INTRA, JAZZ E ANCORA JAZZ

INTRA, JAZZ E ANCORA JAZZ

ENRICO INTRA INTERVISTATO DA ANTONIO GNOLI RICORDA I TEMPI DEL DERBY CLUB, LA FUCINA DI CABARET E MUSICA DELLA MILANO DA BERE- MUSICISTA JAZZ DI IMPRONTA CLASSICA HA SUONATO CON I GRANDI DEL ‘900: DA CHET BAKER A MULLIGAN, A FRANCO CERRI COL QUALE FONDO’ UN DUO JAZZISTICO ANCORA RIMPIANTO.

 

Performance a sorpresa di Renato Doney insieme ad Enrico Intra al Teatro Nazionale di Milano rs

Improvvisazione di Enrico Intra con Renato Doney al teatro nazionale di Milano

Non insegna ma tutti lo chiamano maestro. Distratto nel pensiero e nel vestire Enrico Intra si aggira nella “Civica Scuola di Jazz” che coordina e che ha fondato insieme a Franco Cerri e altri due appassionati. Lo seguo mentre sgambetta energico tra i corridoi delle aule: allievi in attesa della lezione, altri che l’ hanno da poco finita.

Qualche nota di un sax rompe il ron ron di una mattinata alla periferia di Milano, sulla strada per Linate. Segno che non essere al centro della città non è poi così male. «La scuola è nata dalla nostra passione per il jazz ed è stata considerata così importante da essere parificata all’ attività di un conservatorio » , dice con una punta di orgoglio.

Enrico Intra

Enrico Intra

Sediamo attorno a un tavolo e quando parla poggia le mani con le palme all’ ingiù. Come fosse alla tastiera di un pianoforte. Quel modo di dire le cose a mezza voce mi fa pensare che le parole evaporino troppo in fretta perché valga la pena scandirle bene. Quest’ uomo, considerato uno dei grandi pianisti del jazz, sembra fregarsene della propria storia, soprattutto di doverla raccontare a un estraneo. È come se parlasse a sé stesso.

Ogni tanto dice: le arriva la mia voce? Mi limito a sorridere. Aspetto che si apra un varco nel muro di spiegazioni tecniche e musicali.

Cosa deve fare in più o di diverso una scuola di musica da una normale?

«Evitare che escano allievi tutti uguali: bulloni seriali che contraddicono il principio basilare del jazz: rompere le regole».

Cerri & Intra

Enrico Intra con Franco Cerri, uno dei migliori chitarristi jazz di tutti i tempi

Privilegia l’ anarchia musicale?

«Si cerca un po’ di originalità in chi forse la possiede e magari non lo sa. Mi ritengo una specie di Pierino del jazz. Ma anche un rabdomante. Nel dopoguerra imitavamo gli americani. Ci siamo formati sui primi dischi swing di Louis Armstrong, Duke Ellington, Benny Goodman. Il mondo classico del jazz: un Walhalla abitato da déi inarrivabili. Poi ci fu la svolta del Bebop con Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Bud Powell. I dischi arrivavano per nave. I pianisti che attraversavano l’ oceano ci rifornivano di questa musica. Avevo un fratello più grande appassionatissimo di jazz. Devo a lui se sono entrato in questo mondo».

Sta parlando di Gianfranco Intra?

Enrico Intra« Andò via da casa perché nostro padre, autista privato, considerava inconcepibile un figlio musicista. Erano anni duri e bisognava portare a casa soldi non sogni o peggio ancora velleità artistiche. Gli sono grato perché ha rischiato ed è riuscito ad aprire una strada. Quando è venuto il mio turno, il vecchio mi ha guardato con occhio rassegnato. Il più lo aveva fatto mio fratello».

Come sono stati i rapporti tra di voi?

« All’ inizio era felice di coinvolgermi nel suo grande amore.

Poi quando si accorse della mia predisposizione si infastidì. Chiudeva il pianoforte a chiave con la scusa che glielo rovinavo. Dunque per un lungo periodo rapporti tesi. Poi un giorno mi confessò che aveva patito la mia bravura».

E lei?

« Lo abbracciai senza dirgli niente, almeno in quel momento.

Enrico IntraPoi ho capito che voleva chiudere quella partita sgradevole tra fratelli . Solo uno veramente grande può dire a un altro tu sei meglio di me. Fu generoso e non me lo aspettavo. Finì a quel punto la gara tra di noi

Non la sento del tutto convinto

«Sono uno che se deve correre i cento metri, anche a ottant’ anni vorrebbe stare sotto i dieci secondi e vincerli. E non è neppure una questione di agonismo, ma il fatto che più il tempo passa e più avverto il piacere di suonare da solo. Glielo dico consapevole che ho fatto cose straordinarie con altri».

Pensa al rapporto con Franco Cerri?

« È stato un personaggio imprescindibile dalla mia vita. Ma le racconto questo episodio che mi è accaduto pochi giorni fa in occasione del compleanno di Franco. Lui novantadue io ottantatré anni. Non proprio due ragazzini. Per festeggiare organizziamo un duo chitarra pianoforte. All’ ultimo momento Franco non è potuto venire».

« Decido per l’ assolo. Chiunque altro si sarebbe rammaricato.

