LA SIGNORA DEL FAI

LA SIGNORA DEL FAI

 

QUANDO L’ITALIA VENIVA INVASA DAL CEMENTO, LEI FONDAVA IL FAI, SALVANDO DAL DEGRADO E DALLA MANOMISSIONE PALAZZI STORICI, OPERE D’ARTE, COSTE E BOSCHI- UNA RICCA BORGHESE CONSAPEVOLE DEL SUO RUOLO, PADRONA DEL CORRIERE DELLA SERA CHE PERSE PER….- GRETA THUNBERG?, UN SEME PER IL FUTURO.

A proposito di Greta Thunberg dice: «Gli uomini sciocchi, rancorosi e vecchi ne parlano male. La deridono. Io invece adorerei conoscerla questa magnifica ragazzina di 16 anni che sta scuotendo il mondo. Mi piacciono i suoi occhi, il suo tono, il suo calmissimo furore».

Che cosa le direbbe?

giulia maria crespi

Anna Maria Crespi

«Che è un seme del futuro. Che le sue parole daranno frutti. Che mi piacerebbe passare un pomeriggio con lei, magari sotto gli alberi della Zelata, ora che è autunno e tutto diventa così bello da scacciare persino la malinconia».

Giulia Maria Crespi, 96 anni, è seduta su un divano bianco. Beve una tisana fumante, ogni tanto mangia una mandorla salata. È la decana degli ambientalisti italiani. La signora del Fai, il Fondo per ambiente italiano che ha salvato ville, castelli, boschi, una parte preziosa del nostro paesaggio, magari piccola, ma con immensa risonanza, per restituirlo allo sguardo pubblico e fare della bellezza un dono.

GIULIA MARIA CRESPI 1I saloni del suo palazzo di corso Venezia contengono il silenzio delle cattedrali. E le sue parole un pezzo della nostra storia. Si ricorda «quando Milano era più bella di Parigi», con l’acqua dei navigli che correva accanto alle magnolie. L’acustica perfetta della Scala, prima dei bombardamenti. Le istitutrici a casa che le insegnavano Storia dell’arte e il latino, le fabbriche tessili di famiglia, le estati con gli Agnelli e i Franchetti. Mussolini che minacciava suo padre, proprietario del Corriere della Sera. Mussolini appeso in piazzale Loreto. Il ritorno dei prati nel Dopoguerra. L’asfalto e il cemento, a soffocare i prati, durante il Miracolo economico: «Sala è un buon sindaco, ma anche lui ama un po’ troppo i grattacieli».

Si ricorda della prima volta che entrò da proprietaria al Corriere, anno 1961, «tutti si inchinavano, mentre io tremavo perché sapevo di non sapere nulla». Si ricorda della bomba in piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, quando Spadolini direttore scese in Cronaca e disse che bisognava smontare le pagine che accusavano i fascisti e rimontarle «dicendo che erano stati gli anarchici». Di quando lei licenziò Spadolini per piazza Fontana «e perché stava sempre al telefono con i ministri». Dei litigi con Indro Montanelli. Di quando la accusavano di essere troppo ricca, troppo comunista e addirittura l’amante di Mario Capanna, «quello del Movimento studentesco che io neanche avevo mai visto».

angelo jr, andrea rizzoli e commenda

Angelo jr. Andrea a Angelo Rizzoli

Ascoltata oggi, è una storia persino divertente.

«Una mattina vennero i poliziotti a circondare la Zelata, perché questo Capanna era latitante dopo certi scontri di piazza e lo cercavano a casa nostra. Non sapevo se piangere o ridere. Fui processata. Mi difendeva Giandomenico Pisapia, uomo e avvocato magnifico, ma io gli dissi che volevo difendermi da sola. E finì che diventai amica del giudice».

Quella fu la stagione di Piero Ottone direttore.

«Ottone è stato il mio maestro di giornalismo. Ha svecchiato il Corriere con Pier Paolo Pasolini in terza pagina, le inchiesta ambientaliste di Antonio Cederna, i reportage di Corrado Stajano».

PIERO OTTONE E CARLO CARACCIOLO

Piero Ottone con Franco Caracciolo

Montanelli non amò quella svolta e preparò lo scisma.

«Credo che lui volesse diventare direttore o forse solo che io glielo chiedessi. Litigammo. Se ne andò. Non me ne sono mai pentita».

Però poi nuovi poteri finirono per estrometterla dal “Corriere”.

