LA FOTO CHE VERRA’

LA FOTO CHE VERRA’

FOTOGRAFARE E’ NIENTE, DIFFICILE E’ VEDERE. FULVIO ROITER RACCONTATO DALLA MOGLIE LUO EMBO.

“Mi disse: vieni in Italia, stamperai le mie foto. Se ti ambienti, ti sposo- Nei quattro anni di malattia, ogni giorno apriva l’armadio, afferrava una delle sue 15 Leica e la appoggiava all’orecchio per udire quel clic. Io piangevo”.

A farli conoscere fu l’amico Jean-Michel Folon, l’illustratore belga degli eterei acquerelli per le copertine del New Yorker e per le pubblicità dell’Eni. «Ho conosciuto ad Anversa una ragazza bellissima. Credo sia fidanzata, ma non ha importanza: ama Fulvio Roiter. Questo è il suo indirizzo», recitava la lettera. Il suo nome era Susanne Seuntjens, detta Suzy. In quel periodo il ritrattista ufficiale di Venezia stava lavorando a un libro su Bruges. Si precipitò a incontrarla. «Stupenda, sembrava l’attrice Leslie Caron», mi raccontò 20 anni fa il grande fotografo, ancora rapito da quel primo incontro. Dopo avergli servito il tè, la fanciulla gli disse: «Vieni, ti presento mia sorella». Salirono verso un granaio trasformato in camera oscura.

Fulvio Roiter

Appese lungo le pareti, foto che Roiter scambiò per le proprie, tanto erano suggestive. Si spalancò la porta: «In cima alle scale, due gambe che non finivano più: Loulou! Un arcangelo. Suzy non mi ha mai perdonato di averle preferito sua sorella. Fra loro è una guerra che dura ancor oggi».

Ride Lou Embo, la proprietaria di quegli arti inferiori affusolati: «Ricordo che lo presi in giro: ma stai guardando le mie foto o le mie gambe? Tutte le vichinghe le hanno lunghe. Semmai avrebbe dovuto farmi un complimento per gli occhi azzurri». Il suo Fulvio compirebbe 95 anni il 1° novembre, «invece è già un lustro che mi ha lasciata», sospira. «Però…». Però? «Lui è ancora qui», e accarezza l’urna smaltata di un blu marezzato che ne custodisce le ceneri nel salotto di casa, al Lido di Venezia, circondata da quattro vassoi in cui sono disposti con amorevole simmetria sassi levigati dal mare e conchiglie perfette. Ha scelto di adottare il cognome della madre, «più corto, più facile da pronunciare», derivato da un villaggio delle Highlands dove i suoi antenati vichinghi combatterono contro gli scozzesi nel 1245. Ma nel mondo è conosciuta come Lou Embo Roiter, l’altra metà di Fulvio, sempre un passo indietro, devota, mai un’intervista.

Eppure è una fotografa anche lei.

«E pure Suzy. Ha due anni più di me. Nostra madre sopportò le doglie fino all’una del 2 aprile 1936 per non farla nascere nel giorno del “pesce”. Abita a Bruxelles. Ci telefoniamo tutti i giorni».

Da chi imparò questo mestiere?

«Da Cor van Weele, celebre fotografo di Amsterdam. Finito il liceo classico, mi prese a bottega come apprendista. Ogni tre mesi accoglieva quattro allievi. A me chiese di restare per un anno. Subito dopo cominciai con i reportage per il settimanale belga Le Moustique».

Suo marito mi spiegò che le rare foto di René Magritte furono scattate da lei.

«Vero. Mi aspettavo d’incontrare un pittore, invece pareva un impiegato. Immortalai anche altri artisti famosi: Paul Delvaux, Félix Labisse, Oscar Jespers. Un mio ritratto di Delvaux, impresso su ottone, orna la facciata della sua casa di Bruxelles trasformata in museo».

Quando diventò la moglie di Roiter?

«Nel 1960. La sua proposta fu semplice: “Vieni in Italia a stampare le mie foto. Se ti trovi bene, ti sposo”. Arrivai con il biglietto di ritorno già in tasca. Invece sono rimasta con lui per 57 anni. Credevo che mi portasse a Venezia. Mi ritrovai in campagna, a Meolo, nella sua casa natale, governata dalla madre, una cara vecchietta, di un’affabilità tutta veneta».

Che cosa la convinse a rimanere?

«Aveva 12 anni più di me. Era un uomo. Lui molto forte, io molto timida. La fotografia ci ha unito. È come se fosse ancora qui, accanto a me. Vivo con Fulvio, circondata da oltre 3 milioni di foto e diapositive sue. Vado a spanne: non amava i numeri. Non ha mai contato neppure i libri che ha pubblicato, forse 100. L’ieri non gl’interessava, importava solo ciò che avrebbe fatto domani. Che pena i suoi ultimi quattro anni chiuso in casa! Un tumore e i postumi di un incidente non gli hanno più permesso di uscire. Fotografava il mare dalle finestre. Alla fine era arrivato a pesare 46 chili».

Quando arrivaste in questa casa?

«Nel 1983. Era un ex convalescenziario della guerra del ’15-’18: portavano qui al Lido i soldati feriti sul Piave. Ma il nostro primo alloggio a Venezia fu al pianterreno della Ca’ d’oro. Nel cortiletto avevamo un pozzo, attorno al quale danzavano i topi. Le pantegane parlano, tengono conferenze, avrebbe dovuto vederle. Io, incinta, ero terrorizzata. Ci trasferimmo in fondo alla Strada Nova, al quarto piano. Il ginecologo sentenziò: “Con una bimba in pancia e una per mano non può fare 90 gradini”. Qui sono 62. Con le mie figlie ho sempre parlato francese. “Maman, quand sortiras-tu de cette chambre noire?”, piagnucolavano. Ero sempre in camera oscura. Mi piaceva».

