazione si è invaghita di me»), una figlia («fa la giornalista…»), tre nipoti («è come avere l’Isis in casa»), quattro case tra Milano, Palermo, Roma e la campagna romana – dove passa l’estate e lo incontro – un domestico filippino che canta magnificamente i Platters, un formidabile elenco di malattie («ne ho avute tante, ora ne ho ancora di più»), un Himalaya di medicine sparse per la villa («vuoi qualche goccia di Lexotan?»), tre depressioni devastanti («a 23, 34 e 70 anni, in tutto mi hanno portato via dieci anni di vita»), una vita vissuta «in uno stato di inquietudine perenne», sessant’anni di carriera tra quotidiani, settimanali, radio e tv, duemila interviste entrate nella storia del giornalismo, 25mila aforismi usciti dalla sua intelligenza, 52 libri pubblicati («più uno in arrivo, a ottobre, un pamphlet sulla storia d’Italia dell’ultimo mezzo secolo, titolo: Che palle!») e ottant’anni compiuti oggi.

Indro Montanelli, giornalista e divulgatore storico

Auguri, Robertino. «Robertino mi chiamava Montanelli. Gli devo tutto: andai apposta a Roma per conoscerlo, il mio regalo della “maturità”, era il ’56, quando leggevo e ritagliavo tutti i suoi pezzi. Mi prese a ben volere: mi fece entrare al Corriere d’informazione, poi al Corriere della sera, mi fece scrivere con lui sei volumi della Storia d’Italia, per la quale mi associò – per i diritti d’autore – al 50 per cento, quando al massimo avrei dovuto avere il 15…

A proposito: sai quanto abbiamo venduto? Diciotto milioni di copie… Comunque. Mi ha aiutato a diventare inviato, per anni mi ha ospitato a casa sua o al ristorante a colazione, mi ha insegnato tantissimo in questo mestiere. Mi voleva così bene…».

Che a un certo punto iniziò a girare la voce che tu fossi suo figlio.

«Aveva 28 anni più di me, ero magro come lui. Ci stava… Io l’ho sempre trovata una cosa divertente».

E lui?

«Con lui non ne abbiamo mai parlato. Però una sera mia moglie fece una cena, a Palazzo Visconti, a Milano. Una cosa sontuosa. C’erano tutti quelli che contavano, per capirci. A un certo punto si avvicina al mio tavolo Maria Gabriella, la figlia di Maria José, l’ultima regina d’Italia, con la quale Montanelli ebbe una relazione, si conobbero a Cortina… Insomma, guardando mia moglie, mi abbraccia e dice: “Ecco Roberto, mio fratello…”. Ci scherzava anche lei sul fatto di essere figlia di Indro. Nel suo caso può essere. Nel mio, una cosa su cui ridere. Come ho sempre fatto: su tutto».

La vita è una commedia?

«Che finisce in tragedia. Ma che ha momenti farseschi e altri drammatici».

Hai avuto tanto dalla vita.

«Ma ho dato tutto. Ho voluto fortissimamente il successo, per ambizione e per vanità, però ho pagato fino all’ultimo centesimo. E con la moneta più pesante: la salute. Forse è giusto così. Se dovessi scegliere una religione…».

Ma se sei ateo…

«No. Deista, agnostico, laico, scettico, un po’ cinico. Ma non ateo».

Continua. Se dovessi scegliere una religione… 

«Sceglierei il buddismo. Dalla vita riceviamo tutto ciò che le diamo. Il paradiso non lo so. Ma l’inferno lo scontiamo in terra. Lo sapevano bene il dottor Schweitzer o madre Teresa di Calcutta… Ecco. Tornando indietro, farei il missionario. Ma lo dico oggi, a ottant’anni. Quando ero giovane mi mancava la vocazione.Meglio così. Avrebbe contrastato la mia ambizione».

Se quando si è giovani non si sa cosa fare nella vita, si finisce per fare o il politico o il giornalista. L’hai detto tu.

«Sì, perché sono due dilettantismi. Il giornalismo ha il merito di farti approfondire la superficialità degli altri, la politica il demerito di corrompere la tua onestà». Tu hai scelto il giornalismo. «Io volevo arrivare. E sono arrivato».

Dove?

«All’ultima fase della vita. Nella prima devi guardare avanti. Nella seconda in alto. Poi, a un certo punto, devi guardarti dentro. Io sono arrivato qui».

Sei partito ottant’anni fa. Nato a Roma, 9 luglio 1937, sotto il segno del Cancro.

«E dell’improvvisazione».