«Era il 1974. C’era la crisi. Si fece avanti Rizzoli che faceva da maschera ai soldi di Cefis e forse già allora al potere della P2. I miei due soci mi abbandonarono e mi abbandonò anche Agnelli».

Lei lo considerò un tradimento.

MONTANELLI

Indro Montanelli

«Lo era. Mi aveva giurato che sarebbe sempre stato il mio cavaliere bianco. Invece non mosse un dito. Mi disse che i tempi erano cambiati ed erano cambiati gli interessi della Fiat. Andai a inginocchiarmi a casa sua a Roma. Lui disse al maggiordomo di accompagnarmi alla porta perché aveva da fare».

Eravate amici dall’infanzia.

gianni agnelli

Gianni Agnelli

«Andavamo insieme a sciare al Sestriere e d’estate a Forte dei Marmi. Mi ricordo una festa speciale di notte, avevamo vent’anni e facemmo tutti il bagno nudi. Quando mio padre lo scoprì, rimase orripilato».

E neanche l’amicizia bastò.

«Non l’ho mai perdonato. Anche se ho continuato a essere amica di Marella, la moglie, che ho visto soffrire moltissimo».

Era un re regnante.

«Regnava ammirato da tutti compresi i suoi operai alla catena di montaggio».

Finita la sua avventura al “Corriere”, iniziò quella del Fai.

«L’idea della fondazione venne alla mia amica Elena Croce. Era il 1975. Invece di lamentarci delle cose brutte potevamo impegnarci per salvare quelle belle che venivano abbandonate. Cominciai da una piccola spiaggia di Panarea, poi il castello di Avio a Trento».

Oggi i vostri siti sono più di sessanta.

«Tutti donati gratuitamente e aperti al pubblico. Un miracolo che vive grazie a migliaia di volontari e a milioni di visitatori».

La gente ama le cose belle. Ma gli uomini spesso si specializzano in quelle brutte.

giulia maria crespi«Il veleno è il profitto e l’ignoranza. Periferie orrende, fabbriche orrende. Pensi al Petrolchimico costruito nella laguna più bella del mondo. O alle acciaierie di Taranto, tra i due mari, che hanno avvelenato l’aria, la vita, ogni cosa. È il demone di re Mida che, trasformando tutto in oro, è morto di fame».

La giustificazione è il progresso, i posti di lavoro, il prodotto interno lordo.

«No, è l’idiozia. Quando distruggi in fretta, nel tempo lungo la paghi. La mia meravigliosa Sardegna è stata devastata da fabbriche chimiche e dal cemento sulle coste. Mentre potrebbe avere un’agricoltura unica al mondo, allevamenti, artigianato, un turismo non predatorio».

Colpa della politica?

«Colpa dei politici. Che non hanno una visione, non sognano, non vedono. Vogliono solo i voti del prossimo anno».

Quello che sognava più di tutti era Berlusconi.

«Peccato che sognasse solo per sé. Mi dicono sia diventato orrendo a forza di chirurgia plastica e di fondotinta. È vero che non conta più nulla?».

Il capo delle destre ora è Salvini.

«Dalla padella alla brace. Questo Salvini usa la paura, la rabbia e l’ignoranza per distruggere il Paese e l’Europa. Io penso che la nostra unica salvezza sia una Europa grande e unita».

È per questo che russi e americani la assediano.

«Trump è un uomo terribile. E anche Putin. E il turco Erdogan. Siamo circondati da matti».

Tra i politici italiani chi salva?

«Prodi certamente. Un po’ Rutelli. E Veltroni che al Partito Democratico ci ha creduto veramente. Io l’ho anche aiutato come potevo. Ora si è disgustato della politica. E andandosene mi ha deluso».

Renzi?

PIERGAETANO MARCHETTI GIULIA MARIA CRESPI INAUGURAZIONE MITO ALLA SCALA FOTO FRANCO CORTELLINO

Giulia Maria Crespi con Pier Gaetano Marchetti

«È uno che fa e poi disfa. Vuole essere sempre al centro. Un po’ come il Berlusca che è tutto lui, solo lui. Lo sa che in Sardegna siamo confinanti? Una volta gli ho detto di venire a vedere le mie rocce sull’acqua e lui mi ha risposto che le sue erano più belle. Ma io so che sono sassi che ha fatto portare dai camion. Renzi uguale, vuole dominare. Ma poi cosa ha dominato?».

