LA PARANZA

LA PARANZA

 

 

Ora che il suo La paranza dei bambini è uscito, rapido come vi era entrato, dalla TOP 10 dei libri più venduti (è un modo di dire in Italia, dove il Salone del Libro di Torino rigurgita di scolaresche svogliate, mentre le librerie languono deserte), possiamo parlarne con obiettività, e senza il timore di lesa maestà.

 

 

Passato un mese dalla lettura delle copiose 347 pagine del libro la prima domanda è: ma cosa mi è rimasto, se non scolpito, almeno appiccicato nella mente? Nulla, o poco, di una storia già chiusa dall’inizio, che procede come da copione, senza slanci o sorprese, alla fine anche un poco noiosa. Nel risvolto di copertina il solito santino: “Roberto Saviano entra implacabile nella realtà che ha sempre indagato e ci immerge nell’autenticità di storie immaginate con uno straordinario romanzo di innocenza e sopraffazione. Crudo, violento, senza scampo.”

Implacabile lo è il Saviano, anzi martellante, cupo, impositivo e metodico, senza concedere svaghi a nessuno, nemmeno quello della lettura. Non scherziamo: qui la cosa è seria!

La storia, ci dice l’editore nel risvolto, è immaginaria/autentica, un ossimoro per dire che non è copiata. A scanso di equivoci, dopo Gomorra, che ha visto la condanna per plagio dello scrittore, il quale sosteneva di “essersi ispirato a fatti di cronaca”, letti sulla stampa locale.

A proposito del titolo, a me la paranza ricordava le fritture di quel pesce minuto, consumato al cartoccio, magari fuori orario e con compagnie sbandate di studenti. Nel libro il rito viene pure evocato, ma con queste parole: “Ma nel piatto il tempo per poter mangiare è brevissimo: se si fredda, il fritto si stacca dal pesce. Il pasto diventa cadavere. Veloce si nasce in mare, veloce si è pescati, veloce si finisce nel rovente della pentola, veloce si sta fra i denti, veloce è il piacere”. Questo è l’universo di Saviano: popolato di cadaveri, altro che di piacevolezze al cartoccio.

Dell’odore di rifrittura è così impregnato il libro che tutti gli altri odori o colori o luci associati al mare e alla bellezza partenopea sono assenti, perché Napoli viene nominata di sfuggita e, a parte la toponomastica dei luoghi, potremmo essere in una qualsiasi altra città di mare, violenta e chiassosa quanto basta.

Solo il dialetto ci riporta ai vicoli napoletani, ma in maniera innaturale: sulle orme di Camilleri, ma con meno maestria, Saviano spiega che non voleva il dialetto “classico”, ma “un’oralità viva ricostruita dentro l’esercizio della scrittura. “ Per questo egli è “intervenuto come autore a modellare, a filtrare la realtà sonora dell’ascolto dentro la resa del dettato, complice dei personaggi che si agitavano con il loro dialetto “imbastardito” nella mia immaginazione”. Già, ma una cosa è parlare, l’altra è scrivere, e a forza di ripuliture, affinare e sonorizzare n’è venuta fuori una lingua da laboratorio, asettica, anodina, anche quando vorrebbe farsi colorita, pregnante di esclamazioni e risentimenti.

Il procedimento narrativo di Saviano è elementare, con evidenti debiti, per la psicologia dei personaggi, verso la sceneggiata napoletana. Per dominare il racconto, Saviano è costretto a semplificare con l’accetta situazioni e personaggi. Scarta tutto ciò che ritiene contorno, mentre molto spesso è quello che dà sapore e respiro ai racconti. Le sfaccettature, gli imprevisti, le svolte vengono appiattiti, sicchè i personaggi si muovono enfatici, conformati alla parte assegnata, non esprimono mai sentimenti veri, ma quelli previsti, canonici. Nascono letterariamente morti, prima ancora di venire alla luce.

 Gli 11 della paranza (e non 10 come si dice nel risvolto) sono marionette sbiadite e prevedibili, elementari nelle reazioni, emulano gli adulti, vecchi capi camorristi in disgrazia o agli arresti domiciliari, in un percorso di iniziazione alla violenza, travisata come unica strada per ostentare potere e ricchezza.  

La paranza di bambini che bambini non sono e forse non lo sono mai stati, più che freddi o spietati camorristi in erba, appaiono incapaci di reazioni, insensibili, conformisti pur nella violenza, precocemente uniformati ad una logica gregaria, sì che la violenza, anche quando si manifesta, come nel finale di morte per mano del più piccolo del gruppo, essa appare statica, detta più che vissuta, costruita e cerebrale.

Alcuni passaggi forse sarebbero andati bene in un saggio sociologico o di criminologia, in un romanzo stonano, a alla lunga annoiano.

Le figure di contorno, come Mena, la madre di Christian, o Cristina la ragazza di Nicolas sono parecchio stereotipate, abbozzate alla meglio e messe lì in funzione della storia, ma prive di spessore. Anch’esse rimandano alla sceneggiata napoletana: il rapporto viscerale madre-figlio, il tradimento e la vendetta, il codice d’onore. Cristina si atteggia e ragiona come una Pupatella, da santino proto-femminista in attesa di emancipazione, anche quando chiede i biglietti per un concerto rock. Siamo, insomma, nel pieno del verismo patetico e poco manda che spuntino fuori ‘o Malamente, Isso e ‘o Nennillo. 

Il romanzo inizia con la defecazione che Nicolas, il capetto, fa sul viso di un rivale per gelosia (e ti pareva! anche se questa volta via facebook). Finisce con tre spari di una Beretta per mano di o’ Nennillo (nel libro Dentino), la richiesta di vendetta che la madre del figlio ammazzato fa alla Paranza, uno scroscio improvviso di acqua sul funerale e una frase in chiusura: “La morte e l’acqua sono sempre una promessa”. Passi per l’acqua, ma la morte cosa potrà mai promettere? Altre morti? Oppure, si dirà: la vita futura. Nata dalla violenza?

La filosofia di vita che emerge da questo spaccato simil-criminale è posta in epigrafe in apertura della terza parte: esistono fottuti e fottitori. Chi comanda e chi è comandato. A sostegno di questo schema Saviano chiede l’aiuto addirittura di Aristotele, ma è come proporre cavoli per merenda. Il filosofo greco lo diceva nella Politica, ma a proposito del rapporto fra padroni e schiavi. Se, secondo quanto scrive Saviano, il mondo è inevitabilmente diviso fra chi comanda e chi no, perché non reintrodurre come succedanea la schiavitù?

Il re delle sceneggiate napoletane Mario Merola

In conclusione: l’universo di Saviano è a una dimensione, non c’è luce di speranza, né d’amore, nemmeno dei genitori verso i figli, i sentimenti sono sempre ambigui, nei modi di manifestarli, così nel modo in cui vengono accolti e interpretati. Lo scenario a tutto ciò è una società che fa da sfondo inerte, come la quinta di un teatro, in cui il più pulito ha la rogna e da cui nulla può venire per riscattarsi da violenza e sopraffazione.

