EMINENTE LOMBARDO

EMINENTE LOMBARDO

E’ MORTO IERI ALBERTO ARBASINO– DALLA NATIA VOGHERA A ROMA, DALL’UNIVERSITA’ AL PARLAMENTO, QUASI NOVANTANNI DI SCORRERIE FRA SAGGISTICA, GIORNALISMO, MEMORIALISTICA, CRITICA – TESTIMONE ESTROSO A VOLTE IRRIVERENTE DELL’ITALIA DELLA SECONDA META’ DEL 900, ARBASINO NON ANNOIAVA MAI, COME IN QUESTA BELLA INTERVISTA DEL 2014 A MALCOM PAGANI CHE RIPROPONIAMO IN SUO RICORDO

«Dalla A di Gianni Agnelli alla Z di Federico Zeri, alcune decine di conversazioni, interviste, dialoghi, e magari anche chiacchiere, con illustri contemporanei quali Roberto Longhi, Aldo Palazzeschi, Giovanni Comisso, Mario Soldati, Cesare Brandi, Federico Fellini, Luciano Anceschi, Luchino Visconti, Alberto Moravia. E notevolissimi coetanei, o quasi – da Calvino e Testori e Pasolini, a Parise e Manganelli e Berio –, coi quali ci si ripromettevano lunghe polemiche anziane davanti a un bel camino acceso, con vino rosso e castagne e magari cognac. Invece, la storia girò diversamente. E così, oltre ad alcuni coetanei vitali e viventi, eccoci qui con care e bizzarre memorie evidentemente prenatali: Dossi, Tessa, Puccini, D’An­nun­zio, e la mia concittadina vogherese Carolina Invernizio, nonna o bisnonna di mezza Italia letteraria». Dalla presentazione di RITRATTI ITALIANI , ed. ADELPHI 2009

Pur refrattario all’elaborazione di un saggio sul maleducato da carrozza: “Il tempo è prezioso e la tolleranza costa già un notevole sforzo”, Alberto Arbasino soffre treni, scompartimenti e vicini ciarlieri. “Prendere le cosiddette vetture silenziose, che poi tanto silenziose non sono, è un’accortezza inutile”. Parlano tutti ad alta voce: “Dei fatti loro, dell’intimo, del personale”.

E il vento caldo delle sue piccole vacanze in Spagna: “Andavamo alle Baleari. Ibiza era meravigliosa e Formentera non era altro che una lingua di sabbia tagliata dal taxi che ci portava da un lato all’altro dell’isola per il pranzo” o “i flautisti da giardino che ascoltavo d’estate dall’ammezzato di una delle mie prime case romane” non tornano a visitare la stagione dei suoi 84 anni.

Alberto Arbasino

Luglio è quasi a metà, sulla terrazza il fico ha foglie di un verde innaturale e Arbasino indossa la camicia color kaki di chi sa come attraversare il suo deserto: “Di sera esco ancora volentieri, anche se scivolare dalla Via Veneto prefelliniana alla cena in Piazza Navona, non mi accadrà più. Con Ercolino Patti, Sandro De Feo e Cesare Brandi succedeva spesso. Cesare aveva un piccolo pied-à-terre e dopo una giornata di lavoro casalinga non covava il desiderio della minestrina nel tinello.

Così si usciva in gruppo e si stava insieme fino alle due di notte. Mi stupivo. Lavoravano come ossessi e scrivevano senza sosta, ma non rinunciavano a vivere. Ridursi male comunque era difficile. Non tralignavamo mai. Un bicchiere, forse due. Si beveva il giusto, con moderazione”. Della grande casa con le sue iniziali sulla porta, conosce oro, incenso e giacimenti.

Quando cerca nella biblioteca un volume di De Chirico: “Me lo regalò lui in Via della Vite, in fondo ci sono anche delle note a penna”, insegue un nome sulla Garzantina: “L’editore fiorentino di cui le parlavo era Carocci”, sventa l’attentato dell’ospite superando agile uno zaino sulla moquette o rimpiange con discrezione la mancanza di un computer: “Non lo possiedo, per alfabetizzarsi è tardi, ma ne sento la mancanza”, Arbasino denuncia il perpetuo movimento che dalla fine degli anni 50, immobile non l’ha fatto mai restare.