Grillo?

«Per carità, grida sempre».

Giuseppe Conte?

«Prima mi sembrava molto modesto. Ora parla, esiste, resiste. È un buon avvocato di mediazione. E la mediazione è la cosa che serve di più in politica».

Lei ama la politica?

«La mia politica è il Fondo ambiente italiano. Che vuol dire fare, investire, restituire, anziché chiacchierare. Il premio è migliorare di un millimetro la vita di tutti noi».

Il suo posto più bello?

GIULIA MARIA CRESPI E FRANCESCO MICHELI INAUGURAZIONE MITO ALLA SCALA FOTO FRANCO CORTELLINO

Giulia Maria Cresci con Francesco Micheli

«L’unico che ho comperato, Cala di Trana, a Palau. Era il 1958, c’era il mare, il vento, una collina. Dalla strada di terra battuta apparve una processione di carri trainati dai buoi, donne in costume, uomini a cavallo, avanzavano dentro a un silenzio sontuoso. Come in una visione magica. Ero in fuga d’amore con Guglielmo, che avrei sposato anni dopo. Era il posto del nostro destino».

Per questo ama così tanto la Sardegna?

«La Sardegna è diversa da tutte le isole del mondo. Naviga da sola nel tempo. Ha un profumo e una luce speciali. Per qualche ragione misteriosa, sono diventata molto più sarda che milanese. Più spirituale che materialista».

È religiosa?

«Non da messa alla domenica. Ma credo nel mistero della vita».

Ha paura della morte?

«No. Mi piacerebbe morire nel sonno, ma non avverrà».

Perché?

«Perché è troppo comodo. Morire è faticoso. E io sto morendo piano piano, ho avuto sei volte il cancro, non vedo, sento male, cammino male».

È favorevole all’eutanasia?

walter veltroni francesco rutelli foto di bacco (2)

Walter Veltroni e Francesco Rutelli

«Assolutamente no, non fa parte del mio destino. Ma ho due amiche che si sono già prenotate un posto nelle cliniche svizzere».

Quindi è contraria al divieto?

«Io sono contraria a tutti i divieti. Ognuno è libero di scegliere».

La chiesa è contraria.

«Ah, la chiesa! Io credo nella reincarnazione. Credo nelle ripetute vite terrene. E credo che per ogni bene fatto ci sarà un risarcimento futuro».

Quindi è ottimista?

«Sì, anche se sono convinta che in questo momento stia planando sul mondo uno spirito negativo. Quello delle guerre, del sangue. Ci saranno catastrofi, continueremo a avvelenare la vita e l’aria. Ma un minuto prima di soccombere, troveremo la forza di rinascere. Per questo Greta è così importante. Parla ai giovani, parla al futuro».

Anche lei lo fa.

«Sono contenta di averci provato. Di avere avuto e restituito. Avrei ancora tanta voglia di arrabbiarmi per l’arroganza e la stupidità degli uomini. Ma so che il mio tempo sta finendo. So che quando viene l’inverno cascano le foglie e la vita si ritira. Io mi sto ritirando».

Articolo di Pino Corrias per ”la Repubblica

 

GAB

GAB

 

FELPATA INTERVISTA DI ALDO CAZZULLO A UN TESTIMONE DELL’ASCESA E FINE DELLA DINASTIA AGNELLI E DELLA FIAT: GIANLUIGI GABETTI– NATALI PIEMONTESI, LAVORO IN USA, UN SALTO ALL’OLIVETTI, POI UNA VITA  AL LINGOTTO E IN TANTI ALTRI C.D.A.- UNO CHE SA E HA VISTO TUTTO, MA DI CUI AMA POCO PARLARE, E SE LO FA USA TANTA,TANTA DISCREZIONE-

Gianluigi Gabetti, qual è il suo primo ricordo?

Gianluigi Gabetti

«Le passeggiate con i nonni sotto i portici di via Sacchi a Torino, dove sono nato il 29 agosto 1924, vicino alla casa di Bobbio. Incontravamo spesso “uffiziali” di cavalleria, come li chiamava la nonna, che mi raccontava la loro pena per aver dovuto caricare gli operai, durante i disordini del 1920».

Cosa facevano i suoi genitori?

«Mia madre Elena amava giocare a tennis. Aveva imparato al circolo di Bordighera, dove c’era una piccola comunità di ufficiali inglesi venuti a curarsi le ferite della Grande Guerra.