IntraIo ho l’ onesta di ammettere che ero contento che Franco non fosse venuto. Ma cerchi di capire, non è per una banale questione di egoismo o di rivalità, che non c’ è mai stata. Ho solo pensato che avrei potuto suonare anche per lui. E quella sera il pubblico ha percepito questa magia. Alla fine del concerto avevo le mani aggrappate ai tasti e poi lentamente si sono alzate. Sospese per aria.

Ero lì curvo, vestito di nero, con le perle di sudore che scendevano. Nel silenzio della sala. Mi veniva da piangere. Perché la musica, il jazz, ha questo di straordinario ti scava dentro come nessuna immagine o parola riesce a fare».

Dopo quella performance come si definirebbe?

«Riconosco di avere un ego debordante, incontenibile, sorretto dalla giusta presunzione che mi ha consentito di fare cose anche straordinarie e non in linea con i percorsi che di solito si praticano anche nella nostra musica. Quindi se mi dovessi definire in qualche modo, non dopo quella sera, ma in generale, direi che sono un uomo fortunato. Perché il talento è un soffio e basta niente perché si perda».

 

Ha mai avvertito questa minaccia?

« Direi ogni volta che mi siedo al pianoforte. Ogni volta so di trovarmi dentro un vuoto che va riempito. E posso farlo, certo, con il mestiere e con la tecnica che mi assiste; ma al tempo stesso so che ogni volta va forzato un limite perché quel vuoto non risuoni banalmente e in modo prevedibile».

Gerry Mulligan

È come ossessionato da una ricerca assoluta di autenticità.

« La porto dentro da sempre. A un certo punto ero a un bivio, siamo sempre davanti a qualche incrocio, potevo scegliere la classica o il jazz. Ma non avrei potuto suonare Bach o Beethoven con la sola costante applicazione dell’ esercizio. Mi sarei perso su qualche strada improduttiva. Quando ho scelto il jazz l’ ho fatto perché ai miei occhi era la musica senza confini, senza costrizione».

Chet Baker

Chet Baker

Improvvisazione, di questo sta parlando?

«L’ improvvisazione probabilmente è uno stato di grazia applicato a un dettaglio, a un frammento, a un istante che fa saltare la partitura, i suoi tempi: la deviazione repentina e pur necessaria da un ritmo stabilito. È come trovarsi in un labirinto cercando col solo istinto la via di uscita. Si improvvisa non per chiudersi in qualche trappola ma per esplorare l’ infinita potenzialità della musica ».

Per questo a differenza di tanti jazzisti ha provato a coniugare generi musicali diversi?

«Posso partire dal Gregoriano o da Bach, o magari da Scarlatti e arrivare alla mia musica; o, per restare al Novecento, rileggere Stockhausen, Berio o Boulez come fossero loro stessi degli improvvisatori, nella convinzione che il jazz non è un linguaggio a sé stante ma parte di un linguaggio totale. Ecco la libertà di cui parlo: la necessità di non sottostare a codici stabiliti una volta per tutte».

Questa libertà l’ ha portata anche a Sanremo?

« Non rinnego nulla, anzi. La vita è fatta di buoni e di cattivi compromessi».

Il suo come lo giudica?

« Partecipai a un festival nei primi anni settanta. Scrissi una canzone per Sacha Distel che giunse ultima. Non me ne pento, anzi. Ma certamente ho fatto cose più interessanti».

POZZETTO PONZONI JANNACCI

Cochi Ponzoni,Renato Pozzetto e Jannaci

Tra queste la collaborazione con i più grandi jazzisti in circolazione. La punta di diamante è stato il rapporto con Gerry Mulligan. Che ricordo ne ha?

«Jazzista straordinario. Ma la definizione gli stava stretta. Anzi, se gli pronunciavi la parola “jazz” si incazzava. E aveva ragione. Mi fu presentato da Franco Fayenz. A quell’ epoca, negli anni settanta, Mulligan veniva spesso in Italia perché si era innamorato di una ragazza, Franca Rota, che poi diventerà sua moglie.

Non era un uomo semplice, a volte si lasciava travolgere dall’ ira; lo vidi litigare violentemente con Chet Baker. Ma poi la rabbia lasciava il posto allo stupore e tornava l’ uomo silenzioso che era.

Nell’ essere un musicista fondamentalmente libero. È stato uno dei pochi a creare una musica verticale».

Cioè?

« Aveva inventato un modo di suonare che non prevedeva l’ armonia ».

Enzo Jannacci al Derby tra i suoi “figli” tra cui Cochi Ponzoni, Abatantuono, Boldi e Faletti

Foto storica al Derby Club di Milano: Si riconoscono: Enzo Jannaci, Cochi Ponzoni, Diego Abbatantuono, Massimo Boldi, Giorgio Faletti

La collaborazione come nacque?

«Aveva ascoltato alcune mie composizioni e gli erano piaciute.

La prima volta che lo vidi gli dissi che per me era fondamentale partire da una cosa semplice. Gli proposi Nuova civiltà un brano in cui sostanzialmente non c’ erano divisioni tra le varie musiche.

Capì al volo e allora preparammo in uno studio di registrazione il disco completo. Il mio ego dilagava anche perché l’ anno prima, nel 1974, Gerry aveva collaborato con Astor Piazzolla. Ora era il mio turno. Dio era sceso con il sax baritono per dirmi suonerò per te».

Il vostro rapporto però non andò avanti.