Mi scandalizza questa visione, questa perdita di innocenza? No! Ed è giusto che uno scrittore esponga liberamente le sue tesi, anche le più scabrose. Il fatto è che Saviano, mentre si atteggia pubblicamente a fustigatore dei costumi e della malavita in particolare, quando poi ne scrive espone tesi che, per quanto rozze, oggettivamente non lasciano via d’uscita: o fotti o sei fottuto. Tradotto: questi sono così perché non possono essere diversi e, naturalmente, non vogliono essere fottuti. Come dare loro torto? Scrive Saviano: “Il fottitore può anche non avere il potere del fottuto, magari quest’ultimo ha ereditato fabbriche azioni ma resterà un fottuto se non saprà andare oltre lo scarto che la fortuna e leggi a lui favorevoli gli hanno dato. Il fottitore sa andare anche oltre la sventura e le leggi può saperle usare o comprare o persino ignorare” Non resta che essere ammirati e stare dalla parte della camorra. E’ ciò che alla fine, per un atroce paradosso mistificante, finisce per fare Saviano.

Questa è forse la vera perdita di innocenza: descrivere e dare per scontata una società le cui caratteristiche soffocano alla nascita qualsiasi altra chiave di lettura e possibilità diversa, singola o collettiva. Ma la società non è la paranza, per fortuna, e una visione meno ossessiva e compulsiva avrebbe forse giovato alla leggibilità del libro, rendendolo più credibile.

In ogni caso una cosa abbiamo appurato: Saviano è uno scrittore, perché indubitabilmente scrive. Un romanziere no.

Roberto Saviano, La paranza dei bambini, Feltrinelli editore Milano, euro 18,50 (www.feltrinellieditore.it )

 

 

 

TUTTI PER TOTTI

TUTTI PER TOTTI

TOTTI E LA ROMA, UN CASO DA MANUALE- NON SOLTANTO UN GRANDE CALCIATORE, MA UN GRANDE UOMO PERCHE’ CAPACE, CON LA NORMALITA’ CHE VORREMMO FOSSE DI TUTTI,  DI FARE LE COSE CON SERIETA’, MODESTIA E ONESTA’- UN ANTITALIANO SUO MALGRADO, AUTOIRONICO, DISINCANTATO, DALL’INCERTO ELOQUIO, MA CON UNA SOLA PAROLA. ECCO LA COMMOVENTE LETTERA,LETTA DAVANTI A 60 MILA TIFOSI IN LACRIME E COMMOSSI COME LUI.  VIDEO.

Dopo il giro di campo, Totti  prende la parola: “Ho scritto, abbiamo scritto una lettera, per voi, non so se riuscirò a leggerla, ci provo – dice visibilmente commosso -. Se non finisco la finirà mia figlia Chanel che non vede l’ora di leggerla. Grazie Roma, grazie mamma e papà, grazie a mio fratello, ai miei parenti, ai miei amici, a mia moglie e ai miei tre figli. Ho voluto iniziare dai saluti perché non so se ruscirò a leggere queste poche righe. E’ impossibile raccontare 28 anni di storia in poche frasi. Mi piacerebbe farlo con canzoni o poesie.  Sapete qual era il mio giocattolo preferito? Il pallone, e lo è ancora ma a un certo punto della vita si diventa grandi, così mi hanno detto e il tempo ha deciso. Maledetto tempo… E’ lo stesso tempo che il 17 giugno 2001 (giorno dello scudetto romanista, ndr) avremmo voluto passasse in fretta. Non vedevamo l’ora di sentire l arbitro fischiare tre volte. Oggi questo tempo mi ha bussato sulle spalle e mi ha detto ‘domani sarai grande’, levati gli scarpini perché da oggi sei un uomo.

TOTTI 17

 

Mi sono chiesto in questi mesi perché mi stiano svegliando da questo sogno. voglio dedicare questa lettera a tutti voi, ai bambini che hanno tifato per me, e a quelli che oggi sono diventati padri e gridano ancora  ‘Totti gol’. Mi piace pensare che la mia carriera sia per voi una favola da raccontare. Mi levo la maglia per l’ultima volta, la piego per bene anche se non sono pronto a dire basta e forse non lo sarò mai. Scusatemi se in questo periodo non ho chiarito i miei pensieri ma spegnere la luce non è facile, adesso ho paura, non è la stessa cosa che si prova davanto alla porta. Concedetemi un po’ di paura, stavolta sono io ad aver bisogno di voi e del vostro calore, quello che mi avete sempre dimostrato. Solo con il vostro affetto riuscirò a buttarmi in una nuova avventura. Voglio ringraziare tutte le persone che hanno lavorato accanto a me in questi anni,

TOTTI 1i tifosi, la Curva Sud, un riferimento per noi romani e romanisti. Nascere romani e romanisti è un privilegio, fare il capitano di questa squadra è stato un onore, siete e sarete sempre nella mia vita. Smetterò di emozionarvi con i piedi ma il mio cuore sarà sempre con voi. Ora scendo le scale, entro nello spogliatoio che mi ha accolto che ero un bambino e che lascio adesso che sono un uomo. Sono orgoglioso e felice di avervi dato 28 anni di amore, vi amo!”.

Altri riferimenti:www.asroma.com/it 

 

https://www.youtube.com/watch?v=qs6pgiEn7E0

MUSICA E PAROLE

MUSICA E PAROLE

 

Amici da decenni, ma in uno studio tv non si erano mai incontrati. Paolo Conte e Ivano Fossati, pezzi pregiati della storia della canzone italiana, hanno accettato di sedersi nel salotto televisivo di Massimo Bernardini perché lì si parla di musica.

Amici da decenni, ma in uno studio tv non si erano mai incontrati. Paolo Conte e Ivano Fossati, pezzi pregiati della storia della canzone italiana, hanno accettato di sedersi nel salotto televisivo di Massimo Bernardini perché lì si parla di musica.

Due ore di parole e note negli studi Rai di Torino che verranno ridotte a una sola per Nessun dorma , il programma che andrà in onda venerdì 9 giugno alle 21,15 su Rai 5.

Conte un po’ più ombroso, come vuole il personaggio, Fossati più a suo agio nella chiacchiera, anche in virtù del nuovo ruolo di docente universitario a Genova. Bernardini a condurli attraverso riflessioni, ricordi e aneddoti.

paolo conte 3Come quello dell’ uovo di Pasqua: «Stavo lavorando a un disco di Ornella Vanoni ( O , ndr.) – racconta Fossati – e decisi di chiedere una canzone a Conte. Ci vedemmo a casa sua, ad Asti. Mi aspettavo ci desse un nastro inciso, come si usava allora, e invece si mise lì a scrivere la canzone al piano, con matita e gomma da cancellare».