Diventò una delle prime giocatrici italiane di prima categoria. Mio padre Ottavio era capo di gabinetto del prefetto di Torino. Fu trasferito sul Garda, perché D’Annunzio dal Vittoriale aveva chiesto che a reggere la sottoprefettura ci fosse uno di quelli che piacevano a lui. Papà era andato in guerra da volontario».

Gabetti con, in primo piano, Franzo Grande Stevens, avvocato di fiducia della famiglia Agnelli. Un’accoppiata assai affiatata, per decenni vicino agli Agnelli

Come si trovarono suo padre e D’Annunzio?

«Benissimo. D’ Annunzio gli chiedeva dei soldi e faceva la corte a mia madre, che era molto bella e altrettanto riservata. La prendeva sottobraccio e le mostrava la prua della nave Puglia, declamando sciocchezze: “Quando morirò i miei legionari grideranno “La nave Puglia si è fatta pietra!””. D’ Annunzio amava molto fotografarsi, avevamo la casa piena di sue foto».

GIANLUIGI GABETTI ALLA MESSA PER AGNELLI FOTO ANSAChe ricordo ha del fascismo?

«Una bardatura. Un travestimento. Il fascismo ha travestito l’Italia: un Paese agghindato da fascista, che si comportava da fascista. Sentivo i nonni dire: “È tutta una pagliacciata, ma non diciamolo a Ottavio per non metterlo in difficoltà”».

Perché?

«Mio padre doveva indossare la divisa in orbace. Che detestava, sia per il tessuto sia per la foggia. Fu nominato prefetto a Sassari. Andammo tutti e ci piacque molto. Studiavo al liceo Azuni, dove c’era già Enrico Berlinguer e da lì a poco sarebbe arrivato Francesco Cossiga».

Com’era la Sardegna degli anni ’30?

Gabetti con John Elkann

«Meravigliosa. Il fascismo la lambiva appena. Spazi immensi e vuoti. I sardi ci invitavano alla caccia al cinghiale. Sono persone di forti sentimenti. Quando nel 1940 tornammo in Piemonte, a salutarci alla stazione erano a migliaia».

Come ricorda la guerra?

«I bombardamenti distrussero la nostra casa di Torino. Riparammo in campagna, a Magliano Alfieri. Nel castello era di stanza un reggimento. Parlo tedesco, e l’8 settembre il colonnello comandante mi chiamò come interprete. I nazisti chiesero la resa incondizionata. Provai un’umiliazione profonda nel tradurre la risposta. Vidi mille italiani deporre le armi davanti a sei tedeschi: finirono tutti nei lager. La gente saccheggiò il castello: portarono via ogni cosa, anche le brande, incitandosi l’uno con l’ altro. Una scena mortificante. Ma quando con mio fratello Roberto, il futuro architetto, ci nascondevamo in cantina, tutti in paese sapevano, e nessuno tradì».

gianni agnelli paolo fresco

Giovanni Agnelli con Paolo Fresco

Come passavate il tempo?

«A leggere l’Enciclopedia di D’Alembert e Diderot, di cui avevamo trovato una copia settecentesca nella biblioteca del nonno. Ci interessavano soprattutto le implicazioni pratiche. Imparammo a trarre il salgemma dalle acque stagnanti intorno al Tanaro, che scambiavamo contro merce in tabaccheria. Costruimmo un distillatore per fare con le pesche macerate l’alcol etilico, che fornivamo alla farmacia in cambio di medicine per i parenti anziani. Poi mi stancai e andai a fare il partigiano».

Con quale formazione?

«Giustizia e Libertà. Nome di battaglia Attilio, come mio nonno. Molti studenti, qualche operaio, un paio di avanzi di galera. Ci comandava un capitano dell’ esercito, il bravo Bava. Un giorno ci mandò all’assalto: il mio vicino cadde con le braccia larghe, come il miliziano della foto di Capa. Ma non era una pallottola, era un attacco di epilessia».

Agnelli col figlio Edoardo, morto suicida nel 2000

Lei fu fatto prigioniero.

«Lo fui quasi, dai partigiani comunisti: mi salvò un vecchio piemontese che conosceva mio padre. In marcia verso Asti ci trovammo di fronte i panzer tedeschi: alzarono la bandiera bianca. Trattai con loro, da solo, come l’omino di piazza Tienanmen. Mi chiesero se il ponte era minato».

Lo era?

