In ricordo di Mario Monicelli: “Il cinema non produce arte, al massimo cultura. Il mio cinema non aspira a verità massime né a piacere a tutti.”
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Mi piaceva Flaubert, avrei voluto scrivere come Dostoevskij. Mi sono accorto però abbastanza rapidamente – perché non sono del tutto stupido – che era meglio abbandonare questa ambizione. E ho ripiegato sul cinema, che comunque mi piaceva. Mi interessava entrare nel mondo che vedevo da ragazzino. Sono del 1915, e perciò vedevo il cinema muto, sono stato educato con quel cinema lì.
Io volevo essere un romanziere o un poeta: mi capitò intorno ai diciassette anni di leggere Gogol’, Le anime morte ,e allora capii che era meglio abbandonassi quest’idea di fare lo scrittore e ripiegai su una cosa assai più modesta, che è il cinematografo. Con il cinematografo puoi dividere la responsabilità con gli attori, per esempio, e dare anzi tutta la colpa a loro se una cosa è venuta male, oppure al direttore della luce, allo scenografo e soprattutto agli sceneggiatori. E ho avuto una vita più serena.
È dal 1934 che lavoro nel cinema. Da troppo tempo perché non sia viziato. Sono un regista accentratore, che sceglie i soggetti, li scrive, cura la sceneggiatura, sceglie gli attori eccetera.
Come molti di quelli che credevano di avere qualcosa da dire ho cercato di farlo attraverso la letteratura, poi mi sono accorto rapidamente che non era cosa. Ho provato con la musica, e anche lì mi sono accorto rapidamente che non era il mio campo, e allora ho scelto come ripiego il cinema.
I miei maestri sono gli autori delle farse, i cortometraggi non più lunghi di dieci minuti che quando ero bambino si mettevano in coda ai filmoni con Rodolfo Valentino, Mary Pickford o Douglas Fairbanks. Ufficialmente le farse erano anonime, ma gli autori erano i giovani Charlie Chaplin, Buster Keaton, King Vidor o John Ford che facevano il loro apprendistato come oggi si fa girando spot pubblicitari. Per me sono stati una scuola impagabile: di tempi comici, di psicologie secche, non troppo elaborate ma credibili, e anche di fantasia e di capacità di astrazione… Non c’è niente di cui non si possa sorridere. In ogni tragedia, anche nella guerra più atroce, c’è il grottesco, c’è l’umanità degli individui, con le loro debolezze, i momenti di tenerezza, anche con il dolore.
Da ragazzi si andava in questi cinemetti dove lo schermo era una parete bianca dipinta malamente, e lì si svolgevano delle vicende… cose meravigliose: battaglie, amori, cavalli in corsa… Io non capivo bene, ero bambino, cinque o sei anni, noi tutti non sapevamo bene se fosse roba vera o una finzione. Era una cosa magica, meravigliosa… Io allora ero talmente affascinato che volevo entrare in quel mondo, ma non sapevo come, non sapevo nemmeno cosa volessi fare: l’attore, il regista o chissà che… volevo entrare lì nel mezzo; per fortuna tanto ho fatto che ci sono arrivato, molto presto. A fare cose molto umili: l’attrezzista, l’aiuto trucco e così via; insomma piano piano mi sono infilato lì e ci son rimasto tutta la vita.
Non ho mai provato a scrivere un film da solo: mi annoierei. Fra noi sceneggiatori c’era un senso di bottega artigianale molto importante. Scrivevamo i film su misura per gli attori, com’è nella tradizione del teatro: anche Goldoni scriveva le sue commedie per questo o quell’Arlecchino, per questa o quella Mirandolina; e così faceva Shakespeare.
Con i cattivi registi si impara molto. Si impara a non fare. Con Fellini cosa vuoi imparare? Non impari niente, perché o sei lui, oppure lasci andare. Cosa vuoi imparare con Fellini o con Antonioni? Non si impara. Si impara con quelli che fanno le stupidaggini, sennò non impari. Impari, casomai, l’atteggiamento, un certo tipo di serietà oppure, al contrario, di non prendere troppo sul serio quello che stai facendo.
Aveva ragione Longanesi che raccontava di Rossellini, il quale si lamentava: “Ora non si possono più fare bei film… Allora vi era la guerra, un mondo distrutto”. E Longanesi: “Ma che, dobbiamo perdere un’altra guerra o farne un’altra per farti fare bei film?”.
Il cinema ha il potere di rispecchiare, di raccontare, ma non quello di fare prediche… Il cinema dovrebbe essere muto, non parlato. Dovrebbe essere composto solo di belle immagini mute che, montate le une con le altre, raccontano tutto quello che c’è da raccontare, e infatti, per i primi vent’anni, il cinema è stato così. Sono stati girati bellissimi film drammatici, comici, farseschi, avventurosi, tutti muti, senza musiche, senza sonoro.
Il vantaggio dei film brutti è che non li vede nessuno. Il cinema è un’arte applicata, senza l’industria non esisterebbe. È un segno dello squallore dei tempi sacralizzare il cinema come fosse la bottega di Caravaggio… Il cinema è la settima arte; cioè l’ultima. Ma quale arte! Io non ho questa gran stima per il cinema.
Avrei voluto essere Buñuel o Huston, ma mi è toccato essere Monicelli, e l’ho fatto meglio che ho potuto.
Articolo apparso l’11 agosto 2023 sul Fatto Quotidiano
Ormai minato da un cancro fase terminale, la sera del 29 novembre 2010, Monicelli, a 95 anni, decise di togliersi la vita gettandosi nel vuoto dalla finestra della stanza dell’ospedale romano dove era ricoverato.
Il 20 marzo 2012, pochi giorni dopo il suo novantaduesimo ed ultimo compleanno, Tonino Guerra confidava ai giornalisti: “Non posso morire oggi, è il compleanno di mia moglie”. Morirà il giorno successivo, primo giorno di primavera, e giornata mondiale della poesia.