Hai studiato in Italia e negli Stati Uniti.

«Con molta svogliatezza e poco profitto».

Ti sei laureato in Lettere moderne.

«Immeritatamente».

Hai fatto: cronista, inviato, intervistatore, editorialista, commentatore, conduttore radiofonico e televisivo… Cos’è il giornalismo?

«Quello di ieri era una forte inclinazione, forse addirittura una vocazione. Con un suo codice morale, un’etica civile, un rispetto per il lettore ma anche per il fattorino. Ed eleganza: io andavo in redazione in blazer grigio, dando del lei ai superiori e accettando le critiche. Una missione. Una vita da certosino, come mi aveva detto Indro all’inizio. Scrivere e leggere, leggere e scrivere. Mai fatto parte di un sindacato, mai votato, mai lanciato proclami, mai firmato appelli. Solo i miei pezzi».

E il giornalismo di oggi?

«È diventato un lavoro che tendenzialmente esclude la cultura. I giornalisti di oggi, a parte quelli culturali, non leggono nulla. Un mestiere che ti fa sentire molto più importante di quello che sei in realtà, che tifa guardare continuamente l’orologio, che ti fa cercare ciecamente quel colossale imbroglio che è lo scoop… È un giornalismo che è stato soggiogato alle ideologie. Non nel senso che i giornalisti abbiano delle ideologie, ma nel senso che le hanno sdoganate per fare carriera, perdendo il bene più prezioso: l’indipendenza. Da qui, l’omologazione dei giornali e dei giornalisti. Tutti uguali».

Tu, per distinguerti, hai inventato un genere. Domande fulminati, risposte rapidissime. Hai intervistato mezzo mondo. E nei ritagli di tempo, non senza irriverente indulgenza, anche te stesso.

«Tutti dicono che la cifra delle mie interviste sia la brevità, che è figlia della chiarezza. Vero. Ma l’essenza è la volontà di non annoiare. L’intervistatore non deve mai annoiare l’intervistato, e l’intervistato deve divertire l’intervistatore. Se le due cose accadono, escono delle belle interviste».

La tua più bella? 

«A Georges Simenon. Andai a trovarlo a Losanna, dopo che gli era morta la figlia, la quale aveva per lui una devozione passionale che rasentava l’erotismo. Aveva abbandonato un borgo tutto suo – dove viveva con uno stuolo di cameriere, segretarie, governanti, tutte donne, tutte che avevano sottoscritto un contratto in cui accettavano di avere rapporti sessuali con lui in qualsiasi momento della giornata – per trasferirsi, con la terza moglie, in una casetta a schiera. Non faceva più nulla, se non dettare le sue memorie. Mi fece vedere il passaporto. C’era scritto: “Georges Simenon. Pensionato”.

Gli chiesi perché questa scelta. Mi rispose: “Perché nella vita, con gli anni e i dolori, ti accorgi che le cose importanti sono poche. E le superflue ti distraggono da quelle essenziali”. Detto da uno che ebbe novemila donne in vita sua… Comunque, bella intervista».

La più brutta? 

«A Coretta King, vedova di Martin Luther King. Maleducata, insolente, razzista. Essendo io bianco, mi trattò come un negro. Mi girò le spalle per tutto il tempo del nostro incontro, sbocconcellando arance. La minoranza che si era emancipata, ora doveva dimostrare la propria superiorità. Patetico».

La più inutile?

«Ad Anastasio Somoza, dittatore del Nicaragua. Fui l’ultimo a intervistarlo prima che fosse cacciato, e poi ucciso. Mi offrì l’ananasso più buono che abbia mai mangiato. Ma mi raccontò solo bugie. Propaganda e nient’altro. Mi diceva che il Nicaragua era felice sotto di lui…»

L’intervista che avresti voluto fare e non hai fatto? 

«A Nixon, il migliore presidente che l’America abbia mai avuto, e a Deng Xiaoping, senza il quale la Cina moderna non sarebbe mai nata. Due statisti giganteschi. Ma che non mi hanno dato l’intervista»

Un’altra a che faceva grandi interviste era Oriana Fallaci.

«Giornalista più passionale che appassionata. Più spericolata che coraggiosa. Più ambiziosa che imparziale. E comunque aveva il difetto di intervistare prima se stessa, poi il suo interlocutore. Le sue domande era lunghissime, anche più della risposta. Molto furba. Una volta incontrai William Colby, già direttore della Cia negli anni Settanta. Era furente con la Fallaci: diceva che lei gli aveva mandato delle domande, lui aveva risposto, e poi lei aveva pubblicato l’intervista con delle domande diverse, cambiate all’ultimo. Lui ne usciva massacrato».