«Se lo fosse stato, non sarei qui. Ci costrinsero ad andare avanti noi. Anche sconfitti, i nazisti non avevano perso la loro arroganza».

La sua carriera comincia alla Banca Commerciale.

«Ricordo un immenso salone. Mi imposi di imparare tutto in ogni ufficio: libretti di risparmio, conti correnti, cassette di sicurezza. Poi ricominciai al primo piano, dove arrivai sostituendo una dattilografa. Ho mangiato tanta merda, che alla fine però diventa nutriente».

Com’ era il capo, Raffaele Mattioli?

«Entrai nella sua stanza buia. Era di schiena: stava mettendo in ordine le pecorelle nel presepio. Si girò, disse: “E tu, che cazzo vuoi?”. Mattioli era sboccatissimo. “Presidente, mi ha fatto venire lei”. “Ah sì. Mi dicono che lei fa un sacco di cose. Ci rivedremo”: mi aveva preso in simpatia».

Poi la chiamò Adriano Olivetti. Come lo ricorda?

«Ero andato da lui quasi di nascosto. Aveva due occhi azzurri da ipnotizzatore. Mi parlò di filosofia, di religione. Poi disse: “Lei deve lavorare qui dentro”. Dopo due settimane mi arrivò una sua lettera».

Cosa c’era scritto?

«Tutto quello che avrei dovuto fare nei dieci anni successivi. Visitare le filiali, studiare lo sviluppo nel Nord America».

Enrico Cuccia, il banchiere, erede di Mattioli, deus ex machina della finanza italiana per decenni

A New York lei conobbe sua moglie, americana.

«Andammo in giro una sera d’autunno con Roberto Olivetti su una Oldsmobile decapottabile. Mi presi la polmonite, lei mi accudì. Per ringraziarla la invitai a cena in un locale alla moda, El Morocco. Ci diedero il tavolo accanto all’ orchestra. “Non ero mai stata in Siberia prima d’ora” mi disse. Non capii; non sapevo che la “Siberia” nel gergo newyorkese era il tavolo peggiore».

Come recuperò?

«Scoprii che il proprietario si chiamava Perona ed era di Ivrea. Lo chiamai. La volta successiva ci trattarono come principi. Ci sposammo. Bettina fu una grande moglie, scomparsa nel 2008».

Infine la chiamò Agnelli.

Umberto e Giovanni Agnelli

«Mi chiese di visitare il MoMa nel giorno di chiusura. Ero nel board e ci riuscii. Ma quando mi propose di tornare in Italia esitai. Fu mia moglie a convincermi. Visentini, allora presidente Olivetti, mi tolse il saluto».

Qual era il suo ruolo?

«Come amministratore delegato dell’ Ifi dovevo investire e diversificare. Non mi sono mai occupato del patrimonio personale dell’Avvocato. Quando la Fiat andò in crisi ci trovammo costretti a vendere quanto occorreva per salvaguardare l’indipendenza dell’ intero Gruppo».

Con Romiti non avete mai avuto un gran rapporto.

«Non dovevamo averlo. Io ero l’esponente della proprietà, lui il responsabile della gestione del nostro più importante investimento. La cosa non gli andava sempre bene, per cui la relazione era talvolta tesa. Ma non abbiamo mai avuto veri attriti. Ci fu sempre stima personale».

Romiti era troppo legato a Cuccia per lei?

Gianni Agnelli con De Benedetti

Giovanni Agnelli con un giovane Carlo De Benedetti

«Certo era più vicino di quanto non fossi io. Era nella natura di Cuccia essere un dominatore, dire quello che gli altri dovevano fare, e io questo non potevo accettarlo anche perché il massimo esponente del Gruppo era l’ Avvocato».

Agnelli aveva soggezione verso Cuccia?

«Non ho mai visto Agnelli in soggezione con nessuno. Così come non l’ho mai visto trattare male nessuno. Per Cuccia aveva rispetto, da lui accettava qualsiasi osservazione».

Com’ era l’Avvocato nella vita privata?

«Un maestro delle sfumature. Si faceva obbedire da tutti, Romiti compreso, senza bisogno di dare ordini. E lavorava molto. Si affaticava. L’ idea dell’ Avvocato scansafatiche è una leggenda».

Com’ erano i rapporti con De Benedetti?

Cesare Romiti

«Buoni ma cauti. Avevano una buona considerazione l’ uno dell’ altro, ma non si fidavano sino in fondo l’ uno dell’ altro».