Dove siano finiti oggi i randagi non è chiaro, ma fino a qualche anno fa, racconta suo figlio, il tema era all’ordine del giorno: “Andrea, dimmi la verità, qui in casa senti un forte odore di gatto?”. Tonino Guerra accudiva molti felini, “almeno quaranta”, li ospitava tra i fogli, i divani e le tavolozze del suo eremo di Pennabilli e forse lungo i tornanti della storia e della Valmarecchia, in quel lembo d’Italia in cui Toscana, Emilia e Marche sconfinano fino a toccarsi, la scelta dimostrava soprattutto una totale assenza di rancore. A causa di un gatto Tonino era infatti finito in campo di concentramento: “Erano sfollati a qualche chilometro di distanza dal paese e sua madre lo mandò in avanscoperta a vedere come stesse. Lui si era imbattuto in una staffetta partigiana, quella in fuga gli aveva passato un ciuffo di volantini e mio padre nell’infilarli dentro il tubo di una grondaia ebbe un’esitazione fatale che non sfuggì a un soldato di passaggio” ma non aveva dato peso ai segni più che al caso. A Troisdorf, in Germania, neanche venticinquenne, era sopravvissuto agli stenti con la fantasia: “Cucinava tagliatelle immaginarie per i compagni di detenzione e come un Buster Keaton fuori latitudine le presentava così bene che gli altri, seri, domandavano: ‘Potremmo averne un’altra forchettata?’. Le offriva a tutti anche da Zaghini, a Santarcangelo di Romagna, un altro dei suoi poli sentimentali, all’epoca in cui la poesia si era fatta terrena e il suo amico Marcello Mastroianni la pasta la mangiava direttamente in cucina accanto ai fornelli: perché così facendo, diceva, gli sembrava di essere vicino a sua madre”. Quando parla di suo padre Tonino e per fisiognomica, ritualità, battute fulminanti e sguardo dimostra che la genetica non è un’invenzione, Andrea Guerra, compositore (David di Donatello, Globi D’Oro, Nastri d’Argento, Grammy, Efa, l’Oscar europeo, collaborazioni con Tornatore, i fratelli Taviani, Ozpetek, Giordana, Muccino, Guadagnino, Veronesi, Milani, Verdone e Genovese) si affida alla memoria. Fotografie insieme se ne troverebbero poche: “Non più di cinque in tutto”, perché al patriarca mettersi in posa pareva una perdita di tempo e all’erede far sapere al mondo di essere imparentato con un signore che tra Fellini, Petri e Antonioni aveva fatto la storia del cinema italiano una piccineria o, peggio, una scorciatoia: “Babbo, lo avvertivo io il cognome non me lo cambio ma facciamo un patto. Io non ti dico niente del mio lavoro e in cambio ti prometto che non ti chiederò niente del tuo. Credo per anni di non avergli mai fatto sentire una sola mia composizione”. Ora che i percorsi si sono compiuti e i sogni realizzati, Andrea ha riordinato l’enorme materiale prodotto da Tonino Guerra: “Non avevo ereditato neanche un quadro ed è stata una ricerca folle. Ho messo insieme 400 opere e fatto digitalizzare fino ad ora più di 40.000 pagine”, e dato vita a un museo permanente e a un Festival cinematografico, I luoghi dell’Anima, che se suo padre fosse stato vivo e il 2021 un anno normale, avrebbe celebrato in prima persona come faceva quando alla porta di casa si affacciavano gli sconosciuti: “Venite, fatevi avanti, chi siete? Cosa cercate?”.
L’uscio era quasi sempre spalancato e i visitatori occasionali venivano trascinati per campi e giardini, conquistati dal pifferaio magico, affabulati dal sense of humor e da quella voce che sembrava nata per raccontare: “Qui c’è l’orto dei frutti dimenticati, dove coltivare quelli che non conosce più nessuno, qui La strada delle Meridiane, puntellata di orologi solari che riproducono diverse forme lungo l’arco del giorno, qui ancora Il santuario dei pensieri”. Era ed è un vero e proprio percorso. Bellezza allo stato puro in cui Tonino era solito trascorrere le ore. Lui parlava, spiegava e divagava. Poi si faceva buio ed era ora di rientrare perché a dettare veramente il tempo, nell’ultima fase della sua vita, erano le stagioni. Tonino guardava in alto come faceva da ragazzo, con Petri e Flaiano, quando nella sua prima sceneggiatura, Un ettaro di cielo, immagina di vendere il cielo a pezzi ai contadini ingenui neanche fosse la Fontana di Trevi in Totò Truffa per poi volgere lo sguardo alla terra, agli alberi e al panorama del quale si era circondato. Dopo qualche decennio a Roma il ritorno in campagna non significava misantropia, dice Andrea: “Perché è vero che l’uomo aveva un ego non semplice da contenere, un suo carisma da smussare e in certe giornate storte sapeva esser sbrigativo, ma è anche vero che sapeva stare con gli altri come nessuno, nell’ultimo decennio sentiva scorrere il tempo più velocemente e si era molto addolcito”. Si trattava soltanto di un nuovo codice, diverso da quello che negli anni romani gli faceva incontrare il Papa in mezzo alla strada o costruire i grandi copioni come L’Avventura o Amarcord sulla terrazza affacciata su Piazzale Clodio in cui ospitare di volta in volta De Sica e Antonioni. All’epoca Tonino parlava la lingua della metropoli. Nella senilità spostò il luogo d’elezione delle proprie idee ancor prima che se stesso: “Diceva che si era trovato in un momento della vita in cui per rinnovare i suoi sogni ne avrebbe dovuta scegliere un’altra di metropoli e che invece di trasferirsi banalmente da Roma a Parigi aveva deciso di tornare alle origini, alla natura, a un altro modo di ascoltare le cose”. La salute col tempo e con l’età era peggiorata: “Lo sapeva e come ogni convinto vitalista ossessionato dall’idea della morte e disperato all’ipotesi che l’esistenza si consumasse come un fiammifero allontanava l’idea”. E dipingere, continuare a scrivere e inventare rappresentava il suo esorcismo quotidiano: “La sua maniera di lasciare un contributo”. Era consapevole – “se rivede Ginger e Fred la critica alla globalizzazione è chiarissima ”– che un certo cinema “era finito per sempre, che l’epoca d’oro era alle spalle, che la decadenza si era presentata con la scusa più volgare, quella della moda e dell’anagrafe e che persino Fellini, uno a cui Tonino da quanto ci si divertiva avrebbe fatto una sola domanda: ‘Perché mai sei morto così presto?’. Era costretto ad aspettare mezz’ora per farsi ricevere in Rai, proprio nello stesso luogo in cui fino a pochi anni prima gli avrebbero steso tappeti rossi”.