Litigaste, tu e la Fallaci.

«La intervistai per un libro. Ma il Corriere della sera, per cui lavoravo, prima che uscisse in volume fece un’anticipazione dell’intervista sulla Terza pagina. Lei fece la matta. Telefonò a Tassan Din, il direttore generale di Rcs, urlò, sbraitò, minacciò di querelarmi…».

E perché?

«Che ne so? Forse una paginata non le bastava. Voleva un’edizione speciale».

Oriana Fallaci, giornalista e reporter

L’unica giornalista più egocentrica di te.

«Sì, ma lei non aveva il sense of humour».

 Il sense of humour è la tua più grande virtù?

«Insieme al senso del dovere. Almeno credo. Ah: e il rispetto per il lettore. Mai farlo sentire ignorante. Bisogna raccontargli le cose che non sa, e spiegargliele senza spocchia. Me l’ha insegnato Montanelli. Prima lezione, e anche l’ultima che mi ha dato, e non era neanche sua perché la rubò a un formidabile premio Pulitzer, Webb Miller: “Robertino, ricordati: scrivere facile è difficilissimo. Scrivere difficile, quello sì è molto facile. Stai attento”».

Montanelli è stato il più grande giornalista italiano?

«No. Il più grande giornalista del secolo è stato Longanesi. Lo diceva Indro stesso. Leo Longanesi è stato colui che ha influenzato maggiormente il nostro giornalismo nel Novecento, così come Prezzolini colui che ha segnato maggiormente la cultura, anche più di Benedetto Croce».

E il giornalista più insopportabile? 

Eugenio Scalfari, giornalista fondatore di La Repubblica

«Eugenio Scalfari. Il principe dei moralisti, cioè coloro che condannano negli altri, per meglio nasconderli, i propri vizi. E poi ha fatto la cosa peggiore che può fare un giornalista. Ideologizzare il proprio mestiere».

Il giornalista più simpatico?

«Giancarlo Fusco. Una sera eravamo a cena. Anni ’60. Un ristorante in via Doria, a Roma. Iniziò a discutere con la sua compagna, della quale era gelosissimo, su Rodolfo Valentino. Lei diceva fosse un grande amatore, lui un frocio. Litigarono così violentemente che si dovette chiamare la polizia. Era matto, ma irresistibile. Andava sempre in giro con la pistola. Una notte credette di vedere la sua donna baciare un altro di nascosto. Sparò in aria. Poi si scoprì che l’altro era il direttore della Fao, a Roma, e la donna la sua amante, probabilmente… Raccontava un sacco di balle, ma le raccontava così bene che se ti avesse raccontato la verità non sarebbe stato così divertente».

E i politici? Il più divertente che hai incontrato? 

«Almirante. Ma il più simpatico Andreotti».

E il più antipatico? 

«Marco Pannella, ma non perché insopportabile. Perché logorroico. Era un amico, ma quando dovevo intervistarlo tremavo. Era incontenibile, un divagatore continuo, parlava parlava e io non concludevo niente…».

Differenze fra la politica di ieri e quella di oggi?          

“Ieri era una professione, oggi una carriera. Fanfani quando era presidente del Senato aveva sempre a portata di mano 5 o 6 cravatte da prestare ai colleghi prima di entrare in aula, quando vedeva degli abbinamenti che non riteneva abbastanza eleganti. Oggi, tu la vedi la gente che va in Parlamento? È una classe politica sbracata, volgare, ignorante, impresentabile. La politica è sempre stata un affare da puttane. Ma ieri almeno era una casa di appuntamenti di lusso, oggi un bordello da suburra».

E gli italiani che stanno in mezzo? 

«Hanno le stesse colpe dei politici. Sono loro a sceglierli. E sono uguali a loro. Trovami un italiano in mezzo a centomila che, se non fosse al loro posto, non si comporterebbe allo stesso modo, tra privilegi, ruberie, impunità. La politica italiana è questa, perché questi sono gli italiani. È un Paese che sta in piedi solo perché non sa da che parte cadere».

A destra o a sinistra? 

«La sinistra è finita con Mussolini, e la destra anche. Quando diresse l’Avanti! era la vera sinistra, e quando fondò i fasci di combattimento la vera destra».

Dopo?