E poi: «Eravamo sotto Pasqua, così quando andai via mi diede un uovo di cioccolata da portare alla Vanoni. Oggi, Paolo, te lo posso confessare: non l’ ha mai ricevuto, l’ ho mangiato io durante il viaggio».

ivano fossati 3

Ridono in studio e ride Conte che invece parla a lungo della passione per i vecchi dischi jazz, «fino agli Anni Cinquanta, poi il jazz lo lascio a Fossati» e fa una dichiarazione d’ amore alla musica italiana degli Anni 10-20-30: «Gli americani ci sono superiori – è la premessa – ma gli italiani scrivevano canzoni anche molto belle, il problema erano i testi: terribili, zuccherosi».

Nei Sessanta qualcuno però conquistò la sua attenzione e la sua collaborazione: «Adriano Celentano, la prima Patty Pravo e Caterina Caselli non erano i classici cantanti da concorso Rai, erano veri, ruspanti, popolani».

paolo conte 2

Sul perché non abbia mai collaborato con Fossati però è netto, evidentemente pensando all’ amico genovese solo come autore e non come interprete: «Io non collaboro con nessuno, sono bravissimo a sbagliare da solo», dice. Però poi concede: « La musica che gira intorno l’ avrei voluta scrivere io».

Il focus della puntata di Nessun dorma è la loro attività da musicisti più che quella da cantautori, un aspetto al quale entrambi tengono particolarmente. E allora ecco la passione di Fossati per il flauto traverso, che gli fece abbandonare il pianoforte, avvicinato a otto anni «ma in maniera svogliata».

ivano fossati 2

«Mi conquistò la sigla del Tenente Sheridan, mi innamorai di quel suono e scoprii Roland Kirk e il suo flauto». Neppure per Conte è il pianoforte lo strumento della vita: «Lo suono male, senza meccanica e dal vivo lo suono sempre meno. Lo uso per comporre.

Una volta almeno una “spolverata” al giorno gliela davo, ma ormai…». Nel suo cuore c’ è invece il vibrafono, scoperto dopo che al liceo «venni bocciato. Mi avevano rimandato di sei materie. Le recuperai tutte tranne greco. Così i miei fecero scomparire il trombone».

massimo bernardini

Massimo Bernardini

Fu un amico jazzista a fare scoprire al giovane Paolo il vibrafono: «Andai subito a Torino a comprarne uno con le cambiali». Una storia d’ amore che non è ancora finita, anche se non tutti la capiscono: «Ora a casa ne ho uno molto bello… Le donne di casa ci mettono sopra i paltò».

Resta il cuore del dibattito: canzoni e composizioni musicali? Entrambi hanno fatto un disco di sola musica, ma il loro successo è arrivato con le canzoni: «Non dico che i testi non siano importanti – concede Fossati -, ma la musica senza le parole dà un senso di libertà a chi la fa.

paolo conte

Quando mi chiedono di scrivere solo musica io sono felice». Conte, poi, è uno che quando scrive le sue canzoni parte prima dalla musica, «perché trovo sia più emozionante delle parole.

La musica mi dà immagini in bianco e nero, con le parole arrivano anche i colori». Il programma si chiude su un filmato del 1990 (lo si trova anche su YouTube): sul palco del Tenco a Sanremo Paolo Conte, Ivano Fossati, Francesco De Gregori e Roberto Benigni alle maracas. Grande canzone? Grande musica? A ognuno la sua risposta. Un fatto è certo: grande stile.

IVANO FOSSATI 2                ivano fossati

Roberto Pavanello per la Stampa

LA RONDINE DI EDITH

LA RONDINE DI EDITH

Il poeta e la scrittrice. Lui italiano, scomparso da poco. Lei ungherese, ma da quasi sessant’ anni stabilmente in Italia.Vive in un’ ampia casa nel cuore di Roma. Lui è Nelo Risi (fratello del più celebre Dino). Lei Edith Bruck: la sola che è rimasta di sei tra fratelli e sorelle. Edith è una donna straordinaria. Intensa come poche. Bella, come se il tempo l’ abbia ripagata per tutto quello che ha dovuto subire. Ha scritto un libro notevole su Nelo, La rondine sul termosifone edito da La nave di Teseo.

È un titolo strano. Bizzarro. Come fa una rondine a posarsi su un termosifone? Ma nella visione alterata di un malato di Alzheimer tutto diviene plausibile: poetico a volte e terribile più spesso.

dachauNegli ultimi anni della sua lunga vita a Risi fu diagnosticata una progressiva degenerazione cerebrale. Un viaggio, senza ritorno, nelle oscurità della mente. Che cosa ha rappresentato quella esperienza agli occhi di una donna che decise, nonostante il parere dei medici, di affrontarla, anzi di immergersi fino alla disperazione più pura in quell’ anfratto di follia? Ho letto con pietà e commozione questa vicenda scritta da una persona che nel corso della sua vita si è portata sulle spalle il tremendo carico dei campi di concentramento nazisti, di cui è diventata un’ imprescindibile testimone. Ecco la sua storia.

BRUCK COVER

Edit Bruck con Nelo Risi

Perché ha voluto scrivere un libro così privato e intimo, tanto da apparire a volte brutale?

« Perché la vita sa essere brutale, feroce, iniqua. Ma anche con delle sorprendenti aperture alla luce. L’ ho scritto totalmente di nascosto. Mentre lui dormiva. È stata la sola libertà che ho davvero provato in questi anni di oltraggio e bellezza che la malattia scatenava. La mia fuga da un vissuto estremo. Un vissuto da cui a volte saliva una strana fragranza».

A un certo punto lei chiese a Nelo se poteva scrivere intorno alla storia che stavate vivendo.

«Mi sembrava moralmente importante chiederglielo in un momento di lucidità».

Cosa ha risposto?

«Che era giusto, che potevo farlo. Poi è caduto in una specie di silenzio turbato».

gerarchi nazisti ad auschwitz

Quando scoprì la malattia di suo marito?

«Il primo segnale fu durante un viaggio ad Assisi. Perse l’ equilibrio, svenne. Era il 2004. Imputò l’ episodio al caldo eccessivo e alla stanchezza. Solo qualche anno dopo cominciai a rendermi conto che qualcosa non funzionava. Nel 2007 ebbi le prime evidenze della malattia».

In che modo?

« Aveva girato un documentario su Andrea Zanzotto, del quale era molto amico. Quando lo visionai percepii che non era più lui. In alcune parti il film era sconclusionato. E più glielo facevo notare più si intestardiva. Non riconosceva di aver sbagliato. Quando da Pieve di Soligo tornammo a casa, in treno si fece la pipì nei pantaloni. Lì cominciò la discesa».

Suo marito è morto l’ anno scorso.

«Il 17 settembre mi è scivolato esanime dalle mani».

baracca delle donne a auschwitzCome è stata la quotidianità di questi anni?

«Un misto di sensazioni anche contrastanti. A volte la notte mi cercava urlando il mio nome o chiamandomi mamma. E io ero a pochi centimetri da lui, con il cuore che mi batteva fortissimo. In balia delle sue cellule impazzite. Sembrava un uccellino malato con il capo chino e gli occhi semichiusi».

EDITH BRUCK 2

Quando vi conosceste?