Anche se i baffi di quando intervistava Borges sono un ricordo fotografico, è nell’autoscatto del tempo che fu: “Self-made man di origini decadenti (nato a Voghera nel 1930, rinato a Roma nel 1957) con la tentazione di vivere come se. Cioè come se abitassimo una società civilissima, illuminata e cosmopolita…” e nei versi ancora attualissimi di Super-Eliogabalo: “Senza pietre di paragone/ né pretese di perfezione/ se ragiono/ a tono/ funziono/ a una condizione/ diventare ciò che sono/ non chi impersono” che Arbasino può vantare la curiosità di chi ha guardato il mondo senza curarsi delle “ultime novità”.

Gianni Agnelli con Montezemolo

Lo stile nemico della semplificazione: “Per far contenti tutti e raggiungere le edicole degli areoporti non si può rinunciare all’ambiguità, alla notte, al mistero, all’oscurità”. L’amicizia con Agnelli: “Ci vedevamo spesso, dietro la sua raffinatezza pulsavano frequentazioni e lezioni erudite, Mario Tazzoli, Luigi Carluccio e Franco Antonicelli che alle signore di Voghera consigliava di servire i cioccolatini in coppe di cristallo”.

Il mondo dell’avvocato come ouverture per altri 92 splendidi e diseguali Ritratti italiani raccolti per Adelphi. Ironia, affinità elettive, distanze e convergenze di Arbasino con i pensatori del suo tempo si allineano sotto l’ombrello di un illusorio ordine alfabetico. Sono volti, echi e disegni di passato senza data. Incontri con imprenditori, registi e letterati. Quadri non sovrapponibili.

Cornici di un’età irripetibile. Sulla parete d’ingresso, nel tratto grasso di un pennarello nero, uno schizzo che Pasolini donò allo scrittore durante un’intervista: “Arbasino, in un atto di industria culturale (abbietto, naturalmente)”. Gli zigomi duri, nota Arbasino: “Sono i suoi” come la freccia che Pasolini indirizza a se stesso: “Io mentre aspetto che scriva le domande a cui nobilmente rispondere”.

Carlo Emilio Gadda

Lei arriva a Roma negli anni Cinquanta.

Avevo poco più di vent’anni e non la pensavo diversamente da Paul Nizan: ‘Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita’. Quando si parla di Arcadia bisognerebbe essere cauti. In Italia la ricostruzione era a buon punto, ma ci sembrava comunque un’epoca noiosissima, una lunga stagione morta.

Sfogandosi con lei, Pasolini parla di un “ridicolo decennio”.

È un decennio di paradossi e contraddizioni. Di ultimi fuochi, di cambiamenti, di libera sessualità dietro le dune e le pinete e di libri straordinari. Lo osservavo, lo criticavo, lo subìvo il decennio dei ’50, poi adocchiavo la letteratura e mi chiedevo: ‘Come è possibile?’. Di mese in mese, anzi di giorno in giorno, in libreria era una festa. Il Pasticciaccio gaddiano, Menzogna e Sortilegio, Il Disprezzo e La noia, gli ultimi due romanzi veramente belli di Moravia.

Glielo disse che erano gli ultimi?

Pier Paolo Pasolini

Con Alberto ce ne facemmo e dicemmo di cotte e di crude. Da ragazzo era antipatico. Da uomo maturo dispettoso, prepotente ed eccessivamente prono al partito. In vecchiaia ci rappattumammo. Non ripeteva più ‘uffa uffa’ con severo cipiglio, ma in trattoria, davanti alle pere cotte, gridava: ‘Semo tutti peracottari’. Gli era venuta voglia di ridere. È superfluo dirlo, ma mi manca moltissimo, non solo nell’ultima veste giocosa.

Eravate entrambi permalosi?

Lui sicuramente. Io mai, altrimenti non sarei arrivato fin qui. Alberto era ispido ed era capace di lunghissimi silenzi. Quando compì settant’anni gli portai 7 fazzolettini da Parigi. Aveva il vezzo di annodarli al collo e mi impegnai nell’acquisto. Li avevo cercati con perizia: grandi marche, colori magnifici, confezione adeguata. Li soppesò e poi disse: ‘Li conosco, a Roma li chiamano strangolini’.

Faceva parte degli intellettuali suscettibili?