«Avremmo anche potuto continuare. Ma la verità è che in quel momento Mulligan aveva soprattutto un maledetto bisogno di soldi. Sì l’ arte; sì il rispetto per il mio lavoro. Ma sono anche convinto che a quell’ intesa, che si rivelò comunque straordinaria, contribuì la sua precarietà economica».

Con chi altri ha lavorato?

Enrico Intra«Un periodo particolarmente ricco di intrecci fu quando diedi vita al Derby di Milano. All’ origine, prima che diventasse un cabaret, fu un luogo per il jazz. Venivano un po’ tutti: Flavio Ambrosetti, Niels Pedersen, Daniel Humair, George Gruntz. Una sera si presentò il “Modern Jazz Quartet” e proposi al vibrafonista del gruppo, Milton Jackson, di fare un disco insieme. Ma lui era sotto contratto come strumentista. Alla fine trovai il modo di ingaggiarlo come cantante».

Perché il Derby divenne un’ altra cosa?

« Perché il cabaret è molto più popolare. Ora sento dire che il Derby lo inventarono altri. Ho ancora la lista dei pagamenti agli artisti che invitavo. Accanto al nome di Enzo Jannacci c’ è la cifra di 15 mila lire! Allora, parlo del 1962, il locale si chiamava “Intra’ s Derby Club”. Me l’ offrì Gianni Bongiovanni, zio di Diego Abatantuono e ristoratore di professione. Sono passati tutti da lì: ad ascoltarci venivano perfino i giocatori dell’ Inter e del Milan. Il vecchio Angelo Moratti, presidente dell’ Inter, invitò me e Cerri a suonare nella sua villa. Venivano spesso Giorgio Strehler e Paolo Grassi. A volte si esibiva anche Ornella Vanoni».

Dorfles

Gillo Dorfles

Paolo Conte?

« Non lo ricordo al Derby. Ma andai a trovarlo ad Asti nel suo studio di avvocato, proponendogli qualche apparizione. Sapevo della sua passione per il jazz. Fu cortese, non disse no, ma alla fine non si è mai fatto vedere. Credo che avesse talmente tante cose dentro che riteneva superflua la comparsa su un palcoscenico come il nostro ».

Lei ha ancora molte cose dentro?

«Vivo per tutto quello che ho dentro e che traduco. Ho da poco preparato una raccolta in cui c’ è anche un pezzo che si chiama Gillo, dedicato a Dorfles. Ho letto un suo libro sugli intervalli che mi ha conquistato».

Cosa pensa dei suoi centosette anni?

«Non so se abbia fatto un patto con il diavolo. Ma c’ è qualcosa di incredibile. Che mi trasmette quasi un senso di angoscia».

Paolo Conte

Cosa teme più di tutto?

«Ho paura di quasi tutti gli animali e in particolare ho la fobia delle formiche. Mi angoscia sapere che possono infilarsi ovunque. Per il resto no. Ho sofferto tantissimo per la morte di mia madre e per quella di mio fratello. Negli ultimi tempi si rifiutava di vedere chiunque. Io ebbi la presunzione di potergli parlare. Era incazzato con tutti. Se penso alla morte la vedo con i suoi occhi.

Per il resto non voglio soffrire, l’ ho detto a mio figlio, quando è il momento me ne voglio andare con dignità».

Il suo ego l’ accompagnerà?

ANTONIO GNOLI

Antonio Gnoli, giornalista

«Non c’ è Io che possa rivaleggiare con la fine. Può solo contemplare le cose che la vita gli ha dato e gli ha tolto. Ho realizzato tantissime cose. Ho perfino recitato una parte nel film La vita agra.

Mi sono interessato di cinema muto, sperimentandone la ricchezza in rapporto alla musica. Ho usato le voci di Carmelo Bene e Giuseppe Ungaretti. Sperimento. Ho raggiunto un’ età in cui posso dire e fare ciò che voglio. Anche quando suono non mi esercito più al piano. Esca quello che deve uscire. Sono un misto di contraddizioni. C’ è l’ ego da una parte. E dall’ altra mi sento umile e naif. Ma lo scriva con lettere maiuscole, altrimenti l’ ego si offende ».

Antonio Gnoli per Robinson-la Repubblica

IL LAVORO BEN FATTO

 

 

IL MANIFESTO DEL LAVORO BEN FATTO
1. Qualsiasi lavoro, se lo fai bene, ha senso.
2. Nel lavoro tutto è facile e niente è facile, è questione di applicazione, dove tieni la mano devi tenere la testa, dove tieni la testa devi tenere il cuore.
3. Ciò che va quasi bene, non va bene.

4. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, grazie al lavoro delle donne, degli uomini e delle macchine.
5. Un mondo che sa dare più valore al lavoro e meno valore ai soldi, più valore a ciò che sappiamo e sappiamo fare e meno valore a ciò che abbiamo, è un mondo migliore.
6. Il lavoro è identità, dignità, autonomia, rispetto di sé e degli altri, comunità, sviluppo, futuro.