.….la sua poesia dialettale nacque nei campi di prigionia, gomito a gomito con alcuni compaesani. Nacque indubbiamente nel segno della nostalgia; ma soprattutto Guerra scopriva un mondo dai caratteri compiuti, nel quale il rimpianto diviene lacrima bruciata. Si può far coincidere quel mondo col paese natale (Santarcangelo, presso Rimini) e il suo contado, dal mare ai primi colli, e con una piccola gente ben riconoscibile, individuata per nomignoli e soprannomi, immersa nella povertà e senza avvenire. La povertà viene dipinta in pennellate icastiche, tra muri squallidi, angoli di rifiuti, miseri oggetti, e talora assimilata alla dannazione cieca del lavoro. Sulla gente paesana e contadina, sul “piccolo mondo scaduto, suburbano, fatto di residui” (Contini), incombe talora un’aria di catastrofe, e intorno si distendono gli alberi in fiore, le siepi odorose, i filari che furono del Pascoli e di Spallicci: i quali non formano più paesaggio organico bensì una secca campionatura di scorci smozzicati, sui quali si stampa a volte una magia irripetibile, e la folla delle macchiette e dei matti di paese vi commisura il segno patetico e beffardo del destino. Il giovane prigioniero dei tedeschi nella lingua madre riesumava un mondo che la guerra stava cancellando; e il dialetto diveniva mortorio e ninna nanna, folgorato tra scoperte aurorali e inumazioni. La sua immutata arguzia guizza in un deserto bianco di polvere, nella luce livida del terremoto imminente. Intorno all’antica parola del popolo s’è fatto il vuoto: per questo risuona così netta, così nuova e profonda.
Tratto dal sito La presenza di Erato a firma di Claudio Marabini
I genitori di Andrea Guerra si separarono all’inizio degli anni Sessanta. La madre Paola, indipendente e fiera, lasciò Roma alla guida della sua macchina e in mancanza del divorzio ufficiale, ruppe a modo suo tornando in Romagna con i figli Costanza e Andrea, un anno e quattro. Fu lei a indirizzarlo verso la musica. Sempre lei a crescerlo. “All’epoca il mio babbo lo vedevo poco. Ma non posso seriamente sostenere di essere stato infelice. Avevo le fionde, avevo i campi e un rapporto del tutto particolare con Tonino. Componevo lo 06317176, il numero di telefono, ancora me lo ricordo, oppure incollavo i francobolli, scrivevo l’indirizzo esatto e partivano delle gran lettere piene di disegnoni per non perdere nella distanza proprio tutto”. Nell’adolescenza il rapporto epistolare prese un’altra piega. “Cominciai a viaggiare a Roma e a incontrare Fellini in ascensore”, o a dare forma ai pomeriggi del babbo con Suso Cecchi D’Amico e la macchina da scrivere nell’angolo. Dire chi fosse Tonino non è semplice, neanche per lui: “Ci ho messo un po’ a capirci qualcosa perché di sé Tonino parlava pochissimo, ‘poche pugnette’, ma per passione e per gioco passava la vita a osservare e a scrivere impressioni sulle sue agendine. Ne ho trovate a centinaia: ne aveva in tasca sempre quattro piene di titoli, suggestioni, frasi, scarabocchi e piccole poesie”. Le prime, in forma orale, le aveva messe insieme in prigionia e un suo compagno le aveva trascritte con un carboncino su fogli di fortuna. Le altre, quelle tirate giù in libertà e poi pubblicate insieme alle prime, ritmarono un’esistenza più inquieta di quanto il suo cinema non spingerebbe a pensare. In mezzo a un lungo fiume tranquillo, decisioni improvvise e strappi netti. Ebbe un tumore e spiazzò tutti: “Vado a operarmi in Russia”, dove, dice Andrea, “senza esagerare, il babbo è famoso come Ce lenta no” e dove L ora, la seconda moglie, aveva contribuito ad esportare il suo enorme talento. “Il mondo russo rappresentò un passo molto importante nella vita di Tonino. Lora gli aprì le porte di una vera e propria seconda giovinezza artistica”.
Tonino aveva lavorato a lungo con Tarkovskij e dopo essere stato trattato con l’onore riservato a certe glorie della patria, aveva di nuovo deviato dal percorso, aiutato il regista russo a dispiegare certe scomode metafore fuori dai confini “di quella che era ancora l’Unione Sovietica” e incrinato per un istante con gente poco incline al perdono i rapporti con Mosca. La malattia appianò i dissidi, restituì il visto a Tonino e Guerra vinse la sua battaglia. Le altre le aveva combattute a suo modo. “Incazzandosi a volte, come accade a tutti quelli che credono in qualcosa”, discutendo, “perché quella era l’epoca in cui mandarsi a fare in culo per un punto di vista non comprometteva un’amicizia e Age e Scarpelli urlavano oltre le porte facendo credere a chi passasse per caso di essere sul punto di uccidersi”, e litigando senza però mai sbattere la porta. Flaiano aveva rotto con Fellini al ritorno da un terribile viaggio americano. Il maestro in business e lo scrittore in economica. Sospetti di ingratitudine. Di incomprensione. Malessere. Al ritorno si erano ritrovati come di consueto sulla spiaggia di Fregene, ma la misura era colma e l’ultima immagine del film aveva proiettato la sparizione di Federico all’orizzonte. Il regista camminava, le sue frasi “che te ne pare Enniuccio?” si confondevano con il rumore del mare e Flaiano intanto era già lontano.