Lei era contrario a comprare il «Corriere».

«Avevamo già La Stampa. Ma Agnelli era un talent scout di giornalisti».

Quando lo vide per l’ultima volta?

«Mi dà pena riparlarne. Soffriva molto. Mi prese la mano e se la portò qui, tra la guancia e la tempia destra. Poi mi fece un saluto militare. Non quello classico con la mano di taglio sulla fronte; più ampio, tipo segnaletica da marinaio».

Lei è finito sotto processo pur di mantenere il controllo alla famiglia.

«Si trattava di impedire che della Fiat venisse fatto uno spezzatino. Con Grande Stevens si trovò la soluzione legale».

Come è arrivato al vertice Marchionne?

sergio marchionne john elkann

Sergio Marchionne con Elkann

«Quando Umberto stava morendo, venne da me Morchio a dirmi che il successore era lui.

Al funerale spiegava agli eredi di essere pronto a diventare anche azionista».

E loro?

«Ebbero qualche tentazione, ma la respinsero. Allora mi tornò in mente Marchionne, che Umberto aveva portato in consiglio. Non aveva casa a Torino, ci eravamo visti qualche volta a cena con mia moglie. Ai consiglieri dissi: c’è una scelta che vi raccomando, Marchionne, e una che vi raccomando di lasciar cadere. Presero la decisione giusta. Marchionne ha un tratto di genialità».

Com’è il suo rapporto con i nipoti dell’Avvocato?

«Credo francamente di essere stato l’uomo più vicino al loro nonno. Adesso è il momento di John. La famiglia è raccolta attorno a lui».

Chi verrà dopo Marchionne?

«Credo non lo sappia neanche lui. Deciderà insieme con Elkann».

Quanto della Fiat resterà in Italia?

«Non lo so. Ormai dobbiamo pensare in termini europei e globali».

E il futuro del nostro Paese come lo vede?

«Male, se non fosse per il legame con l’ Europa. Più sarà forte e sentito, più ci allontaneremo dal baratro»

Intervista di Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera”

 

STAI FRESCO

STAI FRESCO

 

UNA BELLA STORIA DI LAVORO, DI SUCCESSO E DI AMORE INTRAMONTABILE- PAOLO FRESCO RACCONTA LA SUA VITA CON PACATA SERENITA’ E MODESTIA.- L’INFANZIA GENOVESE CON VILLAGGIO E FABER, LA PARENTESI IN USA, POI LA FIAT DI GIANNI AGNELLI, LE MANOVRE DI UMBERTO, L’AVVENTO DI MARCHIONNE, LE IMPROVVIDE CONFIDENZE CON LA STAMPA.

 

Avvocato Paolo Fresco, cosa provò quando Gianni Agnelli le chiese di prendere il suo posto?

«Da decenni ero in adorazione di Gianni Agnelli, e lo ero ancora negli anni Novanta, quando divenni il secondo manager più importante al mondo. Anzi, per alcuni mesi fui il più potente: Jack Welch, presidente di General Electric, dovette cedermi temporaneamente le redini per un intervento cardiaco. Ma Agnelli era inarrivabile: non erano i soldi, non era il potere, era la sua vita inimitabile. Mi fece contattare dai cacciatori di teste Egon Zehnder offrendomi una posizione di vertice in Fiat. Risposi di essere lusingato, però ero impegnato in progetti importanti. Dovevo inoltre aspettare di compiere 65 anni per incassare il “premio di fedeltà” dalla GE».

Quando l’ Avvocato compì settant’ anni nominò presidente Cesare Romiti…

Paolo Fresco con Gianni Agnelli

«Salvo tornare alla carica con me quando anche Romiti si avvicinò ai settanta. Mi richiamarono gli headhunters e io reagii con un po’ di strafottenza: l’ Avvocato mi conosce – dissi – se ha bisogno mi chiami pure. Lui capì, alzò la cornetta del telefono e io mi precipitai a Torino. Così cominciarono i guai».

Guai? Non era quello che desiderava?

«Amministratore delegato era Paolo Cantarella: avevamo le stesse deleghe. Lui immaginava di poter fare come Romiti. Io credevo di essere stato chiamato con il ruolo operativo che ha un presidente negli Usa. L’ atteggiamento di Cantarella mi turbava perché sembrava volermi isolare dal resto dell’ azienda. Se chiamavo un dirigente, lui imponeva che passasse prima e dopo dai suoi uffici per riferire. Andai dall’ Avvocato e gli chiesi di scegliere; mi disse di aspettare sei mesi. Alla fine mi concentrai su ciò che sapevo fare meglio e che aveva favorito la mia ascesa in General Electric».