«Incontrai la prima volta Nelo il 9 dicembre del 1957. Restai incantata da quel volto mite e aristocratico. Venivo da una storia un po’ tumultuosa e deludente con un uomo che era stato ricco e si riempì di debiti. Lo scoprii dopo un paio di anni adagiati in una vita lussuosa».

prigionieri di dachau

In che modo lo scoprì?

« Mi telefonò un creditore e seppi che era assediato da persone che volevano essere pagate per tutto quello che Geo, era il suo nome, aveva acquistato con l’ incoscienza del dissipatore. Gli dissi che la nostra storia finiva lì, che non sopportavo l’ idea che dopo mio padre anche la persona con cui convivevo dovesse farmi vivere in preda a quell’ ansia».

E lui?

bambini al campo di auschwitz

Bambini al campo di Auschwitz

«Mi guardò smarrito e poi rabbioso. Minacciò di spararmi con la pistola da partigiano che aveva conservato. Gli dissi che volevo essere libera, libera, libera. Glielo urlai e al suono di quella parola abbassò l’ arma».

Perché scelse di venire in Italia?

«Giunsi nel 1954. La verità è che doveva essere solo una tappa di passaggio. In realtà ero preparata a raggiungere la mia sorella più grande in Argentina. Le scrissi da Napoli chiedendole i soldi del viaggio. Era una donna benestante e fui sorpresa quando mi rispose che i centociquanta dollari necessari avrei dovuto guadagnarmeli. E che lei non mi avrebbe dato niente».

La ferì?

NELO RISI 2

« Sì, ma non ho mai provato risentimento nei suoi riguardi. Ricordo che prima di morire mi disse una cosa che mi sconvolse: ” Edith sarei campata dieci anni di più se tu non fossi mai tornata dai lager”».

Forse era il senso di colpa per qualcosa che non visse direttamente.

« Forse. La verità è che temeva e si vergognava della povertà. Quando un giorno incrociò mio padre tornare stanco e misero dal lavoro, cambiò marciapiede. Come se davvero la miseria fosse un’ onta e non una colpa dei ricchi».

Lei come ha vissuto la povertà?

« Guardavo alla dignità di mio padre, al suo candore, e penso che, grazie al suo comportamento, gli stenti che abbiamo provato siano stati meno umilianti. Una volta il babbo tornò senza cappotto. Era inverno e lo aveva regalato a una persona più bisognosa di lui».

Dove vivevate?

la liberazione di dachau

La liberazione dei deportati a Dachau

<All’ estremo Est dell’ Ungheria, quasi al confine con la Slovacchia, in un villaggio di cinquemila abitanti. Le famiglie ebree erano in tutto una quindicina, quindi una netta minoranza. Ma già alla fine degli anni Trenta si percepiva l’ antisemitismo. Abitavamo in una casa di due stanze. Il tetto era di paglia. Con mia sorella e uno zingaro riuscimmo a sostituire la paglia con le tegole. Finalmente avevamo un riparo come tutti gli altri».

NELO RISI

Il villaggio come si chiamava?

« Tiszakarád. Prendeva il nome dal fiume Tibisco. Ricordo che nella parte vecchia delle anse andavamo d’ estate a nuotare».

Quando ebbe inizio la tragedia della deportazione?

«I gendarmi – ungheresi che collaboravano con i tedeschi – arrivarono. nel 1944. Era l’ inizio di aprile, subito dopo la Pasqua ebraica. Bussarono all’ alba. Ci trascinarono fuori. Ci fecero salire su un camion e ci portarono nel ghetto del capoluogo. Quasi immediatamente si creò una strana atmosfera nel ghetto».

Ossia?

auschwitz

« I più poveri al villaggio erano discriminati, anche dagli ebrei ricchi. Ma trovarsi improvvisamente nello stesso spazio coatto produsse una insolita forma di democrazia, di solidarietà. Non c’ erano più i ricchi e i poveri. Non c’ erano più privilegi. Eravamo tutti gettati nello stesso destino. Mi stupì che potessi per esempio giocare con il figlio del dottore. Ma è ciò che in quel momento avvenne».

E dopo?

«Finimmo ad Auschwitz. Avevo quasi tredici anni. Ci divisero tra donne e uomini, e poi tra coloro che erano in grado di affrontare i lavori forzati e quelli che direttamente erano destinati alla camera a gas. Si sentiva un puzzo asfissiante. Molte volte sono stata sul punto di essere eliminata. Mi sono salvata per miracolo. Una volta dissero a un gruppo di noi ragazze che ci avrebbero dato una razione doppia di cibo se avessimo portato dei giubbotti ai soldati che stavano alla stazione in partenza per il fronte. Dovevamo percorrere otto chilometri a piedi. Non ce la feci a sostenere il peso dei giubbotti. Mia sorella si offrì di portarne una parte e un’ altra parte la gettai nella neve. Anche le altre a quel punto cominciarono ad alleggerirsi del carico. Un tedesco se ne accorse e ci fece fermare».

auschwitz

Cosa accadde?

«Chiese chi era stato il primo a buttare quegli indumenti. Nessuno rispose. Gridò ancora. Poi, non ottenendo risultato, minacciò che avrebbe ucciso una di noi ogni minuto trascorso. A quel punto feci un passo avanti. Lui venne verso di me e cominciò a picchiarmi. Mia sorella gli si gettò contro, gridando basta, basta. Il soldato cadde nella neve. Si alzò a fatica. E pulendosi i pantaloni avanzò minaccioso verso di me. E mia sorella. Eravamo a terra. Ci abbracciammo, convinte di essere ormai morte. Il soldato si fermò davanti a noi e disse: “Se oggi due puzzolenti e schifose ebree hanno il coraggio di mettere le mani addosso a un tedesco, allora solo per questo coraggio meritano di sopravvivere”. Mi allungò la mano e mi fece alzare».

E’ stata soltanto ad Auschwitz?

NELO RISI

« Passai sei mesi a Dachau. In quel periodo lavorai nelle cucine di un castello dove si erano insediati gli ufficiali richiamati. Pelavo rape e patate. Era proibito mettersi qualunque cibo in bocca e se provavi a nascondere qualcosa si vedeva immediatamente. Sotto un rozzo pastrano eravamo nude. Non avevamo calze e portavamo zoccoli. Un giorno il cuoco mi chiese come mi chiamavo. Lo guardai sorpresa. Risposi con il numero che avevo inciso sul polso: 11152. No, il tuo nome voglio sapere. Edith, risposi. E mi sembrò che quella voce fosse la stessa di un Dio che ti dona una nuova esistenza. Aggiunse che aveva una bambina della mia età. Mi regalò un pettinino. In quel momento compresi che quel gesto mi restituiva tra gli umani. Era la luce che si faceva strada dentro il buio».

Quando fu liberata?

« Il 15 aprile del 1945 a Bergen- Belsen dagli americani. Pesavo venticinque chili. Faticosamente ripresi a vivere».

C’ è una qualche relazione tra quello che ha sofferto allora e quanto ha raccontato in questo nuovo libro sulla malattia di Nelo Risi?

«Sono due grandezze non commensurabili».

Questo lo immagino. Ma è come se ogni volta la sua scrittura diventi una testimonianza diretta del dolore.