Lui no, ma non mancavano. C’erano persone che non tolleravano neanche l’afrore del giudizio critico e si adombravano se non si ragionava delle loro opere dal superlativo in su. In supporto non mancavano mai teorie di corifei. Gente che generosamente si prestava all’equivoco: ‘Chi osa mettersi contro da oggi in poi non è credibile’, ‘Chi non capisce è sciocco’, ‘Chi non si spella le mani è un buzzurro’.

Alberto Moravia

Di Antonioni, incline all’offesa, lei scrive cose non tenere.

Con intuizione corretta, Antonioni fotografava tedio, imbecillità e incomprensioni sentimentali della società europea sottoposta all’industrializzazione forzata. Metteva sotto la lente quel disagio che i milanesi bramarono di provare nell’istante immediatamente successivo all’edificazione del primo grattacielo cittadino. Ma nel suo cinema, la pretesa letteraria si risolveva in bozzetti incongrui e programmatici. La serietà con cui agghindava i suoi improbabili personaggi, le mezze calzette elevate a paradigma del Paese, involontariamente comica. Passata la sbornia e svanito l’equivoco, in effetti, si rise.

Giorgio Manganelli

Altro moloch dal carattere puntuto, Luchino Visconti.

In lui la componente populistica e quella dannunziana convivevano contribuendo all’essenza di un Visconti che nel retropalco e nell’isolamento sembravano esattamente la stessa persona. Uno che ideologicamente pendeva per il proletariato, detestava la classe media e respirava circondato dallo sfarzo. Un signorotto di geniale talento, ben allevato da genitori che lo portarono alla Scala fin da bambino, con una sua corte di zelantissimi sottomessi, affannati nell’eseguirne gli ordini. Frequentarlo annoiava e addolorava. Giovanni Testori, un caro amico, era sfruttato malamente. Sul versante teatrale poi, anche se gli dobbiamo spettacoli sommi come Anna Bolena e La sonnambula, l’elenco di quelli infelici ha voci in quantità. A un certo punto, anche dal loggione, prevalse lo strepito collettivo: ‘Che palle’.

Michelangelo Antonioni

In “Ritratti italiani”, parole liete sono riservate a Giorgio De Chirico.

Era unico. Straordinario. Diverso da chiunque altro. Avvertiva l’estraneità al mondo circostante, viveva al passato remoto, si sentiva inadeguato persino all’allegro, innocuo circo di Piazza di Spagna. De Chirico abitava a pochi passi dalla filiale della Banca Commerciale Italiana e temeva di essere costantemente rapinato da briganti e mascalzoni. ‘Ho paura sia a ritirare che a depositare’ mi diceva e io: ‘Maestro, perdoni, ma che razza di traffico ha con questa banca?’.

Il denaro per lei è stato importante?

Non troppo, ma ho sempre considerato ovvio essere pagato per scrivere: il mio lavoro. Nel ’67, ai tempi de Il Giorno di Italo Pietra, un ex comandante partigiano che ben conoscevo per antichi vincoli familiari e che dei suoi anni universitari a Pavia amava dire: ‘Ballavamo il Charleston e traducevamo Sofocle meglio degli altri’, mi trasferii in un amen al Corriere Della Sera. A Il Giorno mi pagavano regolarmente, ma da anni collaboravo senza l’ombra di un contratto. All’ennesimo rinvio della questione mi spostai in Via Solferino. Un problema simile lo ebbi anche a Repubblica. Ero stato eletto deputato con il Partito Repubblicano e l’amministrazione del giornale fu laconica: ‘Un contratto con un deputato non si fa’.

Italo Pietra

Divenne deputato nel 1983.

Me lo chiesero due fior di personaggi come Giovanni Spadolini e Bruno Visentini. Una volta con Visentini si andava a Treviso. Lui si trasformava, parlava in dialetto e diventava incomprensibile. Di preferenza litigava con uno scrittore autoctono che però dal trevigiano si era emancipato. Aveva viaggiato. Quando si incontravano non c’era facezia che non li accendesse in discussioni infinite.

Niente a che vedere con la timidezza di Gadda e Manganelli.

Manganelli, uno scrittore sublime, era schivo. Lo incontravi al ristorante, in una sala appartata, avviluppato in se stesso. Mandava l’ambasciata di un cameriere per salutarti, poi si raccomandava: ‘Non dire a nessuno che mi hai visto’. Gadda era diverso. Me lo ricordo su una mia vecchia spider con Bonsanti sul sedile posteriore.