Non si parlarono per anni. “Il babbo era nascostamente autoritario? Forse. Ma non è detto. Poteva accadere di non essere d’accordo su un’idea, ma per carattere, proprio come a Flaiano, a Tonino, Fellini non avrebbe potuto mai lanciare fogli senza conseguenze”.
Tonino Guerra sapeva farsi amare, i rapporti di amicizia erano una cosa sacra e le polemiche rarissime. Aveva tenuto per sé e rivendicato però il senso del mestiere quando l’assalto modernista si era fatto più feroce, “perché vedi Andrea, di sceneggiature e film, come del calcio, parlano proprio tutti e tutti hanno una propria opinione ma io un film se devo farlo o non farlo lo decido in cinque minuti”. Tonino distingueva “tra film di parola e di immagine e ineluttabilmente sceglieva sempre i secondi. Gli piaceva la fantasia, non il fantastico. Una giocosa elaborazione del reale che tenesse però sempre presente il passo della storia”. Ci era passato di fianco: “Contento, proprio contento sono stato molte volte nella vita, ma più di tutte quando mi hanno liberato in Germania che mi sono messo a guardare una farfalla senza la voglia di mangiarla”. L’aveva attraversata e aveva provato a riprodurla con una melodia surreale e leggera che ai suoi luoghi doveva non poco. Era una questione privata. Linguistica e ontologica. Un’eredità della saggezza popolare del Montefeltro che a un certo punto, quasi per urgenza, trova il suo sbocco verso il mare. In certi contesti l’acqua scorre senza necessità di lauree o patenti. “Quando figarino, il barbiere del Bar Centrale
A causa di un gatto era finito in campo di concentramento: “Erano sfollati e sua madre lo mandò in avanscoperta a vedere come stesse”
“E’ vero che aveva un ego non semplice da contenere, ma sapeva stare con gli altri come nessuno, e nell’ultimo decennio si era molto addolcito”
“La Russia rappresentò un passo molto importante nella vita di Tonino. Lora gli aprì le porte di una vera e propria seconda giovinezza artistica”
“Gli piaceva la fantasia, non il fantastico. Una giocosa elaborazione del reale che tenesse però sempre presente il passo della storia”
di Santarcangelo, la sua base in paese, torna dal fiume e deve descrivere il caldo che fa in riva al Marecchia non si lamenta, ma lavora di allegoria. ‘Sai Tonino che oggi le formiche facevano il fumo?’”. A un certo punto, solo per dire l’importanza che dava alle parole, con l’amico Theo Angelopoulos aveva immaginato un film che prendesse spunto da un mercante di parole. Parole in vendita. Parole all’asta. Parole da levigare al pari dei pensieri per trovare il sentiero meno ozioso e quindi faticare. E cercare ancora perché le buone idee hanno bisogno anche di metodo: “Quando cominciò a insegnare italiano a Savignano ai suoi alunni dava sempre lo stesso tema: ‘Cosa ho mangiato oggi?’. Gli studenti lo compilavano il lunedì e poi con crescente incredulità anche nei giorni a venire. ‘Perché’, gli chiedevano e Tonino rispondeva: ‘Perché dovete sforzarvi di sognare’”. Guerra lo faceva attraverso le riflessioni dei suoi personaggi: “Guarda quante ce ne sono, oh. Milioni di milioni di milioni di stelle. Ostia ragazzi, io mi domando come cavolo fa a reggersi tutta sta baracca. Perché per noi, così per dire, in fondo è abbastanza facile, devo fare un palazzo: tot mattoni, tot quintali di calce, ma lassù, viva la Madonna, dove le metto le fondamenta, eh? Non son mica coriandoli”. Attraverso le fughe da fermo: “Delle volte non mi sembra di avere alcun diritto di trovarmi dove sono. Sarà per questo che ho sempre voglia di andare via”. Attraverso il vetro oltre cui vedere posarsi la neve: “Uno non se lo immagina nemmeno signora mia che cos’è la neve, porca miseria, se non è stato in Russia. Signora basta sta’ fermi tre minuti e te congeli”.
Dopo qualche decennio dietro le quinte Tonino aveva interpretato un celebre spot. Camminava con uno dei suoi improbabili e coloratissimi maglioni, la coppola in testa e declamava: “L’ottimismo è il profumo della vita”. Divenne una sorta di gag molto popolare, ma Tonino ci credeva davvero. Lo pensavano anche i suoi sodali. Perché ridere che ci si trovasse da Otello in Via della Croce o sul Danubio con un regista greco capace di aspettare settimane per trovare la giusta luce dell’alba, era essenziale. Dei grandi vecchi del tempo del padre “che avevano un apertura verso l’altro oggi del tutto sconosciuta”, Andrea Guerra ha lavorato soltanto con Scola: “Dal senso di responsabilità che mi metteva sulle spalle ero spaventato dalla sua stessa libertà”. Tonino l’ha inseguita per tutta la vita. Al suo funerale, sul prato della casa di Pennabilli, la bara aveva una finestrella che faceva scorgere il volto. Tonino rideva. “Ci ha fregati tutti un’altra volta”, dicevano gli astanti. E non avevano l’aria di mentire.