Vincenzo Moretti

7. Il lavoro ben fatto non può fare a meno dell’amore per quello che si fa e del piacere di farlo.
8. Il lavoro ben fatto non può fare a meno dei diritti, della dignità, della soddisfazione, del rispetto e del riconoscimento sociale di chi lavora, indipendentemente dal lavoro che fa.
9. Il lavoro ben fatto non può fare a meno dell’etica, della cultura, dell’approccio, del modo di essere e di fare fondati sulla necessità di fare bene le cose a prescindere, in qualunque contesto o situazione.
10. Il lavoro ben fatto non può fare a meno dei doveri di chi lavora, del suo impegno a mettere in campo in ogni momento tutto quello che sa e che sa fare per fare bene il proprio lavoro, come persona e come componente delle strutture delle quali fa parte, con spirito collaborativo, indipendentemente dal lavoro che fa.

11.
 Fare bene le cose è bello.
12.
 Fare bene le cose è giusto.
13.
 Fare bene le cose conviene.

14.
 Il lavoro ben fatto non è soltanto un modo etico, cooperativo, sociale di pensare e di fare le cose.
15. Il lavoro ben fatto è prima di tutto un modo razionale, utile, conveniente di pensare e di fare le cose.
16. Non importa quello che fai, quanti anni hai, di che colore, sesso, lingua, religione sei. Quello che importa, quando fai una cosa, è farla come se dovessi essere il numero uno al mondo. Il numero uno, non il due o il tre. Poi puoi essere pure il penultimo, non importa, la prossima volta andrà meglio, ma questo riguarda il risultato non l’approccio, nell’approccio hai una sola possibilità, cercare di essere il migliore.


17. Lavoro ben fatto è mettere sempre una parte di te in quello che fai.
18. Lavoro ben fatto è il calore che fai quando fai bene qualcosa, qualunque cosa tu faccia, progettare un ponte, pulire una strada, lavare il pavimento del bar dopo che hai abbassato la saracinesca.
19. Lavoro ben fatto è rispetto di sé, visione, fiducia, voglia di non arrendersi.
20. Lavoro ben fatto è soddisfazione, conoscenza, creatività, potenziale, intelligenza, intraprendenza, connessione, autonomia, innovazione, dedizione, professionalità. Delle persone e delle organizzazioni.
21. Lavoro ben fatto è la qualità che fa muovere un Paese, che lo fa ripartire, che lo sostiene nei suoi percorsi di cambiamento e di sviluppo, che non si accontenta dei casi di eccellenza, che si fa norma, che traduce gli obiettivi in risultati.
22. Lavoro ben fatto è intelligenza collettiva, bellezza che diventa ricchezza, cultura che diventa sviluppo, storia che diventa futuro.

23. Cogliere e moltiplicare le opportunità è lavoro ben fatto.
24.  Connettere maestria, creatività e bellezza è lavoro ben fatto.
25. Mettere a valore il sapere e il saper fare delle persone, la conoscenza esplicita e tacita delle organizzazioni, la cultura e la storia delle città e delle comunità è lavoro ben fatto.
26. Investire nella scuola, nella formazione, nella conoscenza, nell’innovazione, nella ricerca scientifica è  lavoro ben fatto.
27. Leggere le relazioni tra le persone e le organizzazioni, e i loro significati, dal punto di vista della conoscenza, è lavoro ben fatto.
28. Riconoscere il valore delle donne e degli uomini che ogni giorno con il proprio lavoro danno più significato alle proprie vite e più futuro al proprio Paese è lavoro ben fatto.


29. Il cambiamento riguarda tutti.

30. Le singole persone, senza le quali il lavoro ben fatto non può diventare modo di essere e di fare, senso comune, missione condivisa.

31. Le organizzazioni, destinate ad avere tanto più futuro quanto più riescono a connettere il fare con il pensare, ad affermare idee e modelli gestionali in grado di tradurre con più efficacia le idee in azioni e gli obiettivi in risultati.

32. Le classi dirigenti a ogni livello, alle quali tocca ricostruire il nesso tra potere, inteso come possibilità di disporre di risorse e di prendere decisioni, e responsabilità, intesa come necessità di operare nell’interesse generale delle istituzioni e dei cittadini che si rappresentano.


33. Non è tempo di piccoli aggiustamenti.
34. A partire dal lavoro e dal suo riconoscimento sociale va ridefinito il background, la tavola di valori, di riferimenti e di interpretazioni condivise necessari alle famiglie, alle comunità, ai paesi, al mondo, per pensare il proprio futuro in maniera più inclusiva e meno ingiusta.
35. Va ripensata la relazione esistente tra la capacità di innovare, di competere e di conquistare spazi di mercato e il riconoscimento sociale del valore del lavoro, la possibilità che chi lavora abbia una vita più ricca e consapevole.
36. Il sapere, il saper fare, l’apprendimento per tutto il corso della vita sono una componente essenziale non solo dei processi di emancipazione delle persone ma anche della capacità di attrarre e di competere delle imprese, delle PA, dei territori dei diversi Paesi.

37. Il lavoro ben fatto è il suo racconto.
38. Il racconto ha origini antiche come le montagne.
39. Ogni cosa che accade è un racconto.

40. Raccontando storie ci prendiamo cura di noi.
41. Connettiamo vite, fatti, eventi.
42. Diamo senso al trascorrere del tempo.
43. Ricostruiamo ciò che è successo a vantaggio del significato.
44. Istituiamo ambienti sensati.
45. Incrementiamo il valore sociale delle organizzazioni e delle comunità con le quali in vario modo interagiamo.
46. Attiviamo processi di innovazione e di cambiamento.