Giorgio De Chirico col fratello Savinio

Terrorizzato dalle curve e con la mano sul freno, Gadda era pronto a intervenire. Una sera, tornando dalla proiezione de La Bella di Lodi, chiese di fermarsi all’Hilton di Monte Mario. Si impelagò in un discorso da ingegnere sugli ascensori con un altro ingegnere, il fratello di Fabrizio Clerici. Tecnicismi da ossessi che evaporarono in un istante quando all’orizzonte si scorse la sagoma di un prelato.

Gadda, l’uomo che vestiva in blu, non dimenticava mai la camicia bianca e certe discutibili cravatte acquistate in uno spaccio di Via della Mercede, all’improvviso si illuminò: ‘Così dovevo nascere. Essere americano, farmi prete e vivere in un grande albergo bevendo succo d’arancia’. Erano anni curiosi. Anni in cui gli uomini non sapevano farsi la barba e Mimì Piovene, di casa a San Giovanni, si lamentava: ‘Sono diventata la barbiera del Laterano’.

Guido Piovene

Di Umberto Eco ha scritto: “Costruiva oggetti complessi che agli incolti mettevano paura”.

È vero e fu un’operazione di rara intelligenza. Con i libri di Eco, laureati e laureandi scoprivano la complessità dell’esistenza in maniera abbastanza semplice. Il successo fu assoluto. L’attenzione della critica, sacrale. Non a caso, da allora e per sempre, Eco ha fatto il fornitore di oggetti apparentemente complessi.

Le è simpatico?

Simpaticissimo. Anzi, simpaticissimi. Lui e la moglie.

Il verbo di Eco inizia a imporsi nei ’70.

Un decennio abbastanza atroce. Si viveva sulla retorica del ’68 rapidamente diventata una retorica tremenda. A San Francisco c’erano i figli dei fiori, in Europa gli assassini. In California, con gli spazi larghi tra i palazzi, i prati e la sensazione di libertà, la spinta a delinquere era anestetizzata dal contesto. Da noi in fondo, in ambiti più asfittici, l’agguato era nell’aria e la storia fosca dei Guelfi e dei Ghibellini, dei Montecchi e dei Capuleti, non faceva altro che ripetersi.

Umberto Eco con la moglie

Altra icona dei ’70, Nanni Moretti. Nel suo ritratto si sostiene che il regista sia privo di cinismo.

Il cinico non perde tempo a deplorare il proprio cinismo con malspeso rovello. Moretti è un cuor d’oro sempre animato dal senso civico e dal bisogno di stare dalla parte giusta. Il rischio moralismo, quando si vuole essere educati, corretti e civici, c’è. Il ritratto del perfetto moralista, in certi film in cui il nostro porta in scena se stesso, anche.

Se scrivere è un lavoro, leggere che cos’è?

È un altro lavoro. Va compensato. Costa fatica. Non a caso non ho letto i libri che partecipavano al premio Strega.

Nessuno?

Nanni Moretti

Nessuno. Neanche per sogno. Chi mi paga? Nei libri dello Strega di quest’anno non mi viene in mente nulla che valesse l’aggravio della lettura.

Perché?

Per la stessa identica ragione per la quale se sul giornale vedo gesti normali insigniti delle nove colonne, mamme che mettono lo zucchero nel caffè o profeti che pensano di stupire usando la parola cazzo, giro pagina. Non me ne importa niente. Non mi vien voglia di leggere. Tanti anni fa non si usavano letterariamente gli antichi sapori o le ricette della nonna mescolandole impunemente con le malattie del papà o l’agonia della mamma.

C’erano libri diversi. Scrittori migliori. Il proprio minuscolo io o il proprio ombelico non erano ritenuti validi motivi per sbarcare in libreria e anche se le chiese politiche erano più invadenti di oggi, c’era più understatement anche nella presa di posizione. Se si esclude il Pci, non pulsavano le maldestre voglie di appartenenza e la conclamata aderenza al nuovo progetto politico sul tavolo che oggi rendono impossibile qualsiasi sfumatura. C’è una percepibile ansia di salire sul carro. Consiglierei prudenza, magari il carro si rivela meno solido del previsto.