«È il solo modo che conosco di scrivere, dentro un qualche estremo. Si chiami Shoah, che pure ha una irriducibile unicità, oppure malattia. Per me scrivere era e resta una forma di terapia. La carta sopporta parole che neppure lontanamente immaginiamo».

E anche qui, in questo buio, ha trovato momenti di luce?

« Sì, anche se diversi. Ho sentito qualcosa che non ha niente a che vedere con la fede. Ma con la speranza certo. Durante la malattia di Nelo ci sono stati momenti straordinariamente luminosi. A volte mi guardava dicendomi cose che non mi aveva mai detto: “Ti amo”. Diceva cose anche importanti: ” Il tuo palmo è la mia fondamenta”. Prima fuggiva. Timido. Poi si è come liberato dall’ introversione. Occupandomi di Nelo, tenendolo in vita, nonostante ciò che consigliavano i medici, ho riportato alla vita tutti i miei cari tragicamente scomparsi».

E’ servito scrivere?

«Sì, è servito. È stato il ponte tra il silenzio e il mondo. Ho sempre amato e ascoltato il silenzio del mondo. E da ultimo pensavo al silenzio muto e sordo di Nelo cui dover dare una forma. Un’ etica».

È un altro modo di dire “testimonianza”?

«Sì, e a volte mi veniva in mente quella altissima di Primo Levi».

Lo ha conosciuto bene?

« Come un fratello, se veniva a Roma dormiva spesso da me. Quattro giorni prima di morire mi telefonò».

Cosa le disse?

«”Non ce la faccio più, Edith. Non ce la faccio più. Ormai scrivo al buio, accanto a mia madre cieca e riversa nel letto”. Era dolorosamente colpito dalle affermazioni negazioniste. Di chi diceva che c’ eravamo inventati tutto. ” Capisci?”, diceva. ” A che serve tutto quello che abbiamo testimoniato?”».

Che cosa pensa della sua morte?

campo di concentramento di dachau

Campo di conmcemtramento di Dachau

« Non aveva il diritto di suicidarsi. Io penso che la nostra vita non appartiene solo a noi ma anche alla nostra storia. A coloro che ci sono accanto. Quando il cognato mi diede la notizia per telefono, smisi di mangiare e cominciai a urlare. No, non aveva il diritto. Ero disperatamente arrabbiata».

orchestra di auschwitz

Orchestra fra le barcche del campo di Auschwitz

Le è restata questa rabbia?

«Verso chi?».

Non verso Primo Levi, ma nei riguardi di tutto quello che le è accaduto?

«C’ è una rabbia profonda e impotente verso Dio. Dov’ era quando accadeva l’ orrore estremo? E provo rabbia per tutto quello che sta accadendo oggi. L’ uomo non impara dai suo errori e questo mi fa impazzire. Cosa deve ancora succedere? Possibile che siamo così ottusi e incorreggibili? Diventiamo nuovamente razzisti, fascisti, nazisti! A cosa serve la memoria in un mondo smemorato?».

Dio è un orizzonte totalmente precluso?

« No, le mie origini non sono passate invano. C’ è un Dio tutto mio che prego cercando le risposte che non ho avuto. È anche quello un modo di tornare alla fonte dei miei pensieri mai espressi, e desideri mai realizzati».

È un’ interrogazione che l’ ha portata dove?

«A non odiare. L’ odio chiama solo odio».

Antonio Gnoli per Robinson- la Repubblica 

ROMA

ROMA

‘Roma, la città più italiana d’Italia’

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LIMES RIPERCORRE CON ANDREA RICCARDI DELLA COMUNITA’ SANT’EGIDIO LE TRASFORMAZIONI DI ROMA PAPALINA FINO AL DEGRADO E ALLA MARGINALITA’ DI OGGI-UN DESTINO CHE ROMA NON VUOLE E CHE NON MERITA 

LIMES Quanto è italiana Roma, quanto è romana l’Italia?

RICCARDI Fino al 1870 Roma era una città con un’identità molto ben definita, come Firenze, Bologna e qualsiasi altra città italiana – e sono tante – che vantano una lunga storia e tradizioni sedimentate. Forse, rispetto alle altre, l’Urbe era al contempo piccola e grande. Piccola perché demograficamente esigua: quando divenne capitale d’Italia, non aveva più di 200 mila abitanti, meno di Napoli e Milano. Ma anche, di conseguenza, geograficamente poco estesa e molto provinciale, o meglio comunitaria, sia da un punto di vista culturale che sociale. Era insomma un microcosmo circoscritto, con tratti fortemente caratterizzanti.


LIMES In che cosa stava la sua grandezza?

Andrea Riccardi, Comunità Sant Egidio

RICCARDI Nella presenza universalista del papato. Una presenza estremamente radicata, consustanziale alla città. In quanto vertice della Chiesa universale, il papato conferiva a Roma una dimensione che ne travalicava i confini. Ma in quanto istituzione prettamente romana, esso rientrava al contempo fra i tratti caratterizzanti della città. Era, quella tra Roma e la Chiesa, una relazione consumata e per certi aspetti ambivalente, come del resto è ancora oggi. Quando penso a questa relazione e più in generale al carattere della città che la incarna, mi viene sempre in mente il famoso aforisma dello storico ottocentesco Theodor Mommsen, secondo il quale «non si sta a Roma senza un’idea universale». Lo citai a Giovanni Paolo II nel corso di un’udienza e lui, entusiasta, espresse il vivo desiderio di conoscere questo Mommsen.


LIMES E lei cosa rispose?

RICCARDI Mi affidai all’ironia, dicendo che piuttosto ero io che contavo su di lui per poter conferire con lo storico.


LIMES Questa romanitas di cui parla era esclusivamente papalina o si avvaleva di altri apporti?

RICCARDI Era fortemente papalina, ma non solo. All’inizio Roma accoglieva clero prevalentemente dallo Stato pontificio, ma col tempo la quota di non romani nella curia è andata crescendo. L’osmosi tra Roma e la Chiesa aveva poi i suoi traitd’union fondamentali nei cardinali e nell’aristocrazia romana: un’aristocrazia affatto peculiare, perché fortemente papalina e priva di un effettivo potere politico, in cui l’elemento centroitalico era importante. L’elemento aristocratico (la cui parabola seguì quella del potere temporale del papa) e quello della prelatura erano i due canali principali attraverso cui la romanità si arricchiva di apporti esterni.


LIMES Poi che cosa è successo?

RICCARDI Dopo l’unificazione dell’Italia e lo spostamento della capitale da Firenze a Roma, nel 1871, inizia un processo di espansione e insieme di crisi di identità della città, che negli ultimi 140 anni è andata via via perdendo il proprio sapore locale, le proprie specificità e la propria omogeneità. E forse non poteva essere diversamente: dall’arrivo dei piemontesi in poi, Roma è stata oggetto di un incessante apporto demografico, che la portò a raddoppiare la sua popolazione in appena trent’anni. Durante il fascismo tornò al milione di abitanti, una cifra sconosciuta addirittura dall’epoca imperiale.