Intervista di Malcom Pagani per Il Foglio Quotidiano
E’ MORTO IERI ALBERTO ARBASINO– DALLA NATIA VOGHERA A ROMA, DALL’UNIVERSITA’ AL PARLAMENTO, QUASI NOVANTANNI DI SCORRERIE FRA SAGGISTICA, GIORNALISMO, MEMORIALISTICA, CRITICA – TESTIMONE ESTROSO A VOLTE IRRIVERENTE DELL’ITALIA DELLA SECONDA META’ DEL 900, ARBASINO NON ANNOIAVA MAI, COME IN QUESTA BELLA INTERVISTA DEL 2014 A MALCOM PAGANI CHE RIPROPONIAMO IN SUO RICORDO
«Dalla A di Gianni Agnelli alla Z di Federico Zeri, alcune decine di conversazioni, interviste, dialoghi, e magari anche chiacchiere, con illustri contemporanei quali Roberto Longhi, Aldo Palazzeschi, Giovanni Comisso, Mario Soldati, Cesare Brandi, Federico Fellini, Luciano Anceschi, Luchino Visconti, Alberto Moravia. E notevolissimi coetanei, o quasi – da Calvino e Testori e Pasolini, a Parise e Manganelli e Berio –, coi quali ci si ripromettevano lunghe polemiche anziane davanti a un bel camino acceso, con vino rosso e castagne e magari cognac. Invece, la storia girò diversamente. E così, oltre ad alcuni coetanei vitali e viventi, eccoci qui con care e bizzarre memorie evidentemente prenatali: Dossi, Tessa, Puccini, D’Annunzio, e la mia concittadina vogherese Carolina Invernizio, nonna o bisnonna di mezza Italia letteraria». Dalla presentazione di RITRATTI ITALIANI , ed. ADELPHI 2009
Pur refrattario
all’elaborazione di un saggio sul maleducato da carrozza: “Il tempo è prezioso
e la tolleranza costa già un notevole sforzo”, Alberto Arbasino soffre treni,
scompartimenti e vicini ciarlieri. “Prendere le cosiddette vetture silenziose,
che poi tanto silenziose non sono, è un’accortezza inutile”. Parlano tutti ad
alta voce: “Dei fatti loro, dell’intimo, del personale”.
E il vento caldo delle
sue piccole vacanze in Spagna: “Andavamo alle Baleari. Ibiza era meravigliosa e
Formentera non era altro che una lingua di sabbia tagliata dal taxi che ci
portava da un lato all’altro dell’isola per il pranzo” o “i flautisti da
giardino che ascoltavo d’estate dall’ammezzato di una delle mie prime case
romane” non tornano a visitare la stagione dei suoi 84 anni.
Alberto Arbasino
Luglio è quasi a metà,
sulla terrazza il fico ha foglie di un verde innaturale e Arbasino indossa la camicia
color kaki di chi sa come attraversare il suo deserto: “Di sera esco ancora
volentieri, anche se scivolare dalla Via Veneto prefelliniana alla cena in
Piazza Navona, non mi accadrà più. Con Ercolino Patti, Sandro De Feo e Cesare
Brandi succedeva spesso. Cesare aveva un piccolo pied-à-terre e dopo una
giornata di lavoro casalinga non covava il desiderio della minestrina nel
tinello.
Così si usciva in gruppo
e si stava insieme fino alle due di notte. Mi stupivo. Lavoravano come ossessi
e scrivevano senza sosta, ma non rinunciavano a vivere. Ridursi male comunque
era difficile. Non tralignavamo mai. Un bicchiere, forse due. Si beveva il
giusto, con moderazione”. Della grande casa con le sue iniziali sulla porta,
conosce oro, incenso e giacimenti.
Quando cerca nella
biblioteca un volume di De Chirico: “Me lo regalò lui in Via della Vite, in
fondo ci sono anche delle note a penna”, insegue un nome sulla Garzantina:
“L’editore fiorentino di cui le parlavo era Carocci”, sventa l’attentato dell’ospite
superando agile uno zaino sulla moquette o rimpiange con discrezione la
mancanza di un computer: “Non lo possiedo, per alfabetizzarsi è tardi, ma ne
sento la mancanza”, Arbasino denuncia il perpetuo movimento che dalla fine
degli anni 50, immobile non l’ha fatto mai restare.
Anche se i baffi di
quando intervistava Borges sono un ricordo fotografico, è nell’autoscatto del
tempo che fu: “Self-made man di origini decadenti (nato a Voghera nel 1930,
rinato a Roma nel 1957) con la tentazione di vivere come se. Cioè come se
abitassimo una società civilissima, illuminata e cosmopolita…” e nei versi
ancora attualissimi di Super-Eliogabalo: “Senza pietre di paragone/ né pretese
di perfezione/ se ragiono/ a tono/ funziono/ a una condizione/ diventare ciò
che sono/ non chi impersono” che Arbasino può vantare la curiosità di chi
ha guardato il mondo senza curarsi delle “ultime novità”.
Gianni Agnelli con Montezemolo
Lo stile nemico della
semplificazione: “Per far contenti tutti e raggiungere le edicole degli
areoporti non si può rinunciare all’ambiguità, alla notte, al mistero,
all’oscurità”. L’amicizia con Agnelli: “Ci vedevamo spesso, dietro la sua
raffinatezza pulsavano frequentazioni e lezioni erudite, Mario Tazzoli, Luigi
Carluccio e Franco Antonicelli che alle signore di Voghera consigliava di
servire i cioccolatini in coppe di cristallo”.
Il mondo dell’avvocato
come ouverture per altri 92 splendidi e diseguali Ritratti italiani raccolti
per Adelphi. Ironia, affinità elettive, distanze e convergenze di Arbasino con
i pensatori del suo tempo si allineano sotto l’ombrello di un illusorio ordine
alfabetico. Sono volti, echi e disegni di passato senza data. Incontri con
imprenditori, registi e letterati. Quadri non sovrapponibili.
Cornici di un’età
irripetibile. Sulla parete d’ingresso, nel tratto grasso di un pennarello nero,
uno schizzo che Pasolini donò allo scrittore durante un’intervista: “Arbasino,
in un atto di industria culturale (abbietto, naturalmente)”. Gli zigomi duri, nota
Arbasino: “Sono i suoi” come la freccia che Pasolini indirizza a se stesso: “Io
mentre aspetto che scriva le domande a cui nobilmente rispondere”.