È un problema culturale?

Maria Bellonci

Ma la cultura è un affare bizzarro. Come ho scritto in Ritratti italiani, di fronte al rotocalchismo, quella vera sparisce. Basta un lieve sospetto e non la si trova più. Pensare che in un’epoca lontana sorridevamo dell’ingenuità di Carlo Ponti, un produttore che a differenza degli epigoni contemporanei, a Milano aveva studiato davvero. Nell’ufficio all’Ara Coeli, oltre il suo tavolo, teneva la Pléiade con la costa della copertina rivolta verso l’interlocutore. Ci chiedevamo: ‘Ma se volesse leggerla lui, che periplo dovrebbe fare per raggiungere il sapere?’.

È sparita anche la letteratura italiana?

Si è deciso a tavolino che i best-seller dovessero essere al livello del fruitore. E così, una volta abbattuto il gusto a colpi di orrori, visto l’apprezzamento per il buco della serratura di stampo familiare, via libera ai sapori, alle ricette della nonna, ai lutti e alle corsie d’ospedale. Vendono moltissimo. Sono un prodotto da banco. Uno shampoo. Un codice in più nello scontrino del supermercato. Forse sono più alternativo, io.

Sull’affezione premiologica della letteratura italiana lei montò uno speciale per la Rai in epoca non sospetta.

Più della liturgia dello Strega, non ho dimenticato Casa Bellonci. I corridoi strapieni di libri, lo spazio totalmente colonizzato dai volumi, una cosa da restare sbalorditi. Per la Rai in effetti assemblai un’ora e mezza di premi nazionali da Venezia a Firenze. C’era un ritmo serrato e allo spettatore sembrava si trattasse di un unico premio.

L’intento era quello. Quando andai da Maria Bellonci spiegandole che non avrebbe potuto parlare per più di 30 secondi quasi mi rise in faccia: ‘Ho bisogno di più tempo’. Si cambiò 10 volte, il risultato era inverosimile. Maria vestita da donna, da uomo, a pois. Divertentissimo. Lei lo sapeva. Era una furbona.

È furba anche una letteratura in cui l’intimo dolore sfiora la pornografia?

Furba sicuramente, pornografica non so, certamente irrilevante. Come può affascinarmi il calvario della prozia? Il ‘sapesse quanto abbiamo sofferto signora mia?’. Vabbè, anche se c’è chi non si diverte e gli scrittori danno l’impressione di divertirsi poco, signora mia sarà contentissima.

Malcom Pagani per il “Fatto quotidiano” del 14 luglio 2014

ZEFFIRELLI FOUNDATION

ZEFFIRELLI FOUNDATION

I RICORDI DI UN GRANDE ARTISTA, RAFFINATO E SIGNORILE, UN POCO SNOBBATO DALLA SINISTRA – ” IN ITALIA HO SEMPRE AVUTO PROBLEMI, MA IL PUBBLICO ERA DALLA MIA PARTE”- DAL TEATRO, AL CINEMA,  ALLA LIRICA  HA LAVORATO OVUNQUE NEL MONDO, MANTENENDO VIVA LA CULTURA ITALIANA -QUESTO LO SCOPO DELLA FONDAZIONE ISTITUITA  A SUO NOME. 

 

La magia secondo Franco Zeffirelli: «Siamo noi fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni?» Novantacinque anni e pochi giorni, una carriera straordinaria nel cinema, nel teatro, nella lirica. Un Prospero del palcoscenico, capace di far riscoprire Shakespeare, o Charlotte Brontë, agli stessi inglesi. «Spesso sogno e realtà si confondono – dice con un filo di voce – e finiamo col chiederci: stiamo sognando o è realtà? Oppure: è talmente straordinario che ci sembra di sognare…»

Maestro: lei vanta capolavori come Jane Eyre, Amleto, Fratello sole, sorella luna A quale tiene di più?

franco zeffirelli

Franco Zeffirelli circa 20 anni fa

«Non è facile rispondere. In fondo ho sempre considerato i miei lavori come se fossero dei figli, ragion per cui mi è sempre stato difficile pensare che uno fosse migliore dell’ altro. Ho sempre lasciato che il pubblico decidesse al posto mio. Detto questo, debbo molto al mio Romeo e Giulietta, il film che mi ha portato al successo internazionale».