Adriano Olivetti, un imprenditore antisignano del lavoro ben fatto e dell’etica sociale

47. È tempo di nuovi Omero, di nuova epica, di nuovi eroi.
48. È tempo di donne e di uomini che ogni mattina mettono i piedi giù dal letto e fanno bene quello che devono fare, a prescindere, perché è così che si fa.
49. È tempo di persone normali.
50. È tempo di fare bene le cose perché è così che si fa.

51. Siamo quelli del lavoro ben fatto e vogliamo cambiare il mondo.
52. Nessuno si senta escluso.

Il Manifesto del lavoro ben fatto è di Vincenzo Moretti, sociologo e narratore.  Moretti è stato professore a contratto di sociologia industriale e di sociologa dell’organizzazione presso l’Università di Salerno.Già presidente di SMILE (Sistemi e Metodologie Innovative per il Lavoro e l’Educazione), agenzia nazionale di formazione. Ha pubblicato articoli per varie testate giornalistiche e attualmente ha un suo blog su NOVA 24 del gruppo Sole 24 Ore. (qui).

 

FAI SHOPPING E SARAI PIU’ LEGGERA

FAI SHOPPING E SARAI PIU’ LEGGERA

 

A ZONZO PER NEGOZI? SECONDO LA ZALANDO, MULTINAZIONALE DELL’ABBIGLIAMENTO DA 3-4 MILIARDI DI EURO, FAREBBE MIRACOLI, SOPRATTUTTO PER LE SUE TASCHE- COME SMALTIRE LE CALORIE DISSIPANDO DENARO-  DIFFICILE RASSODARE I GLUTEI SENZA DIVENTARE COMPULSIVI PATOLOGICI.

 

SHOPPING ONLINE

Fa dimagrire, tonifica cosce e glutei, rilassa, allevia stress e tensioni, migliora l’ umore, facendoci ritrovare il sorriso anche nelle giornate più nere, e addirittura ci fa vivere più a lungo. Fare shopping sembra essere una panacea per tutti i mali. Ed è forse per questo che le donne, che amano dedicarsi alle compere e per le quali ogni scusa ed ogni circostanza sono buone per fare un salto al centro commerciale, hanno statisticamente un’ aspettativa di vita superiore a quella degli uomini.

A risentire di un pomeriggio trascorso in centro tra un negozio e l’ altro, è solo il portafoglio, che di solito ne esce alquanto assottigliato. Da uno studio condotto qualche anno fa da ricercatori taiwanesi ed australiani e pubblicato sul Journal of Epidemiology and Community Health è risultato che, su un campione di 1900 volontari ambosessi con un’ età superiore ai 65 anni ed in perfetta forma fisica, la percentuale di mortalità di coloro che usano fare acquisti almeno 6 giorni su 7 è inferiore del 28% rispetto a quelli che preferiscono restare sul divano tenendo al sicuro le proprie finanze piuttosto che spendere e spandere.

shopping online1

La ricerca ha evidenziato che fare acquisti in maniera costante non solo riduce l’ ansia, ma produce effetti benefici sulla salute psico-fisica, soprattutto degli anziani, tanto da allungarne la vita.

Infatti, proprio grazie allo shopping, è possibile vincere solitudine e pigrizia, moltiplicando gli appuntamenti con gli amici, le occasioni di svago, i contatti sociali e le passeggiate, che tanto giovano al nostro organismo.

Peccato che come attività ricreativa lo shopping possa essere alquanto dispendioso dal punto di vista economico! Sarebbe più conveniente l’ iscrizione in palestra o l’ acquisto di un tapis roulant. Certo è che sapere che ogni volta che strisciamo la nostra carta di credito ci regaliamo qualche giorno o qualche mese di vita in più attenua i nostri sensi di colpa.

shopping di lusso per turisti cinesi 

Tuttavia, in perfetta forma fisica. Sembra infatti che tre ore di esercizio a zonzo per i negozi consentano di bruciare la bellezza di 350 calorie, che superano le 500 se, giunti a casa, piuttosto che prendere l’ ascensore, decidiamo di fare le scale reggendo le buste, le quali più sono meglio è. Se consideriamo che la maggior parte delle persone almeno una volta alla settimana, di solito nel weekend, si concede il piacere di fare qualche compera, ne deriva che ogni mese ognuno di noi consuma in media tra le 1400 e le 4000 calorie solo dissipando denari.

shopping a dubai

 

Dunque, se rincasiamo con due o tre pacchetti, possiamo mangiare pure un gelato senza conseguenze sulla linea. Secondo un sondaggio inglese riportato dal Daily Mail, ogni donna brucerebbe in media circa 15 mila calorie solo saltando da un negozio all’ altro. Altro che dieta dimagrante! Alle faticose sessioni con il personal trainer meglio una capatina in centro con il personal shopper, per annientare i rotolini in vista della prova costume.

Da un’ indagine condotta da Zalando la scorsa estate su un panel di 1000 consumatori è emerso che l’ 8% degli italiani ricorre a questa attività per consolarsi quando è giù di morale, mostrando così di avere una lucida consapevolezza del fatto che lo shopping sia il farmaco più indicato in questi casi.

shopping

Il 54% degli intervistati, invece, ha affermato di prediligere farlo quando è di buonumore.

E, infine, il 35% ha rivelato di essere più oculato nella gestione delle proprie risorse e di fare acquisti solo quando questi sono indispensabili.