LIMES Cosa attraeva tutta questa gente?

RICCARDI La stessa molla che da sempre muove i flussi migratori di massa: il lavoro. Con i piemontesi Roma conosce il primo boom edilizio moderno, connesso all’imponente opera di modernizzazione e all’impianto dell’amministrazione centrale. I ministeri richiedono braccia per essere costruiti, ma anche e soprattutto impiegati per essere riempiti. Durante il fascismo, poi, l’estremo centralismo politico e la retorica propagandistica, che ha nei richiami alla grandezza dell’impero romano uno dei suoi cardini, esigono che Roma appaia come una capitale moderna, funzionale e imponente. Da qui l’ingente investimento del regime su Roma, che cambierà il volto di rioni storici (via dei Fori imperiali, via della Conciliazione), ma anche di vaste zone dell’agro a ridosso della città, edificate a creare nuovi quartieri dal nulla, come nel caso della Garbatella o del Tufello storico, nel quale confluirono in parte gli sfollati dei palazzi abbattuti per aprire via della Conciliazione.


LIMES Un cambiamento profondo, anche se forse il vero sconvolgimento epocale si è avuto nel secondo dopoguerra.

Roma, Garbatella

RICCARDI Confesso che sebbene il problema dei circa 7 mila nomadi, per lo più di etnia rom, censiti oggi a Roma sia serio, i ricorrenti isterismi che esso suscita mi fanno sorridere. Non posso infatti fare a meno di paragonare la supposta «invasione » odierna alle massicce ondate migratorie postbelliche che investirono la città e di cui, a quanto pare, si è persa memoria. Allora vale forse la pena ricordare che cos’era Roma negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta: di fatto, una città circondata da un anello di miseria. Al picco dell’immigrazione dal Mezzogiorno, Roma arrivò a contare oltre 100 mila baraccati, stante la carenza di alloggi. Baraccopoli enormi, vere e proprie favelas che cingevano la città, a volte appoggiandosi agli acquedotti di epoca romana, a volte insinuandosi nelle lingue di terra lasciate momentaneamente libere dal forsennato sviluppo edilizio, che seguiva in modo tentacolare le direttrici stradali. A Primavalle c’era chi vive­va ancora nelle case provvisorie di cartongesso costruite dal fascismo negli anni Trenta. Alle Olimpiadi del 1960 si tentò di mascherare i baraccati con i cartelloni pubblicitari, ma questa obliterazione temporanea durò il tempo dei Giochi. È soprattutto a quest’epoca, in cui Roma passò da 1 a quasi 3 milioni di abitanti, che faccio risalire lo snaturamento urbanistico della città, uno dei sintomi più tangibili della sua de-romanizzazione e progressiva italianizzazione. Insieme alla perdita del dialetto.


LIMES Sarebbe a dire che a Roma non si parla più romanesco?

RICCARDI L’accento romano dei nostri nonni, o ancora dei nostri padri, non esiste più, per non parlare del dialetto di un Trilussa o di un Belli. A Roma oggi si parla una sorta di romano contaminato dalle cadenze regionali, da quegli accenti che, ancora cinquant’anni fa, venivano spregiamente etichettati come «burini». Un romano infarcito di parole gergali che, da sole, non arrivano a configurare un dialetto vero e proprio.


LIMES Passi il dialetto, ma quanto a urbanistica qualche tratto caratterizzante Roma lo conserva. O no?

RICCARDI Sì e no. Esteticamente il centro storico – se intendiamo con questa accezione la vasta area compresa nelle Mura Aureliane – è ricco di simboli e rimandi tangibili alla romanità: basti pensare alla vasta area archeologica che comprende Foro, Palatino, Colosseo e Colle Oppio, summa della Roma imperiale. O al cosiddetto Tridente, l’area compresa tra piazza del Popolo e piazza Venezia, in cui si concentra il meglio della Roma barocca. Ma da un punto di vista funzionale, la Roma attuale è una grande periferia. Qui sta forse la frattura principale non solo con la Roma preunitaria, ma anche con quella prebellica. La vertiginosa espansione edilizia del secondo dopoguerra, di fatto mai arrestatasi, e la progressiva terziarizzazione dell’economia hanno comportato un duplice fenomeno: l’espansione della città e lo spopolamento del centro.


LIMES Ma il centro resta molto vissuto.

RICCARDI Vissuto o semplicemente frequentato? Oggi l’aspetto per me più preoccupante di Roma è lo scollamento del tessuto urbanistico e, di conseguenza, sociale: la stragrande maggioranza della popolazione vive in zone periferiche o semiperiferiche e nell’hinterland, mentre il centro, soprattutto negli ultimi vent’anni, ha seguito il «modello Venezia», diventando sempre più appannaggio di pochi danarosi (molti stranieri) e attività commerciali. I quartieri storici, come Trastevere o Testaccio, si sono andati svuotando. Oggi ci sono centinaia di migliaia di romani che passano gran parte del tempo senza vedere il centro, o comunque senza viverlo, magari attraversandolo in macchina, autobus o metropolitana negli spostamenti quotidiani. E alla pur sacrosanta urbanizzazione postbellica, tanto esecrata eppure indispensabile a dare un tetto a schiere di miserabili, ha fatto da sfondo un diffuso abusivismo che, nel tempo, è diventato un tratto antropologico della città, capace di permearne i comportamenti, rendendola spesso ingovernabile. Tanto per capirci: i camion in doppia fila davanti al Senato sarebbero inconcepibili di fronte a Westminster o all’Assemblée Nationale.


LIMES Tuttavia la Chiesa mantiene un solido presidio sul territorio, non foss’altro per la quantità di immobili che detiene, specialmente nelle zone centrali.

Quartiere Trastevere Roma

RICCARDI Ma la Chiesa e gli ordini religiosi non sono affatto esenti da questa tendenza. Negli ultimi decenni, complice il costante calo delle vocazioni e la conseguente sovrabbondanza di spazi onerosi da mantenere, numerosi immobili ecclesiastici del centro sono stati alienati o riconvertiti a scopi lontani da quelli originari, soprattutto in strutture recettive. Si perde il carattere di Roma con le istituzioni religiose convertite ad usi commerciali. Non ho dati precisi al riguardo, ma l’andazzo trova molte conferme empiriche. Personalmente ho assistito con un certo dispiacere alla sorte dello storico monastero borrominiano della Madonna dei Sette Dolori, in via Garibaldi, dove durante la guerra le monache nascosero decine di ebrei e che è stato trasformato in hotel. Sono operazioni logiche, ma contribuiscono allo svuotamento e allo snaturamento del centro storico.


LIMES Che ruolo ha giocato invece la Chiesa nella dispersione urbanistica di Roma, ovvero nella crescita delle periferie?