Cosa pensa delle versioni cinematografiche successive del dramma shakespeariano?

«Sono versioni generazionali che possono ottenere anche dei successi. Il mio film a distanza di 50 anni dalla prima uscita rimane un classico. Non spetta a me dirlo, ma credo proprio sia entrato nella storia».

Lei ha esordito con Luchino Visconti. Un ricordo del regista di Morte a Venezia?

«Visconti è stato il mio mentore, il mio maestro. Ho iniziato proprio con lui il mio percorso di scenografo nel Troilo e Cressida, allestito nel Giardino di Boboli. Un progetto enorme e con un cast eccezionale, c’ erano tutti gli attori del teatro italiano: Paolo Stoppa, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Franco Interlenghi, Rina Morelli, Giorgio Albertazzi al suo esordio. Una grande esperienza che ha determinato il mio futuro».

franco zeffirelliLei è stato in seguito anche aiuto regista di Francesco Rosi, Antonio Pietrangeli… deve molto al cinema. Ma il suo grande amore è stato la lirica. Che ricordo ha di quella prima volta alla Scala?

«Era il 1953 e fui chiamato per realizzare scene e costumi de L’italiana in Algeri con Giulietta Simionato; il regista Corrado Pavolini mi diede carta bianca. Mi appropriai dei sofisticati meccanismi che la Scala possedeva e misi insieme uno spettacolo vivacissimo, con rapidi cambiamenti di scena e sempre di grande effetto. Le mura di Algeri si sollevavano per rivelare la fortezza e dentro di essa il palazzo del sultano, un raffinato e sorprendente padiglione moresco. Una boccata di aria fresca dopo le pesanti produzioni a cui era abituato il pubblico della Scala».

zeffirelli

Zeffirelli nella sua casa romana, piena di cimeli e ritratti

La Scala quest’ anno riproporrà l’ Aida nel suo celebre allestimento del 1963.

«L’Aida viene ripresa regolarmente ogni due-tre anni e ha sempre ottenuto molto successo. Mi fa certamente piacere che la allestiscano anche quest’ anno, rendendo così omaggio anche alla mia grande collaboratrice Lila De Nobili».

Sul palco e sul set lei ha avuto l’ opportunità di lavorare con Maria Callas, Elizabeth Taylor, Laurence Olivier…

«Stiamo parlando di tre grandissimi artisti, con i quali ho costruito non solo un proficuo rapporto di lavoro ma anche di profonda amicizia. Con Maria abbiamo realizzato sei produzioni memorabili, con la Taylor sia La Bisbetica domata che Il giovane Toscanini, e con Olivier, all’ Old Vic di Londra, i due spettacoli di Eduardo De Filippo: Sabato, domenica e lunedì e Filumena Marturano».

maria callas prima della dieta

Una giovane Maria Callas, prima della dieta dimagrante

Ci racconta qualcosa del suo sodalizio con la Callas?

«Maria è stata una grandissima professionista! Dopo ogni prova di regia rimaneva da sola sul palco e riprovava tutti i movimenti e i passaggi musicali per ore ed ore. Aveva paura di affrontare il pubblico: ricordo che nell’ attesa di entrare in scena mi stringeva la mano, affondando le sue unghie nella mia carne. Una volta in scena tutti i suoi timori svanivano, lasciando il posto alle sue grandi interpretazioni, per le quali fu definita la Divina».

Ha mai litigato con qualcuno?

«Eccetto alcuni casi difficili, sono sempre riuscito ad avere degli ottimi rapporti con le attrici, attori o cantanti con i quali ho collaborato».

Le opere di Shakespeare sono state un suo cavallo di battaglia. Quale allestimento ricorda con più piacere?

LUCHINO VISCONTI

Luchino Visconti. Di questi giorni la notizia che la sua Piccionaia nell’isola d’Ischia, sede di una scuola per attori, giace abbandonata

«Naturalmente la produzione di Romeo e Giulietta allestita nel 1960 al teatro dell’ Old Vic di Londra con una giovanissima Judi Dench, e con John Stride, che ebbe un enorme successo sia di pubblico che di critica. All’ inizio, durante le prove, ricordo che tutti intorno a me erano alquanto scettici. Ma come? Un regista italiano? E con tali idee rivoluzionarie nel trattare un loro classico, che per generazioni era stato rappresentato da attori di grande esperienza e spessore professionale? Durò poco: ben presto mi accettarono. Judi si rivelò straordinaria e conquistammo il cuore di tutti. Ma poi mi lasci dire…»

ALBERTAZZI CON LA MOGLIE PIA DE TOLOMEI

Giorgio Albertazzi (morto nel 2016) qui con la moglie Pia de Tolomei

Cosa?