Un amico mi ha raccontato che una volta, a mezzogiorno, vide sulla vostra tavola soltanto pane e mortadella.

«Oh, sì. Mio padre era un noto otorinolaringoiatra, avevamo la West wind, una barca di 11 metri ormeggiata in Costa Azzurra, con il marinaio. Da benestante mi ritrovai catastrofata, si dice così? Siamo stati poveri finché non arrivarono i proventi di Essere Venezia, il capolavoro assoluto di mio marito, 700.000 copie».

Incasserà ancora i diritti?

«Quali diritti! È esaurito da decenni. Vivo solo della pensione di Fulvio, meno di 1.000 euro al mese. Lui non voleva saperne degli editori. Un burocrate della Mondadori si rifiutò di stampare Essere Venezia nel formato orizzontale che Fulvio aveva in mente e così il libro fu affidato a un tipografo di Maniago del Friuli, senza neppure firmare un contratto».

In compenso avete girato il mondo.

«Mezzo milione di chilometri in Vespa. Venezia-Lisbona in otto giorni. Sul portapacchi s’era fatto costruire un baule per riporvi macchine fotografiche, obiettivi, cavalletto. Gli chiesi: e la mia roba? Risposta: “Porta lo spazzolino da denti”. La sera in albergo lavavo maglie e biancheria che avremmo rindossato il giorno dopo. A Lisbona volle portarmi a cena in un famoso ristorante. Si fece prestare una giacca. E come cravatta usò la cintura di cuoio sfilata dal mio abitino».

A che età si appassionò a Roiter?

«A 17 anni, quando mi fu regalata la mia prima macchina, una Rolleicord, sottomarca della Rolleiflex. Io non sono credente, ma il suo Terra di San Francesco, pubblicato prima in francese che in italiano dalla Guilde du Livre di Losanna, era la mia Bibbia. Poi Fulvio mi donò una Leica M4. La uso ancora. Lo sfidai: ti dimostrerò che con una sola macchina e tre obiettivi, 35, 50 e 90 millimetri, posso fare un libro. Stromboli, il mio primo titolo, nacque così. Lui volle portare di persona alla Kodak di Losanna le pellicole. Appena sviluppate, telefonò: “Loulou, sono foto fantastiche”. Mi rese così felice! Non era tipo da facili complimenti».

Suo marito mi confessò: «Lo scatto, lo scatto della Leica… Non è un rumore: è una musica. Avrei ucciso un tedesco per portargli via la Leica».

«Nei quattro anni di malattia, ogni giorno apriva l’armadio, afferrava una delle sue 15 Leica e la appoggiava all’orecchio per udire quel clic. Io piangevo».

Com’è cambiato il suo modo di fotografare con il passare del tempo?

«Non è cambiato. L’occhio rimane quello. Riprendo ciò che interessa a me. Per l’ultima Mostra del cinema, che si svolge qui davanti, ho scattato solo questa». (Mi mostra la foto: l’ombra di un pino marittimo su un muro color vermiglio, un ombrellone chiuso, due transenne bianche leggermente discostate).

C’è un modo di fotografare femminile?

«Sì, dall’immagine capisci il sesso di chi l’ha scattata. Per me, almeno, è sempre stato così. A Fulvio piaceva la ribalta, io preferivo restare invisibile. Dove passava lui, faceva strage, non restava più nulla da cogliere, ritraeva tutto. Tranne i bambini. A me piacciono perché non cambiano espressione mentre li fotografi. Il mio libro Children è nato dagli scarti visivi di mio marito».

Faceva strage anche di cuori. Dicono che fosse sensibile al fascino femminile.

«Ah, sì! Tutto il bello era suo».

Pensa che l’abbia tradita spesso?

«È ovvio. Quale marito non tradisce sua moglie? Era totalmente libero».

Mentre lei gli è rimasta fedele?

«Ma che cosa mi fa dire? Quando telefonava dagli alberghi in giro per il mondo, non m’interessava sapere se accanto a lui in camera ci fosse qualcuna. Bastava che tornasse a casa. Ero libera anch’io. Ma fra noi c’era un limite invalicabile: la famiglia. È sacra, la famiglia».

A che età si smette di fotografare?

«Mai. È la mia salvezza. E dopo ogni scatto penso: piacerebbe a Fulvio? Lui ripeteva sempre: “Fotografare è niente. Il difficile è vedere”. Dopo 50 anni di sacerdozio dietro l’obiettivo, non sapeva dirti se la fotografia fosse arte o no. Come scrisse Indro Montanelli all’uscita di Venezia viva, mio marito possedeva una mostruosa, animalesca facoltà di concentrare tutte le forze intellettive nell’occhio. Era questo a fare di lui uno dei maestri della fotografia mondiale. Magari non capiva, ma aveva visto tutto».

Che mi dice di Instagram?

«Non so che cosa sia».

Quale aspetto di Venezia ama di più?

«I dettagli architettonici nelle facciate dei palazzi risalenti alla Serenissima. Fulvio invece adorava campo San Tomà. Diceva: “Lì è come stare nel Settecento”».

Che cosa non le piace della città?

«I turisti. E i negozi gestiti dai cinesi».

Quale veneziano ha meglio interpretato la storia millenaria di questa civiltà?

«Tomaso Albinoni. La prima volta che Roiter entrò nella nostra casa di Anversa, gli cadde l’occhio sulla copertina verde di un disco. Raffigurava una regata storica sul Canal Grande, con il titolo “Tomaso Albinoni, dilettante veneto”. Credo d’averlo conquistato così, l’uomo della mia vita: con l’Adagio.

Articolo di Stefano Lorenzetto per il Corriere della Sera

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