Quartiere Trastevere Roma

RICCARDI Un ruolo non secondario, ma per certi versi speculare a quello dei programmi edilizi novecenteschi. La Chiesa raccolse la sfida urbanistica del fascismo e successivamente cercò di tenere il passo con la frenesia edilizia postbellica. La prima mirava a dare lustro alla capitale per renderla degna delle ambizioni del regime. La seconda a tamponare un’emergenza abitativa che rischiava di fare di Roma una metropoli sfigurata, da Terzo Mondo. Nel primo caso, il Vaticano – specialmente dopo il concordato del 1929, che riconsegna al papa una sovranità salda e indiscussa, ancorché circoscritta – volle contrapporre alla grandeur imperiale fascista la visione di Roma come capitale spirituale. Se per Mussolini senza Roma i cristiani sarebbero rimasti una tra le tante sètte che popolavano l’infervorata Palestina, per la Chiesa la gloria dell’Urbe deriva dall’esser stata l’approdo di Pietro e Paolo. Nel secondo caso, la risposta ecclesiastica prese la forma di uno sforzo missionario volto a portare la Chiesa nelle periferie, che si espandevano a macchia d’olio.


LIMES In che cosa si traduce tutto ciò?

Street-art, murales di Tormarancia

RICCARDI In un massiccio investimento nella crescita di Roma. Ovvero nella costruzione, dagli anni Trenta a oggi, di una messe di chiese (se ne contano diverse centinaia), che rappresentano forse l’unico progetto urbanistico di dimensione cittadina pianificato e realizzato con costanza e continuità. A tal fine venne creata e poi rafforzata l’Opera della preservazione della fede e delle nuove chiese, presieduta dal cardinale Marchetti Selvaggiani. Quando assunse la presidenza Marchetti non era vicario; lo diverrà nel 1931. Ma dopo di lui e fino a Ruini, l’opera sarà sempre diretta dal cardinal vicario, a conferma della sua importanza. Inoltre, fino al nuovo concordato del 1984, la maggior parte di queste chiese sarà finanziata interamente o principalmente dal Vaticano, con uno sforzo economico che, da solo, dà la dimensione dell’enorme valenza attribuita dal papa a quest’opera di «ecclesizzazione» di Roma.


LIMES Eppure, questo sforzo di recupero della sfera spirituale cittadina poco o nulla ha potuto contro la progressiva periferizzazione di Roma. In che misura la Chiesa è cosciente di ciò?

RICCARDI In misura notevole, direi. Risale al 1974 il convegno promosso dal cardinal Poletti sui «mali di Roma», in cui si denunciava non solo il malessere sociale di una città che nel giro di una generazione aveva visto stravolta la sua fisionomia, ma anche i mali di una politica di Palazzo che mostrava già chiari i segni del tarlo che avrebbe roso da dentro la cosiddetta Prima Repubblica. Il portato di quel convegno fu grande. Ne scaturì uno sforzo volto a motivare socialmente i cattolici, ma anche la presa di coscienza della necessità di «romanizzare» la Chiesa di Roma. Sembra un paradosso, ma non lo è: di fatto, Roma non aveva mai avuto una «sua» chiesa, una vera cattedrale, ossia una chiesa cittadina, diocesana, centrale. Il vicariato era concepito come una congregazione della curia che gestiva Roma. La capitale d’Italia è forse l’unica grande città del cattolicesimo la cui cattedrale – San Giovanni – è posta ai margini del centro, a ridosso delle mura che ne cingono il nucleo storico. Il centro morale della Chiesa romana è San Pietro. Poletti affermò invece il bisogno della Chiesa romana di farsi anche Chiesa cittadina.


LIMES Emerge dunque la progressiva spersonalizzazione e italianizzazione di Roma. Ma non sarebbe più esatto dire «meridionalizzazione»? In fin dei conti, la maggior parte degli immigrati stabilitisi a Roma veniva dal Sud.

RICCARDI È vero, ma è un Sud particolare quello che ha riempito Roma. Se nell’immigrazione meridionale vi fosse stata una componente regionale preponderante, forse la città avrebbe assunto un carattere marcatamente campano o siciliano o pugliese. Ma il carattere eterogeneo dell’ondata migratoria ha fatto sì che nell’italianizzare Roma i nuovi arrivati stemperassero, mischiandole, le loro caratteristiche originarie. In un certo senso, l’unità del Sud si è fatta a Roma. La capitale non ha romanizzato chi ha accolto, nel senso che non ha trasferito intatti agli abitanti acquisiti i suoi tratti culturali originari, che sono invece andati scemando. Ma ha fatto da solvente delle culture «importate», dando vita nel tempo a una sorta di melting pot tiberino. Inoltre, se l’apporto meridionale è stato prevalente, non è mancato quello centro-settentrionale.


LIMES Che cosa resta, oggi, della profonda identificazione tra Roma e la Chiesa cattolica?

Quartiere Testaccio Roma

RICCARDI Dipende dall’ottica con cui si guarda alla città. In linea di massima, più ci si allontana da Roma più essa è percepita come un tutt’uno indistinto dal papa. È famosa la rievocazione del primo viaggio di Karol Wojtyła a Roma da seminarista, nel 1946: «Faticai a trovare la Roma cristiana», ammise. Il futuro pontefice cercava una città santa e si trovò davanti una città laica. Eppure proprio papa Wojtyła, il primo papa non italiano dopo 455 anni, fu uno dei più instancabili ambasciatori della romanitas. Ad esempio, nel suo viaggio in Burkina Faso non si presentò come papa, ma come «vescovo di Roma». Il suo stesso retroterra culturale facilitava tale identificazione: giunto a Roma, il suo rettore lo ammonì che avrebbe dovuto «imparare Roma, perché Roma è una lezione di universalità». Ma quella di Giovanni Paolo II era una romanità molto diversa da quella circoscritta del perio­do preunitario. Piuttosto, era la rivendicazione della leadership papale: una leadership che si esercitava su una Chiesa ormai internazionalizzata e sostanzialmente de-romanizzata nelle sue molteplici propaggini. E che pertanto aveva e ha nel vescovo di Roma un’importante figura di guida. Del resto la città si entusiasma relativamente per il papa, considerandolo una componente naturale sul suo paesaggio. Il suo rapporto con la Santa Sede ricalca un po’ quello con le istituzioni statali: Roma è una sede di rappresentanza e, come tale, sopporta oneri (molti) e onori di questa funzione, con il solido disincanto di chi ne ha viste tante.


LIMES Se quello di Wojtyła con Roma era un rapporto funzionale, non solo affettivo, quando possiamo collocare la fine del rapporto esclusivo, osmotico tra Roma e la Chiesa?

RICCARDI Volendo scegliere una data simbolica, potrebbe essere il duro inverno del 1943-44. In quel frangente drammatico, per un breve momento Pio XII torna a incarnare quasi totalmente l’anima di Roma. Papa Pacelli, romano di nascita ancor prima che per vocazione, è l’ultimo grande cantore della romanità sacra. Nel corso del suo pontificato compì un investimento ideale enorme nel tentativo di rendere Roma un nuovo «laboratorio di civiltà». Ma la Chiesa ormai guardava altrove e questo afflato romano non trovò una solida sponda al di là delle Mura Vaticane, anzi nemmeno nella curia. Del resto, la stessa classe dirigente della Chiesa si è andata via via de-romanizzando. Inizialmente, il Seminario Romano era composto dal Seminario Pio – che raccoglieva i seminaristi provenienti dagli Stati pontifici – e da quello Romano, composto da «romani di Roma». Nel 1565 i due seminari vennero fusi nel Pontificio Seminario Romano Maggiore. Dagli anni Venti Roma accoglierà un numero crescente di italiani, di tutte le provenienze geografiche. La componente romana nella prelatura è sempre presente, ma si andrà progressivamente assottigliando. Ultimi epigoni della romanità, negli anni Sessanta, furono cardinali come Tardini, Ottaviani e Angelini: il primo studiava il Belli, il secondo era un trasteverino doc e il terzo, classe 1916, è l’ultimo cardinale romano del collegio.