«Come non ricordare la versione con Annamaria Guarnieri e Giancarlo Giannini? E la grande interpretazione di Giorgio Albertazzi nella mia produzione dell’ Amleto? Un attore straordinario che incantava il pubblico con la sua voce e la sua recitazione».

Lei è sempre stato un artista fuori dal coro, cattolico e conservatore in una scena culturale dominata dalla sinistra. Ha incontrato difficoltà?

«In Italia ho sempre avuto dei problemi ma il grande pubblico era dalla mia parte e mi ha dato tante soddisfazioni».

Problemi con la critica?

«Un rapporto spesso difficile. Tanto che lasciai fuori i critici dalla prima de La lupa, con Anna Magnani. Ma parlo di cinquant’ anni fa. Ho avuto un ottimo rapporto con Rita Sala, la critica del Messaggero scomparsa di recente. La sua dipartita è stata una grande perdita per tutti noi. Era una donna di ampio respiro culturale con la quale si colloquiava volentieri; lo scambio era sempre di grande livello. La rispettavo molto».

ANNA MAGNANI

Anna Magnani

Le piace il cinema italiano di oggi, o lo ritiene peggiorato rispetto al passato? Le piace, per esempio, il cinema di Luca Guadagnino o Paolo Sorrentino?

«Che dire? Mi mancano molto i film di De Sica, Fellini, Visconti, Bertolucci, Pasolini. Per fortuna li posso rivedere quando voglio».

Ha potuto visitare recentemente la Fondazione intitolata a lei: è soddisfatto di questa iniziativa che la celebra nella sua città?

«Ho voluto mettere a disposizione del pubblico tutto il mio percorso artistico, con la speranza che i giovani prendano atto ed imparino a capire l’ importanza di come organizzare e preparare un lavoro nei più minimi particolari».

BERTOLUCCI 1

Bernardo Bertolucci

Maurizio Scaparro ritiene che oggi i grandi artisti del teatro abbiano un dovere inderogabile, trasmettere alle nuove generazioni i segreti della parola. Lei è d’ accordo?

«Certo. La lettura, le parole, il grande teatro classico sono la speranza per mantenere viva la nostra cultura». No comment, invece, a proposito delle accuse di molestie (peraltro già smentite il mese scorso) da parte dell’ attore americano Johnathon Schaech, riferite alla lavorazione, nel 1993, di Storia di una capinera: parole definite a suo tempo tardive e assolutamente infondate.

Articolo di Riccardo De Palo per “il Messaggero”

In copertina: logo della Fondazione Zeffirelli in Firenze

 

ARCAICA BELLEZZA

ARCAICA BELLEZZA

IL REGALO PASQUALE DI MARIO MIRTO- GEO E L’INCANTO DI SPIAGGE DOVE ANCHE UN PASSO ESITANTE E’ GIA’ PROFANAZIONE- ECCO COSA ISPIRA I LAND-ARTIST, FRA BASALTO E ROCCE ANTROPOMORFE MENTRE ARBUSTI RICAMANO LA SABBIA O ADDOLCISCONO L’ORIZZONTE ARCAICO.

 

 

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Una scena raffinata, perfetta anche nei dettagli più minuziosi, quasi fosse il set di Visconti. Preparata da decenni di fortunali, risacche, baccanali di spiritelli adagiati sulla spiaggia dal vento sidereo, rendez-vous assordanti di cicale, in cui le lucciole apparivano alla fine, ospiti le più preziose. Lei, la testuggine, avvolta in un letto di conchiglie, come fra lenzuola di seta organza, ha alzato il gomito, e ora riposa, filtrando la luce dell’alba con le palpebre pesanti, blandita dal richiamo del mare che caldo l’aspetta, tanto lui il tempo lo misura in millenni.