«Togliatti e De Gasperi, per breve tempo, hanno illuminato la sinistra e la destra. Dopo di loro ci sono stati solo professionisti della politica, alcuni abilissimi, come Andreotti, Craxi e Almirante. E per il resto arruffoni e arraffoni. I politici della prima Repubblica non erano santi, ma avevano decoro. Questi di oggi neanche la decenza».

E Silvio Berlusconi?

Silvio Berlusconi, ai tempi in cui era primo ministro italiano

«Cosa c’entra Berlusconi. Lui è un imprenditore, e anche diverso dagli altri: ogni imprenditore vende l’arrosto. Ma lui lo vende anche ai vegetariani. Però non è un politico. Semmai un uomo di potere, che è diverso. Ha sempre rifiutato i tatticismi, le astuzie, le meschinerie della politica. Lui non esclude nessuno per principio. Perché i suoi prodotti, come le sue idee, li vuole vendere a tutti. In questo è un liberale modello».

E tu, cosa sei?

«Un conservatore anarchico. Conservatore perché voglio conservare quello che c’è di buono. Anarchico perché non accetto imposizioni. Ma rispetto le leggi e le istituzioni. Sono un ribelle, ma preciso».

Il leader radicale Marco Pannella, in una immagine scattata pochi mesi prima della sua morte, avvenuta il 19 maggio del 2016

Ribelle, preciso, pignolo, libertino, sarcastico, primadonna anche a riflettori spenti – sulla scena come in camerino -, Roberto Gervaso tiene in esercizio la propria intelligenza pensando il contrario di quello che dice. E a volte, viceversa. L’anticonformismo è il suo habitus, l’aforisma la sua complessità, il paradosso la sua logica, la battuta il suo asso nella manica. Rigorosamente di camicie Brooks Brothers. Ha passato una vita a parlare della sua paura della morte.

E ora i discorsi sulla morte sono la sua ragione di vita. Intervistatore princeps che adora farsi intervistare – interviste modello confluite editorialmente in una trilogia otorino-laringo-oftalmica:Il dito nell’occhio (1977), La pulce nell’orecchio (1979), La mosca al naso (1980) – Gervaso offre risposte che con il punto interrogativo sarebbero meravigliose domande. Botta e ripensa: a domanda, risponde.

Lo sventurato, domanda: e la P2?

«Nessuno mi chiese niente e io non ho chiesto niente a nessuno. Presentai io Berlusconi a Licio Gelli: non accadde niente. Non mi sono neanche pentito, perché non c’è niente di cui pentirsi. Sono stato uno dei pochissimi ad ammettere l’iscrizione, e dissi che non avevo nulla contro la massoneria. Mi hanno demonizzato. E in malafede».

Per anni, al Corriere della sera, ancora sotto la direzione De Bortoli…

«Un coniglio azzimato. No: scrivi “volpe azzimata”, non vorrei querelasse».

… ancora sotto la direzione De Bortoli al Corriere non si potevano recensire i tuoi libri…

«Ipocriti. Proprio loro, che avevano un direttore iscritto alla loggia».

L’occhiuto Raffaele Fiengo, membro del comitato di redazione, proibì che fosse anche solo citato il tuo nome sulle pagine del Corriere. Me l’ha detto un vecchio redattore.

«Fiengo. Il mastino della Lubjanka di via Solferino».

Perché il Corriere precipitò così a sinistra?

«Chiedilo all’editore di allora, Giulia Maria Crespi. Fu lei la regista di quella operazione suicida. Magari ti risponde. O forse no. Non ha abbastanza intelligenza per capire quanta gliene manca».

I tuoi aforismi. Tutti copiati dai peggiori luoghi comuni degli italiani. Quanti nei hai scritti?

Ferruccio De Bartoli, già direttore del Corriere della Sera

«Venticinquemila».

Il più bello?

«L’amore senile comincia col matrimonio».

Hai amato molto?

«Amato-amato, poco. Desiderato tanto».

Cosa desideri, adesso?

«Leggere le uniche cose che vale la pena leggere: Seneca, Ovidio e Voltaire. E scrivere le uniche cose che vale la pena scrivere: i miei articoli di giornale».

Montanelli sognava di morire avvolto nell’edizione straordinaria del giornale. Tu?

«Mi basta quella quotidiana».

Ho fatto una ricerca d’archivio. La domanda che hai posto più volte ai tuoi intervistati è stata: «Cos’è per lei la morte?». Risposta?

«O un ponte o un abisso. Cioè: un passaggio verso qualcosa d’altro oppure un precipizio nel nulla. Spero la prima. Ma temo la seconda».

Articolo di Luigi Mascheroni per ”Il Giornale

 

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