Basilica San Giovanni Roma


LIMES Insomma: l’Italia ha de-romanizzato Roma, ma Roma non ha romanizzato l’Italia, almeno non nella stessa misura. Dunque, qual è oggi la fisionomia della capitale?

RICCARDI Oggi probabilmente Roma è la città più italiana d’Italia. Questo vuol dire che, per certi aspetti, ha un carattere più sfuggente e indefinito di altre. Ma vuol dire anche che, quando polemizzano con Roma e l’attaccano, gli italiani polemizzano un po’ con se stessi, prendendo a bersaglio caratteristiche che, in misura variabile, condividono. Roma ladrona, truffaldina, sprecona, indolente, statalista, ministeriale: come ogni stereotipo, anche questi hanno un fondo di verità. Roma presenta senza dubbio tratti levantini, in parte ad essa connaturati, in parte acquisiti nel corso del Novecento. Di questo la città porta segni tangibili, dalla pulizia ai servizi pubblici. Ma quando se la prendono con Roma, spesso gli italiani – in modo più o meno consapevole – se la prendono con l’Italia tutta e dunque, in ultima analisi, con se stessi.


LIMES La percezione di Roma in Italia non sembra particolarmente positiva.

RICCARDI Infatti non lo è. Non credo lo sia mai stata. Da piccolo ho vissuto in Romagna e sentivo esattamente gli stessi discorsi anti-romani che fa oggi la Lega. Probabilmente si sarebbero sentite le stesse cose di Torino o Firenze, se fossero rimaste capitali. Ma forse il percepito carattere meridionale di Roma accentua questa ostilità. Così come l’accentua, o quanto meno non la argina, il fatto che Roma non si sia mai difesa veramente: piccarsi ma, alla fine, incassare e passare oltre è tipico della sua indole sorniona. Ma è anche frutto di un deficit d’orgoglio cittadino che trova mille espressioni e a cui non è estranea la progressiva diluzione dell’identità romana di cui abbiamo discusso sinora.

Roma, via delle Botteghe Oscure


LIMES Allarghiamo per un attimo lo sguardo al Mediterraneo, mare nostrum per gli antenati dei romani odierni. Ciò che sta avvenendo in Nordafrica può aiutare a risollevare la statura di Roma, come città e come capitale?

RICCARDI Può farlo, ma a condizione che Roma sia in grado di tornare a produrre una visione geopolitica. Qualcosa che questa città non ha fatto solo in epoche remote, ma ancora poco tempo fa, sebbene in modo per certi versi indotto. Per tutta la guerra fredda Roma è stata un importante crocevia internazionale. La politica italiana, bene o male, esprimeva orientamenti compiuti. Il Vaticano ricopriva un ruolo geopolitico fondamentale e il Partito comunista era un interlocutore privilegiato non solo di Mosca, ma anche della Santa Sede, che per parlare con la Cina o coi governi africani progressisti cercava qualche volta la mediazione di Botteghe Oscure. Insomma, Roma era un posto in cui si concepivano idee.


LIMES Può tornare a esserlo?

RICCARDI Sì, ma come tutte le capitali ha bisogno di un governo in grado di riportarla nei circuiti internazionali da cui è stata gradualmente espunta, negli ultimi anni, dal disperante provincialismo del nostro establishment. Sono profondamente convinto che Roma sia la città mediterranea per eccellenza: non tanto né solo geograficamente, ma anche e soprattutto geopoliticamente. Non si può fare la politica internazionale dell’Italia dalla Valtellina o da Agrigento. Roma deve dunque tornare a investire nel Mediterraneo. Il che vuol dire anzitutto liberarsi dalla comoda illusione, peraltro sonoramente smentita dai fatti, che basti parlare con il capo (Gheddafi, Ben Ali, Mubarak, Bouteflika o chi per loro) per parlare a un paese. I rapporti tra Stati sono fatti di commercio, cultura, borse di studio, religione e di tutto quanto valga a mettere in comunicazione le società, oltre che le leadership.


LIMES Ma in questa fase in cui in Italia le spinte centrifughe sembrano prevalere sulle ragioni dell’unità, c’è spazio per un ruolo importante di Roma?

RICCARDI Tutti noi italiani, romani e non, dobbiamo ringraziare Romolo e Remo, san Pietro e san Paolo e l’Eterno Architetto della storia per averci dato Roma. Siamo in una fase in cui le persone si illudono che i localismi esasperati costituiscano una valida difesa dalle insidie della globalizzazione, dell’immigrazione, della disoccupazione di massa e delle incursioni del capitale straniero. Ma questo è un tranquillante, non una cura. La risposta vera a queste sfide sta in una politica nazionale e internazionale intelligente, alla cui elaborazione e attuazione è indispensabile l’apporto di quella che, nel bene e nel male, resta la capitale del nostro paese.

Foro Romano


LIMES Se l’ipotesi federale dovesse concretizzarsi, sarebbe ancora possibile avere a Roma un laboratorio geopolitico?

RICCARDI Il federalismo non è un male in sé. Va però usato con cognizione di causa. Se l’esito finale dovesse essere un frazionamento economico e una parcellizzazione territoriale dello Stato, il grande rischio per Roma sarebbe quello di diventare il notaio spartitore tra le varie porzioni di territorio italiano. Una funzione che storicamente non le appartiene: Roma forse non è mai stata caput mundi, magari neppure caput Italiae, ma di certo è stata più di una mera esattrice. È stata, se vogliamo, un amministratore delegato. Invece oggi le si chiede di ridursi a spartitrice dello Stato che dovrebbe rappresentare, il che va contro la sua natura di capitale. Come va contro la natura di qualsiasi capitale. Città come Bruxelles e Vienna testimoniano di come, quando gli Stati e gli imperi si sfaldano, le loro capitali si vestono a lutto e sono condannate a restare vedove. Magari bellissime ed eleganti, ma sole e malinconiche. Nonostante lo stereotipo del romano buontempone, Roma un po’ mesta lo è già di suo, permeata com’è da una vena di praticità triste, sofferta. Ma l’abbandono no, è un destino che non vuole. E che non merita.

Conversazione con Andrea RICCARDI, fondatore della Comunità di Sant’Egidio.
a cura di Fabrizio Maronta, Lucio Caracciolo pubblicata in: L’ITALIA DOPO L’ITALIA – n°2 – 2011 LIMES (limesonline.com)

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