 

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In questi millenni,  tutta questa roccia di granito e di basalto, è stata lavorata, fino ad oggi, fino alla sua forma definitiva. Il loro rapporto è la sezione aurea del mondo. Potrebbero scuotersi all’improvviso, schiaffeggiando l’acqua con la coda, come un mostro che si svegli, per raccontare l’antico mito di Odisseo, la sua astuzia nel raggirare Polifemo:

“Di lì navigammo ancora, col cuore dolente. E arrivammo alla terra dei Ciclopi superbi e senza legge, i quali, fidando negli dei immortali, non piantano, non arano mai: nasce tutto senza semina e senza aratura, il grano, l’orzo e le viti che fioriscono di grappoli sotto la pioggia di Zeus……

A queste voci Polifemo in rabbia/Montò più alta, e con istrana possa/Scagliò d’un monte la divelta cima,/Che davanti alla prua càddemi: al tonfo/L’acqua levossi, ed innondò la nave,/Che alla terra crudel, dai rifluenti/Flutti portata, quasi a romper venne./Ma io, dato di piglio a un lungo palo,/Ne la staccai, pontando; ed i compagni/D’incurvarsi sul remo, e in salvo addursi,……”

 

 

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Qui dov’è la poca terra in cui il silice e il salso danno un magro pasto, un giorno, chissà quale, hai dovuto scegliere fra la frivolezza del colore e l’eccitazione dell’odore. Lo stelo aspro si intreccia, s’aggroviglia, quasi a sorreggersi contro il vento furioso e per proteggesi dalle dita maligne del sole, quando, a mezzodì, abbacinato, tormenta le foglie minute. Ma, alla fine, il mare incupisce e segue la notte che lo avvolge nel suo mantello, e tu sei lì vincitrice, i piccoli fiori di pallido viola che si aprono a discorrere col firmamento. Non farai la fine della ginestra, cara al Poeta di Recanati, e il cane che ogni mattina, sfilandomi a lato tuffa la testa incuriosito fra i tuoi rami, sembra veramente sorpreso per quello che gli raccontate.

“…. E tu, lenta ginestra,/Che di selve odorate/Queste campagne dispogliate adorni,/Anche tu presto alla crudel possanza/Soccomberai del sotterraneo foco,/Che ritornando al loco/Già noto, stenderà l’avaro lembo/Su tue molli foreste. E piegherai/Sotto il fascio mortal non renitente/Il tuo capo innocente….”

 

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Nessuno conosce il nome di questi ovoidi pelosi, dall’aspetto di una pigna. Inutile chiederlo al solito frequentatore di spiaggia, forse se incontrassi un botanico, chissà! Non ne conosco la consistenza, non so se, aperti, emanino un pungente odore organico e prendano a colare di liquidi come una ferita. Sono belli, un poco inquietanti, vistosi. Poi in autunno spariscono, senza lasciare traccia alcuna. Pensò si rifugino sottoterra, come certi pesciolini del deserto africano che dormono sepolti sotto la sabbia fino ad uno scrosciante temporale.

 

 

 

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L’identico che si rinnova attraverso le impercettibili mutazioni nel tempo. La geometria della natura fa diverso un fiocco di neve dall’altro, ma secondo un modello ripetuto all’infinito. Un frattale vegetale, che si sviluppa secondo regole certe ed infallibili, in cui le migliori condizioni per radicare, svilupparsi, gettare semi o stoloni, seguono regole matematiche, in grado di comprendere le variabilità stagionali, e sopportare forse l’oltraggio umano. Dalla geometrica bellezza discende il pregio estetico di questi ramoscelli che visti dall’alto appaiono come la mappa di una città, un minuzioso ricamo di un pittore medievalista, l’impronta di un’oasi in un deserto come ci ha insegnato a vederla Paul Klee, mancano solo i cammelli.

 

 

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Sembra una mimosa, solo la forma e il colore giallo più acceso dei fiori, nonché le foglie decisamente diverse, più coriacee e verdi, distinguono questa pianta dalla mimosa, anche se entrambe gradiscono la siccità. Ma mentre la prima rapidamente sfiorisce, questa dura più a lungo, incurante ai rovesci di tempo, al disordine che la circonda. Una bella pianta, semplice e …… scapestrata, che dimostra che si può essere belle con poco…. solo un velo di trucco sotto la foglia.

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