Dalla stessa indagine è emerso che il 93% di coloro che comprano online acquistano non solo per se stessi ma anche per altre persone e che il 76% si lascia consigliare dagli amici e dai parenti, confermando il fatto che lo shopping, sebbene fatto chiusi in casa e navigando sulla rete, costituisce una esperienza socializzante, che difficilmente viene vissuta in totale isolamento.

shopping

Fare spese rappresenta dunque una sorta di terapia dalla validità comprovata, tuttavia gli effetti collaterali non mancano: attenti a non diventare compulsivi e a non restare al verde.

 

 

 

Azzurra Noemi Barbuto per www.liberoquotidiano.it

MILENA ON THE ROAD

MILENA ON THE ROAD

MILENA DALLA RAI E’ FINITA SULLA STRADA! INCHIESTA DELLE SUE ON THE ROAD, FRA CAVALCAVIE E VIADOTTI FATISCENTI, STRUTTURE CHE CROLLANO, FONDI CHE MANCANO O NON SI RIESCONO A SPENDERE- CI POSSIAMO PERO’ PERMETTERE UN VISIONARIO DIVERSIVO: IL PONTE SULLO STRETTO.

  

INCIDENTE VIADOTTO ACQUALONGA AVELLINO

INCIDENTE VIADOTTO ACQUALONGA AVELLINO

Cosa c’ entra un cavalcavia che crolla con l’ aumento del prezzo del gasolio, la legge europea che obbliga i camionisti a non superare le nove ore di guida in una giornata e la concorrenza polacca? C’ entra.

Partiamo dai cavalcavia: ci siamo accorti che sono diventati fragili quando c’ è scappato il morto. Fra ponti, viadotti e gallerie, le Province ne gestiscono oltre 30.000, Anas ne ha in carico 14.800, poi ci sono quelli delle concessionarie autostradali. Oggi a preoccupare di più sono proprio i cavalcavia delle Province, che dal 2014 non hanno più nemmeno i fondi disponibili per manutenzione e investimenti. La storia però viene da lontano.

CINGOLI VIADOTTO

Viadotto a Cingoli

La maggior parte dei viadotti sono stati costruiti alla fine degli anni 50 e inizio anni 60, quando i trasporti da 100 tonnellate erano rarissimi. Da allora è cambiato il mondo: è cresciuto il trasporto su gomma e pian piano anche i cari chi eccezionali. Ed è proprio il «peso», che, anno dopo anno, ha stressato i ponti. A influire il prezzo del gasolio: 1 euro e 44 al litro, meno dei 2 euro raggiunti tra 2008 e 2013, ma il doppio rispetto ai 70-80 centesimi al litro dei primi anni 2000.

viadotto sicilia anas

Sicilia, viadotto dell’Anas

Nel 2006 sono arrivate le regole europee, che impongono ai camionisti di non guidare per più di 4 ore e mezza consecutive (9 nella giornata), con il tachigrafo digitale che impedisce di sgarrare. Poi ci si è messa la concorrenza straniera, che negli ultimi dieci anni ha fatto fuori 34.000 aziende di trasporto italiane. Per dare un’ idea: il costo orario lordo di un conducente italiano è pari a 28,14 euro, contro i 10 euro di un polacco. Così la nostra quota di mercato ha perso il 21%, mentre quella delle imprese dei Paesi dell’ Est Europa è passata dal 15 al 55%. Morale: da anni si carica di più per fare meno viaggi e tagliare sui costi. I viadotti però sono sempre quelli degli anni 60, ma nessuno ha provveduto a rinforzarli, perché non esiste un monitoraggio sulle ricadute delle leggi e dei fenomeni di mercato.

INCIDENTE VIADOTTO ACQUALONGA AVELLINO

Viadotto Acqualonga, Avellino

Oggi, per capire se questi cavalcavia sono ancora sicuri, bisognerebbe sapere quanti trasporti eccezionali li mettono alla prova ogni mese, in modo da programmare la manutenzione. Non dovrebbe essere complicato, visto che devono essere autorizzati da Anas, concessionari, Regioni, Province, e tutti i Comuni coinvolti dal passaggio dei camion. Per fare un esempio: un’ azienda che deve effettuare un trasporto da Legnano a Marghera superiore alle 44 tonnellate, ha bisogno di 27 nulla osta; ma alcuni enti locali applicano la regola del silenzio assenso. E così, di fatto, nessuno sa esattamente quanti siano questi trasporti.

viadotto sicilia anas

Viadotto siciliano gestito da Anas

L’ Anas spiega che quelli regolari l’ anno scorso sono cresciuti del 10%. Ma anche quelli irregolari lievitano. Nel 2017, la polizia stradale ha controllato 1.913 veicoli. Bene: le infrazioni sono state 2.388, comprese quelle per trasporto non autorizzato. Il responsabile delle autorizzazioni ai trasporti eccezionali di una Provincia del Nordovest dice che, da quando la legge di Stabilità del 2014 ha tolto le risorse, programmare la manutenzione è diventato impossibile e quindi controllano i loro cavalcavia «a vista».