Sviluppare il business, immagino?

Paolo Fresco con Paolo Villaggio

«Negoziare. Individuare azioni strategiche e poi trattare ottenendo il massimo dalla controparte. In America ero il migliore».

È così che trasformò General Electric in prima multinazionale del mondo? Negli anni Ottanta la chiamavano Mr Globalization.

«Si deve tutto a Jack Welch: favorì, nonostante l’ opposizione di molti, la mia idea. Gli americani erano provinciali, credevano si dovesse competere solo con l’ azienda della porta accanto. Io sostenevo che il mondo si era messo in moto: i nostri concorrenti erano Siemens, Rolls Royce. Erano loro a sottrarci quote di mercato. Quando Welch mi diede il via libera, da prima azienda americana ci trasformammo in leader mondiale».

Torniamo a Fiat: quale fu la sua strategia?

«Proposi all’ Avvocato di vendere Fiat Auto. “È la cosa giusta” disse “ma il nonno si rivolterebbe nella tomba. Lo faccia quando sarò morto”. Testuali parole: “Per ora cerchi un’ alternativa che sia progressiva”. Cominciai una trattativa con i tedeschi di Mercedes Benz: offrivano 10 miliardi di euro, noi ne chiedevamo 12. A quel punto portai il presidente di Daimler, Jürgen Schrempp, a New York dall’ Avvocato. Quando uscimmo, Schrempp disse: “Non ho superato la prova”. Agnelli non riusciva a entrare in sintonia con i tedeschi».

Quindi tutto da rifare?

«Qualche tempo prima mi avevano cercato da General Motors. Li richiamai e giocai il tutto per tutto: stiamo chiudendo a 12 miliardi con i tedeschi, firmiamo tra 15 giorni, avete qualcosa da proporci? Dissero che 12 miliardi andavano bene ma preferivano partire rilevando il 20%. Risposi che la proposta mi allettava, perché l’ Avvocato auspicava una soluzione graduale. Però dovevano darmi garanzie. Si rifiutarono, ma i tempi erano stretti e alla fine accettarono la fatidica clausola: a richiesta di Fiat, sarebbero stati obbligati a comprare il restante 80%».

Con quella «trappola», pardon, garanzia, lei ha salvato la Fiat…

Paolo Fresco con un giovane Matteo Renzi

«No, la Fiat l’ ha salvata Sergio Marchionne. Diciamo che io gli ho fornito uno strumento efficace. Quando la nostra posizione sul mercato si deteriorò, Marchionne negoziò la rinuncia alla clausola ottenendo in cambio una penale salatissima e la restituzione gratuita del 20% delle azioni. Avrei tentato di farlo anch’ io, ma l’ Avvocato era morto e avevo ritenuto opportuno dimettermi».

Perché precisa: «Opportuno»?

«Era giunto il tempo di Umberto Agnelli. Che non mi amava. Quando l’ Avvocato era già malato tentò un golpe: riuscii a sventarlo grazie a una manina gentile che fece pervenire alla stampa il piano architettato per farmi dimettere durante un Cda già convocato».

Qual era il piano? E la gentile manina?

«Sulla manina non avrà da me altre informazioni. Quanto al piano di Umberto, metteva in campo l’ uomo dei fallimenti, l’ Enrico Bondi che poi si sarebbe occupato di Parmalat. Ottimo professionista, ma con la fama di risanare le società facendone pagare i costi ai creditori. Il giorno del tentato golpe imparai due lezioni: a non fidarmi dei giornalisti e che, comunque, alla fine è meglio dire quello che si pensa».

Mi spieghi meglio.

«Mi chiamò Ezio Mauro, direttore di Repubblica . Solo per avere un background , garantì: non avrebbe scritto nulla di ciò che gli confidavo. Non mi trattenni. Il giorno dopo lessi tutto sul giornale. Il titolo era: “Io rispetto i diritti di tutti ma l’ arroganza m’ offende”. Chiuse l’ articolo con una mia battuta su Berlusconi, così anche Silvio mi tolse il saluto. Ma sa cosa le dico: alla fine Mauro mi ha fatto un favore, mi sono tolto tanti pesi dallo stomaco e quell’ articolo l’ ho incorniciato».