Carlo Emilio Gadda
Lei
arriva a Roma negli anni Cinquanta.
Avevo poco più di
vent’anni e non la pensavo diversamente da Paul Nizan: ‘Non permetterò a
nessuno di dire che è la più bella età della vita’. Quando si parla di Arcadia
bisognerebbe essere cauti. In Italia la ricostruzione era a buon punto, ma ci
sembrava comunque un’epoca noiosissima, una lunga stagione morta.
Sfogandosi
con lei, Pasolini parla di un “ridicolo decennio”.
È un decennio di
paradossi e contraddizioni. Di ultimi fuochi, di cambiamenti, di libera
sessualità dietro le dune e le pinete e di libri straordinari. Lo osservavo, lo
criticavo, lo subìvo il decennio dei ’50, poi adocchiavo la letteratura e mi
chiedevo: ‘Come è possibile?’. Di mese in mese, anzi di giorno in giorno, in
libreria era una festa. Il Pasticciaccio gaddiano, Menzogna e Sortilegio, Il
Disprezzo e La noia, gli ultimi due romanzi veramente belli di Moravia.
Glielo
disse che erano gli ultimi?
Pier Paolo Pasolini
Con Alberto ce ne facemmo
e dicemmo di cotte e di crude. Da ragazzo era antipatico. Da uomo maturo
dispettoso, prepotente ed eccessivamente prono al partito. In vecchiaia ci
rappattumammo. Non ripeteva più ‘uffa uffa’ con severo cipiglio, ma in
trattoria, davanti alle pere cotte, gridava: ‘Semo tutti peracottari’. Gli era
venuta voglia di ridere. È superfluo dirlo, ma mi manca moltissimo, non solo
nell’ultima veste giocosa.
Eravate
entrambi permalosi?
Lui sicuramente. Io mai,
altrimenti non sarei arrivato fin qui. Alberto era ispido ed era capace
di lunghissimi silenzi. Quando compì settant’anni gli portai 7
fazzolettini da Parigi. Aveva il vezzo di annodarli al collo e mi impegnai
nell’acquisto. Li avevo cercati con perizia: grandi marche, colori magnifici,
confezione adeguata. Li soppesò e poi disse: ‘Li conosco, a Roma li chiamano
strangolini’.
Faceva
parte degli intellettuali suscettibili?
Lui no, ma non mancavano.
C’erano persone che non tolleravano neanche l’afrore del giudizio critico e si
adombravano se non si ragionava delle loro opere dal superlativo in su. In
supporto non mancavano mai teorie di corifei. Gente che generosamente si
prestava all’equivoco: ‘Chi osa mettersi contro da oggi in poi non è
credibile’, ‘Chi non capisce è sciocco’, ‘Chi non si spella le mani è un
buzzurro’.
Alberto Moravia
Di
Antonioni, incline all’offesa, lei scrive cose non tenere.
Con intuizione corretta,
Antonioni fotografava tedio, imbecillità e incomprensioni sentimentali della
società europea sottoposta all’industrializzazione forzata. Metteva sotto la
lente quel disagio che i milanesi bramarono di provare nell’istante immediatamente
successivo all’edificazione del primo grattacielo cittadino. Ma nel suo cinema,
la pretesa letteraria si risolveva in bozzetti incongrui e programmatici. La
serietà con cui agghindava i suoi improbabili personaggi, le mezze calzette
elevate a paradigma del Paese, involontariamente comica. Passata la sbornia e
svanito l’equivoco, in effetti, si rise.
Giorgio Manganelli
Altro
moloch dal carattere puntuto, Luchino Visconti.
In lui la componente
populistica e quella dannunziana convivevano contribuendo all’essenza di un
Visconti che nel retropalco e nell’isolamento sembravano esattamente la stessa
persona. Uno che ideologicamente pendeva per il proletariato, detestava la
classe media e respirava circondato dallo sfarzo. Un signorotto di geniale
talento, ben allevato da genitori che lo portarono alla Scala fin da bambino,
con una sua corte di zelantissimi sottomessi, affannati nell’eseguirne gli
ordini. Frequentarlo annoiava e addolorava. Giovanni Testori, un caro amico,
era sfruttato malamente. Sul versante teatrale poi, anche se gli dobbiamo
spettacoli sommi come Anna Bolena e La sonnambula, l’elenco di quelli infelici
ha voci in quantità. A un certo punto, anche dal loggione, prevalse lo strepito
collettivo: ‘Che palle’.
Michelangelo Antonioni
In
“Ritratti italiani”, parole liete sono riservate a Giorgio De Chirico.
Era unico. Straordinario.
Diverso da chiunque altro. Avvertiva l’estraneità al mondo circostante,
viveva al passato remoto, si sentiva inadeguato persino all’allegro, innocuo
circo di Piazza di Spagna. De Chirico abitava a pochi passi dalla filiale della
Banca Commerciale Italiana e temeva di essere costantemente rapinato da
briganti e mascalzoni. ‘Ho paura sia a ritirare che a depositare’ mi diceva e
io: ‘Maestro, perdoni, ma che razza di traffico ha con questa banca?’.
Il
denaro per lei è stato importante?
Non troppo, ma ho sempre
considerato ovvio essere pagato per scrivere: il mio lavoro. Nel ’67, ai tempi
de Il Giorno di Italo Pietra, un ex comandante partigiano che ben conoscevo per
antichi vincoli familiari e che dei suoi anni universitari a Pavia amava dire:
‘Ballavamo il Charleston e traducevamo Sofocle meglio degli altri’, mi
trasferii in un amen al Corriere Della Sera. A Il Giorno mi pagavano
regolarmente, ma da anni collaboravo senza l’ombra di un contratto.