INCIDENTE VIADOTTO ACQUALONGA AVELLINO

Viadotto Acqualonga, Avellino

Quella legge ha imposto alle Province tagli di quasi un miliardo l’ anno per tre anni, e le ha private della gran parte dei 3,7 miliardi che le amministrazioni ricevevano grazie a entrate proprie, perché le Province dovevano essere abolite. Però con la vittoria del «no» al referendum costituzionale, l’ abolizione delle Province è saltata. La conseguenza è che, a fine 2017, risultavano chiusi per frane, crolli, smottamenti o manto stradale inagibile, circa 5.000 chilometri di strade provinciali; inoltre, su almeno il 52% della rete, è stato inserito un limite di velocità tra i 30 e i 50 chilometri orari, perché le strade non sono sicure. I tecnici delle Province riferiscono di non poter chiudere altri tratti pericolosi e nemmeno ridurne la velocità di percorrenza, perché l’ amministrazione non è in grado di sostenere i costi della segnaletica.

viadotto palermo

Viadoto autostrada nei pressi di Palermo

Confindustria Lombardia spiega che, per avere l’ autorizzazione a passare con un trasporto eccezionale, ormai occorrono fino a 60 giorni, e segnala che i costi a carico delle aziende, per avere i via libera, sono aumentati in media di 5.000 euro. Una circolare del ministero dei Trasporti, del luglio scorso, rinnova l’ obbligo per le Regioni di creare un catasto strade e di definire una rete dove i trasporti eccezionali sono automaticamente ammessi (le Regioni che più hanno lavorato su questo sono Emilia Romagna e Veneto).

Ma la novità della direttiva è soprattutto un’ altra: sono accettate le verifiche sull’ adeguatezza dei percorsi fatte dalle stesse aziende che devono portare a destinazione i trasporti eccezionali, facendosi carico dei costi, che poi scaricano sui clienti. Di buono c’ è che la legge di Stabilità del 2017 ha stanziato 1,6 miliardi in sei anni per la manutenzione delle strade provinciali. Per mettere in moto la macchina degli appalti però ci vorrà tempo.

viadotto agrigento

Un ponte crollato vicino ad Agrigento

L’ importante sarebbe investire bene questi soldi, utilizzando da subito i microchip che permettono di monitorare le oscillazioni di ponti e cavalcavia. Secondo Maurizio Crispino, ordinario di Costruzione di strade, ferrovie e aeroporti al Politecnico di Milano, la tecnologia, disponibile già da tempo, permette di inserire sensori su ponti e cavalcavia per rilevarne le deformazioni; in questo modo, i tecnici responsabili delle infrastrutture potrebbero registrare le oscillazioni, dovute a degrado della struttura o a passaggi con carichi pesanti anomali, in remoto dal proprio ufficio.

palermo catania autostrada

Autostrada Palermo-Catania

Per intenderci, se nel 2016 ci fosse stato quel benedetto sensore, il ponte di Annone Brianza non sarebbe crollato. Indietro non si torna, ma sarebbe da irresponsabili non evitare tragedie future. Una partita nella quale non sono coinvolte solo le Province, ma anche Anas e le concessionarie.

 

Milena Gabanelli e Rita Querzè per il Corriere della Sera

CASTIGO DI DIO

CASTIGO DI DIO

 

“Ieri sera ho letto l’ultima pagina del Castigo di Dio, secondo romanzo di Marcello Introna appena pubblicato da Mondadori, e sono ancora qui che ci penso-C’è una sorta di turbamento che scuote i miei pensieri, una leggera sensazione di disagio che non mi lascia ancora-Mi succede raramente e solo quando leggo storie importanti-Tra stupri, assassini, carestie ed epidemie, la violenza di questa storia rivolta lo stomaco ma ipnotizza la mente-Si arriva alla fine con il fiato corto, ma ci si arriva di corsa, perchè è impossibile sfuggire a quel male

(Elena Giorgi, La lettrice geniale (qui)

 

Marcello Introna

In un saggio del 1949, Natalia Ginzburg dice così: “ Il mio mestiere è quello di scrivere e io lo so bene e da molto tempo. Spero di non essere fraintesa: sul valore di quel che posso scrivere non so nulla. So che scrivere è il mio mestiere”. Leggendo Castigo di Dio di Marcello Introna mi è venuta in mente questa frase. Marcello è uno scrittore di mestiere e questo si vede in ogni pagina, in ogni frase che scrive. Castigo di Dio è una macchina narrativa perfetta che riesce a dosare gli ingredienti letterari senza che uno prevalga sull’altro. Cosa non semplice in un romanzo. Pochi scrittori oggi riescono a farlo e questi scrittori, tra cui Introna, sono un valore aggiunto alla letteratura contemporanea. Castigo di Dio si compone armoniosamente di tre elementi: la trama, la lingua, le descrizioni. Questa è la trama. Siamo a Bari, estate del 1943. Amaro è un uomo corrotto e malvagio, capo indiscusso della Socia, un edificio fatiscente della Bari vecchia, abitato da disperati, un “essere” vivo, pulsante e grondante umidità, sangue e dolore che respira il suo alito di morte non solo su chi ci abita, ma su tutta la città. Un luogo buio e senza speranza alcuna, una bolgia infernale popolata da disperati e reietti, uomini, donne, orfani senza famiglia, prostitute e pedofili che vendono e comprano sesso.

«Questa è la Socia, qui sono tutti ciechi. Le pareti per prime. Siamo anche muti e la maggior parte di noi è sorda. Molti sono morti anche se camminano ancora e altri non nasceranno mai.»