Ne ha fatta di strada il ragazzo di Genova che andava a scuola con Paolo Villaggio…

Paolo Fresco con Maura Albites e il figlio Piero Villaggio

«Sono nato a Milano, poi papà venne trasferito a Genova. Mi iscrissero al liceo classico Andrea Doria. Paolo Villaggio è stato mio compagno di classe per cinque anni; avevamo costituito una bella combriccola, quelli della “terza E”. Lì ho conosciuto Gino Paoli, Tenco lo frequentavamo poco, a volte si aggregava Umberto Bindi, quello di Arrivederci , uno sfigato. Più tardi – era più giovane – si aggiunse Fabrizio De André. Ci vedevamo soprattutto d’ estate in Sardegna. Era molto legato a Paolo, ma passavano il tempo a litigare. Due ego spropositati, soprattutto Fabrizio: bizzarro, aggressivo, iconoclasta.

Confesso di non averlo capito. Adesso quando sento le sue canzoni mi rendo conto del suo genio, ma allora era solo uno che suonava la chitarra, che dovevi pregarlo un quarto d’ ora perché cantasse e due ore perché smettesse. Si accapigliava con Villaggio perché erano uguali: avevano il demone di voler piacere al grande pubblico. Davanti alla bara di Faber, Paolo mi disse: “Se avessi la garanzia di avere anch’ io un funerale come quello di Fabrizio morirei subito”».

Mai tentato dalla carriera artistica?

«All’ esame di Diritto commerciale il prof mi diede 30 ma mi consigliò di fare il cantante.

Avevo però un altro fardello sulle spalle…».

Fardello?

«Mio fratello maggiore morì in un incidente ferroviario nel ’43. Andava a Milano con papà per iscriversi all’ università. Il convoglio che li precedeva era stato mitragliato e si era fermato. Quando sopraggiunsero, andarono a sbattere e vi furono due morti. Da allora mi sentii dire che dovevo dare ai miei genitori anche le soddisfazioni che si aspettavano da Gigi. Per fortuna l’ ho presa come una missione. Cominciai a lavorare a Genova nello studio Lefebvre d’ Ovidio e poco dopo mi trasferii a Roma. Tornai a Genova nel 1962 come legale della CGE, una società controllata da General Electric e partecipata da Fiat. Lì cominciò il mio futuro».

Che effetto faceva la grande America al ragazzo di Genova?

«Facevo incontri importanti restando sempre un po’ ingenuo. La prima volta che vidi Bill Clinton sembrava fossimo amici di lunga data: sapeva tutto di me. Tornai da Welch, glielo dissi orgoglioso, e lui si mise a ridere: “Gli hanno letto il tuo curriculum e lui te l’ ha recitato”. La volta successiva, il Presidente mi chiese un parere. Prese nota: “Interessante”. Quando lo raccontai, altra risata: “Ha gettato nel cestino l’ appunto appena sei uscito”».

Un giovane Paolo Fresco con la moglie Marlene

Ma il più grande incontro, mi pare di capire, fu con Marlene, sua moglie…

«Perdoni, ma non riesco a parlarne senza commuovermi. L’ ho conosciuta a Roma, nel 1959, e ho avuto con lei una storia durata due giorni. Quando ci siamo rincontrati a New York nel 1965, né io né lei ci ricordavamo di quell’ avventura. A dire il vero io sì, perché mi era subito parsa la donna più bella del mondo. Però avevo capito male il suo nome: l’ amore fugace di Roma si chiamava Marlene, la ragazza di New York Jacqueline. La seconda volta che ci incontrammo precisò che il suo nome era Marlene, e allora mi tornò in mente tutto: non dissi nulla, giocai per un po’ e la feci sentire in colpa. Non ci siamo più lasciati fino a che l’ ho persa.

Quando mi dissero che aveva il parkinsonismo tirai un sospiro di sollievo. Ma il medico disse di non farmi illusioni: era un cugino del Parkinson persino più cattivo. Ora le sue ceneri sono lì, in quella torretta del giardino che da qui, Fiesole, domina Firenze. Quando riuscivamo ancora a parlare avevamo deciso di devolvere parte della nostra ricchezza agli altri: 25 milioni di dollari. Quei soldi ora servono a chi studia come combattere la malattia che me l’ ha portata via».

Articolo di Pier Luigi Vercesi per il Corriere della Sera

 

 

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