All’ennesimo rinvio della questione mi spostai in Via Solferino. Un problema
simile lo ebbi anche a Repubblica. Ero stato eletto deputato con il Partito
Repubblicano e l’amministrazione del giornale fu laconica: ‘Un contratto con un
deputato non si fa’.
Italo Pietra
Divenne
deputato nel 1983.
Me lo chiesero due fior
di personaggi come Giovanni Spadolini e Bruno Visentini. Una volta con
Visentini si andava a Treviso. Lui si trasformava, parlava in dialetto e
diventava incomprensibile. Di preferenza litigava con uno scrittore autoctono
che però dal trevigiano si era emancipato. Aveva viaggiato. Quando si
incontravano non c’era facezia che non li accendesse in discussioni infinite.
Niente
a che vedere con la timidezza di Gadda e Manganelli.
Manganelli, uno scrittore
sublime, era schivo. Lo incontravi al ristorante, in una sala appartata,
avviluppato in se stesso. Mandava l’ambasciata di un cameriere per
salutarti, poi si raccomandava: ‘Non dire a nessuno che mi hai visto’. Gadda
era diverso. Me lo ricordo su una mia vecchia spider con Bonsanti sul sedile
posteriore.
Giorgio De Chirico col fratello Savinio
Terrorizzato dalle curve
e con la mano sul freno, Gadda era pronto a intervenire. Una sera, tornando
dalla proiezione de La Bella di Lodi, chiese di fermarsi all’Hilton di Monte
Mario. Si impelagò in un discorso da ingegnere sugli ascensori con un altro
ingegnere, il fratello di Fabrizio Clerici. Tecnicismi da ossessi che
evaporarono in un istante quando all’orizzonte si scorse la sagoma di un
prelato.
Gadda, l’uomo che vestiva
in blu, non dimenticava mai la camicia bianca e certe discutibili cravatte
acquistate in uno spaccio di Via della Mercede, all’improvviso si illuminò:
‘Così dovevo nascere. Essere americano, farmi prete e vivere in un grande
albergo bevendo succo d’arancia’. Erano anni curiosi. Anni in cui gli uomini
non sapevano farsi la barba e Mimì Piovene, di casa a San Giovanni, si
lamentava: ‘Sono diventata la barbiera del Laterano’.
Guido Piovene
Di
Umberto Eco ha scritto: “Costruiva oggetti complessi che agli incolti mettevano
paura”.
È vero e fu un’operazione
di rara intelligenza. Con i libri di Eco, laureati e laureandi scoprivano la
complessità dell’esistenza in maniera abbastanza semplice. Il successo fu
assoluto. L’attenzione della critica, sacrale. Non a caso, da allora e per
sempre, Eco ha fatto il fornitore di oggetti apparentemente complessi.
Le è
simpatico?
Simpaticissimo. Anzi,
simpaticissimi. Lui e la moglie.
Il
verbo di Eco inizia a imporsi nei ’70.
Un decennio abbastanza
atroce. Si viveva sulla retorica del ’68 rapidamente diventata una retorica tremenda.
A San Francisco c’erano i figli dei fiori, in Europa gli assassini. In
California, con gli spazi larghi tra i palazzi, i prati e la sensazione di
libertà, la spinta a delinquere era anestetizzata dal contesto. Da noi in
fondo, in ambiti più asfittici, l’agguato era nell’aria e la storia fosca dei
Guelfi e dei Ghibellini, dei Montecchi e dei Capuleti, non faceva altro che
ripetersi.
Umberto Eco con la moglie
Altra
icona dei ’70, Nanni Moretti. Nel suo ritratto si sostiene che il regista sia
privo di cinismo.
Il cinico non perde tempo
a deplorare il proprio cinismo con malspeso rovello. Moretti è un cuor d’oro
sempre animato dal senso civico e dal bisogno di stare dalla parte giusta. Il
rischio moralismo, quando si vuole essere educati, corretti e civici, c’è. Il
ritratto del perfetto moralista, in certi film in cui il nostro porta in scena
se stesso, anche.
Se
scrivere è un lavoro, leggere che cos’è?
È un altro lavoro. Va
compensato. Costa fatica. Non a caso non ho letto i libri che partecipavano al
premio Strega.
Nessuno?
Nanni Moretti
Nessuno. Neanche per
sogno. Chi mi paga? Nei libri dello Strega di quest’anno non mi viene in mente
nulla che valesse l’aggravio della lettura.
Perché?
Per la stessa identica
ragione per la quale se sul giornale vedo gesti normali insigniti delle nove
colonne, mamme che mettono lo zucchero nel caffè o profeti che pensano di
stupire usando la parola cazzo, giro pagina. Non me ne importa niente. Non mi
vien voglia di leggere. Tanti anni fa non si usavano letterariamente gli
antichi sapori o le ricette della nonna mescolandole impunemente con le
malattie del papà o l’agonia della mamma.
C’erano libri diversi.
Scrittori migliori. Il proprio minuscolo io o il proprio ombelico non erano
ritenuti validi motivi per sbarcare in libreria e anche se le chiese politiche
erano più invadenti di oggi, c’era più understatement anche nella presa di
posizione. Se si esclude il Pci, non pulsavano le maldestre voglie di
appartenenza e la conclamata aderenza al nuovo progetto politico sul tavolo che
oggi rendono impossibile qualsiasi sfumatura. C’è una percepibile ansia di
salire sul carro. Consiglierei prudenza, magari il carro si rivela meno solido
del previsto.
È un
problema culturale?
Maria Bellonci
Ma la cultura è un affare
bizzarro. Come ho scritto in Ritratti italiani, di fronte al rotocalchismo,
quella vera sparisce. Basta un lieve sospetto e non la si trova più. Pensare
che in un’epoca lontana sorridevamo dell’ingenuità di Carlo Ponti, un
produttore che a differenza degli epigoni contemporanei, a Milano aveva
studiato davvero. Nell’ufficio all’Ara Coeli, oltre il suo tavolo, teneva la
Pléiade con la costa della copertina rivolta verso l’interlocutore. Ci
chiedevamo: ‘Ma se volesse leggerla lui, che periplo dovrebbe fare per raggiungere
il sapere?’.