 Amaro è un uomo spregevole che gode nell’appropriarsi dell’esistenza stessa degli altri, rubando loro l’anima e spesso la vita.

“Tutto era cupo in Amaro. Da sempre servo dei potenti, da sempre aguzzino dei disperati, se intravedeva in qualcuno delle potenzialità, un qualsiasi talento, si scatenava e si chetava solo quando aveva disintegrato psicologicamente la vittima designata, costretta a strisciare come un serpente, ma senza quella bella pelle lucida, senza quell’armonia.Amaro era l’ossido che aggredisce il metallo, lo scorpione in attesa sotto la sabbia, la putrescina della carogna di un cane, era la guerra, il razzismo, l’opportunismo, il nazista che cavava denti d’oro ai deportati. Non provava affetto per nessuno e l’idea che nessuno ne provasse per lui lo irritava ancora di più perchè lo leggeva come un gesto di mancata sottomissione.Era cattivo. In un unico termine che meravigliosamente lo sintetizzava, era cattivo ed era nato così. Un castigo di Dio.”

E mentre il regime fascista cade e gli Alleati prendono il controllo della città, grazie alla complicità e alla protezione del prefetto Nicola Arpino, Amaro si serve dei suoi uomini, specialmente del suo sadico vassallo Filippo, per gestire la borsa nera, i traffici legati alla prostituzione e allo spaccio di stupefacenti. A creargli qualche problema ci sono gli articoli di denuncia di Luca “il Bracco”, un giornalista coraggioso, le indagini incalzanti del commissario Michele De Santis, e il disprezzo di Anna, la puttana più bella della Socia, la puttana “letterata” che conosce il latino e il greco antico e che riesce a  ritrovare un po’ di serenità solo quando può fare lezione ai due piccoli orfani che vivono in quell’inferno: Lorenzo e Francesco.

1943: Bari bombardata

Sullo sfondo di una città devastata dalla guerra (lo sbarco degli alleati, il bombardamento del porto di Bari da parte degli aerei della Luftwaffe, l’affondamento della John Harvey la nave inglese carica di bombe all’iprite) dalle privazioni, dalle clientele, la Socia è una realtà che nessuno vuole vedere, dalla quale allontanare lo sguardo. E’ un essere che non lascia scampo, dalle finestre cieche e dalle porte sbarrate. Chi vive nella Socia ha lasciato ogni speranza all’ingresso, sa che le tenebre sono eterne.

Percoco, romanzo di esordio di Marcello Introna

“Siamo in cento qui, forse centouno, oppure centotrè. Viviamo nella Socia e nella Socia dobbiamo rimanere. Non tutti hanno il permesso di uscire e, quando lo fanno, non sempre ritornano.”

Bari è lo scenario di questa Commedia umana, citando Zola, e certamente per un cittadino barese il pugno nello stomaco nel leggere queste vicende è molto forte, così come la commozione per certe immagini. Lo è anche per chi non vive a Bari, ma che attraverso la descrizione magistrale che Marcello Introna fa dei luoghi, delle strade, degli anfratti riesce a percepire atmosfere e sensazioni,  a farle proprie e a  non dimenticarle. Nelle descrizioni Marcello Introna è maestro:  esse non sono semplici espressioni artistiche ma diventano realtà che si manifesta pienamente al lettore. In lui c’è l’intuizione improvvisa dell’attimo che sta per dissolversi, di ciò che è accaduto .Un romanzo che disorienta, dove realtà storica, accuratamente ricercata e magistralmente riproposta e finzione letteraria spesso si confondono, dove i personaggi vivono di vita propria, con le loro ferite, le loro cicatrici e il loro destino. Personaggi sempre ben definiti nella loro prerogativa di essere buoni o cattivi; un espediente letterario molto coraggioso che rende il libro ancora più interessante. Marcello Introna non ha paura di mostrare senza timore alcuno il male  e il  momento in cui la società ha un crollo morale e le piccole azioni eroiche di alcuni personaggi non hanno nulla di consolatorio, anzi, acuisco il senso di smarrimento e di ineluttabilità. Egli vuole raccontare le cose vere e non le cose giuste,le cose che fanno nascere nel lettore ombre, non luci. Il  suo è un modo di vedere le cose, non solo di scriverle. Castigo di Dio ricorda nelle atmosfere La storia della Morante,  La pelle di Curzio Malaparte, in quella girandola di orrori fisici e morali di una città piegata e piagata dalla guerra. La lingua è mobile, duttile, segue i personaggi e il loro carattere. Ardita in certe immagini, in certi accostamenti diventa essa stessa filo conduttore delle vicende. La prosa ambigua, raffinata e fortemente connotativa, come solo la lingua di alcuni grandi scrittori post-moderni può essere, le variazioni poetiche, le immagini da cronaca nera così ben definite fanno di Castigo di Dio uno dei libri più interessanti del panorama letterario italiano e di Marcello Introna, che già si era fatto apprezzare con il precedente romanzo Percoco, uno degli scrittori più talentuosi di questi anni.  

Marcello Introna (Bari, 1977). Medico veterinario, è dottore di ricerca all’Università di Bari. Autore e sceneggiatore televisivo. Mondadori ha pubblicato nel 2016 il suo romanzo d’esordio, Percoco.

La recensione è di Marcella Rizzo, che ringraziamo per la collaborazione.

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