È
sparita anche la letteratura italiana?
Si è deciso a tavolino
che i best-seller dovessero essere al livello del fruitore. E così, una volta
abbattuto il gusto a colpi di orrori, visto l’apprezzamento per il buco della
serratura di stampo familiare, via libera ai sapori, alle ricette della nonna,
ai lutti e alle corsie d’ospedale. Vendono moltissimo. Sono un prodotto da
banco. Uno shampoo. Un codice in più nello scontrino del supermercato. Forse
sono più alternativo, io.
Sull’affezione
premiologica della letteratura italiana lei montò uno speciale per la Rai in
epoca non sospetta.
Più della liturgia dello
Strega, non ho dimenticato Casa Bellonci. I corridoi strapieni di libri, lo
spazio totalmente colonizzato dai volumi, una cosa da restare sbalorditi. Per
la Rai in effetti assemblai un’ora e mezza di premi nazionali da Venezia a
Firenze. C’era un ritmo serrato e allo spettatore sembrava si trattasse di un
unico premio.
L’intento era quello.
Quando andai da Maria Bellonci spiegandole che non avrebbe potuto parlare per
più di 30 secondi quasi mi rise in faccia: ‘Ho bisogno di più tempo’. Si cambiò
10 volte, il risultato era inverosimile. Maria vestita da donna, da uomo, a
pois. Divertentissimo. Lei lo sapeva. Era una furbona.
È furba
anche una letteratura in cui l’intimo dolore sfiora la pornografia?
Furba sicuramente, pornografica non so, certamente irrilevante. Come può affascinarmi il calvario della prozia? Il ‘sapesse quanto abbiamo sofferto signora mia?’. Vabbè, anche se c’è chi non si diverte e gli scrittori danno l’impressione di divertirsi poco, signora mia sarà contentissima.
Il mare senza il solito blu, gli scogli (delle Eolie) come punte di coltello, gli interni delle case come gabbie interiori intrise di segni strabici, gli sguardi e i gesti inquieti e tormentati di Monica Vitti e di Lea Massari.
Antonioni con Monica Vitti
Immagine tratta da Deserto Rosso
Immagine del film Zabriskie Point
Pochi giorni ancora (fino a domenica 7 febbraio) per lasciarsi trasportare nei luoghi complessi della mente, nel taglio chiaro e vivido che fa del ferrarese Michelangelo Antonioni (1912-2007) il più potente (non a tutti digeribile, ma alla lunga il vincitore, il vero padre della modernità cinematografica) esploratore della visione di un mondo non indifferente alla psicologia umana ed alle potenzialità di ogni espressione visiva.
Gabriele Ferzetti e Monica Vitti nel film L’avventura
Presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna, a Roma “I 400 scatti”, una selezione di immagini realizzate dal fotografo di scena Enrico Appetito, tra il 1959 e il 1964, sui set dei quattro film di Antonioni dedicati alla “malattia dei sentimenti“ o “tetralogia dell’incomunicabilità”: L’ avventura (1959-60), La notte (1961), L’eclisse (1962) e Il deserto rosso(1964).
Immagini scelte tra le più intense di un percorso di complicità con il regista, gli attori e i paesaggi, che ha consentito ad Appetito di cogliere attimi, sensazioni, ironie e ansie. Gli scatti ingranditi e scanditi per film sottolineano quella preveggenza così nitida che non può che infastidire, decenni prima che ci si accorga quanto lo sfacelo, culturale, politico e psichico abbia ridotto in macerie il mondo intero.
Antonioni lo fa da subito e per tutta la vita, centrando l’obiettivo anche quando non sembra, con la descrizione puntigliosa del nei contesti architettonici più disparati, dimostrando che da un “ovunque possibile”, che sia isola, mare, deserto, centro storico, corridoio di un treno, chiesa o palazzo elegante, non si sfugge alla propria lacera identità, ai dolori, anche quelli inutili, che colgono impreparati, alle immagini dense e silenti dell’arte –che ci aiutano solo in parte –a districare i fili di un’esistenza inquieta e da un futuro che volge alla deriva.
Anche in questo caso (la mostra interdisciplinare di Palazzo dei Diamanti di Ferrara, nel 2013, poi esportata a Parigi, ha fatto scuola) non vi è solo una carrellata di scatti e brani di film, ma il rimando tra arte, cinema e fotografia è onnipresente. Le immagini fotografiche vengono messe in relazione con dipinti e sculture dei maestri dell’avanguardia italiana ed europea del Novecento.
Spunti di spazi mentali che riconducono alla base visionaria di ogni singolo film, passando non per le parole, ma attraverso le immagini, ovvero la sostanza da cui quasi tutta la sua opera prende forma.
Opera di Massimo Campigli
Opera di Giorgio De Chirico
Opera di Mario Sironi
Nella trilogia raccontata da Appetito, la pittura italiana contemporanea è fondamentale fonte d’ispirazione: affiorano ricordi delle piazze di De Chirico e molte delle composizioni di Morandi e le citazioni di Campigli e Sironi. Viene svelata la parabola creativa (a cura di Antonio Passa e Marco Maria Gazzano) accostandola a opere (appartenenti alla collezione della Galleria) di alcuni di questi colossi del Novecento, creando un dialogo diretto tra film e pittura, come Giorgio Morandi, Lucio Fontana, Giorgio De Chirico, Alberto Burri, Mimmo Rotella, Emilio Vedova, Giorgio Turcato e Jean Fautrier.
Infine – anzi per prima, quasi come un omaggio – la bellezza e la bravura senza confini di Monica Vitti, che illuminò il percorso artistico e biografico di Antonioni in quegli anni cruciali.
Articolo di Claudia Colasanti per il “Fatto Quotidiano” 3 febbraio 2016