IL TERZO SESSO

IL TERZO SESSO

Da Virginia Woolf a Colette fino a Thomas Mann. Da Bowie ai Maneskin. La libertà di espressione è una terza via dell’identità: né maschi né femmine

La complicità di Colette con il marito si basava sul desiderio di condividere non solo l’intimità, ma anche i segreti inconfessabili. Durante le loro notti insonni, aveva raccontato a Willy della sua adolescenza, delle sue pulsioni di ragazza, del suo corpo che cambiava, e Willy – gaudente e pieno di debiti – l’aveva incoraggiata a scriverne. Nasce così l’impudica Claudine, protagonista del ciclo di romanzi che ebbero un clamoroso successo alla fine dell’Ottocento. I libri però sono firmati da Willy. Le autrici donne non vendono, hanno molto meno seguito, è una questione di mercato: è lui a convincere Colette che sia meglio così. Colette si lascia guidare dal marito e in poco tempo arrivano i primi grandi guadagni, gli anticipi per i libri successivi, la programmazione giornaliera del lavoro; ma anche i metodi dispotici del marito. La protagonista – Claudine – è selvatica, spregiudicata e sensuale, ha la freschezza acerba dell’adolescenza. Claudine a scuola, Claudine a Parigi, Claudine amoureuse. In città e in tutta la Francia, si parla solo della protagonista che ha dato voce ai desideri più intimi delle giovani donne. Willy costringe Colette a vestirsi da Claudine: la divisa da scolaretta impertinente e i capelli corti, si fa fotografare con lei seduta sulle sue ginocchia. In poco tempo Claudine diventa un marchio: tutte le ragazze di Parigi vogliono assomigliarle. Colette non avrebbe mai immaginato tanto successo. Finalmente si sente pronta a uscire dall’ombra, a godersi la celebrità. Chiede al marito di firmare insieme i prossimi libri, ma lui glielo impedisce: nega quella possibilità con veemenza tirannica, affastellando scuse, giustificazioni, imponendo il proprio volere. E lei, Colette, inizia a odiarlo. Inizia a capirne l’opportunismo, il maschilismo calcolatore. Si rigira uno dei libri tra le mani: in copertina c’è una ragazza, la testa reclinata, lo sguardo astuto. Presto si libererà definitivamente dell’arroganza del marito. Il quarto romanzo della serie, forse non a caso, s’intitola Claudine se ne va.

Colette

Missy lo aveva sempre saputo che l’autrice era Colette. Sapeva che l’amica (presto diventerà la sua amante) era un’artista: lo si intuiva fin dal primo sguardo. Diceva Colette che si può fare a meno di tutto: del denaro, del benessere, ma non dello stupore. La vita deve essere uno stupore continuo, una continua rinascita. La ragazza con il colletto di pizzo e le trecce non esiste più. Non esiste più Sidonie-Gabrielle. Al suo posto c’è una donna con i capelli corti e ricci, la giacca da uomo nera, la camicia, la cravatta di raso. In una mano la sigaretta e lo sguardo in tralice, ambiguo, sempre pronto a trasformarsi da un momento all’altro. Sidonie-Gabrielle ha lasciato il posto a Colette. Quella di lei vestita da uomo è una foto del 1909. Non è più la moglie di Willy, non è più una ragazza di campagna. Quegli abiti bellissimi, maschili, sensuali raccontano la sua liberazione. Maria Luisa Frisa nelle Forme della moda (Il Mulino) ci fa notare come il “travestitismo” sia sempre stato – per tutto il Novecento – un modo per mettere in discussione il genere come costruzione culturale. Il crossdressing era appannaggio solo delle donne. C’era l’idea che con il suo abbigliamento l’uomo dovesse evocare sicurezza, serietà e affidabilità, mentre non era un problema per la donna – più ai margini – essere considerata frivola o superficiale. Per molte donne, però, vestirsi da uomo era un modo di venire accettate come uomini nella società. “La scrittrice George Sand e la pittrice Rosa Bonheur hanno utilizzato il crossdressing per vedere il loro lavoro considerato seriamente”.

E se invece non si scegliesse né un genere né l’altro?

Virginia Wolff

Per molti anni ho lavorato in un’agenzia di pubblicità, mi fermavo fino a sera tardi, andavo in ufficio nel weekend; ma il frutto di tanta fatica non mi convinceva mai fino in fondo. Per distrarmi compilavo liste di luoghi che avrei voluto visitare, consultavo guide turistiche, fantasticavo su altre possibili occupazioni.

In quegli anni, leggevo sempre un magazine di piccolo formato che di solito si trovava nei bar e nei locali e informava su tutti gli eventi in corso a Milano: mostre, concerti, serate, ristoranti. Era scritto molto bene; gli articoli erano brevissimi, ma composti con grande abilità. Pensai che avrei potuto scrivere anch’io qualcosa, perché Milano allora la conoscevo in ogni suo angolo. Mandai una mail alla redazione facendo una proposta. Non conoscevo nessuno e nessuno di loro conosceva me. Pensai che poteva essere un vantaggio e mi firmai POD, ricordandomi di un cavallo che avevo cavalcato da ragazzina che si chiamava Pari O Dispari (un animale talmente lunatico che poteva essere docile come un agnello oppure sgropparti al primo minuto. Non ricordo se fosse maschio o femmina). Il pezzo proposto uscì e poi ne uscirono molti altri con quella stessa firma: POD. Lo avevo fatto per gioco, e in parte anche per difendermi. Se non si sapeva che ero una ragazza, con me si sarebbero potute ingaggiare solo dinamiche neutre. Era una novità, era galvanizzante. Aveva mosso una certa curiosità anche tra i lettori, ma alla fine mi fu chiesto di specificare chi fossi. E la firma diventò Gaia POD.

Seduto in disparte nel giardino del Grand Hôtel des Bains, Aschenbach rivolge parole d’amore a Tadzio, che però non è lì per ascoltarle. Luchino Visconti inquadra la figura tremolante di Aschenbach, immerso nella penombra, interpretato da Dirk Bogarde; c’è un’eccitata inquietudine, c’è disperazione e qualcosa di patetico.

Scena del film Morte a Venezia di Luchino Visconti

Morte a Venezia (il film ha appena compiuto cinquant’anni) è il racconto del grande Thomas Mann che ruota intorno a una contemplazione vergognosa e nevrotica. L’adolescente Tadzio che muove il desiderio di Aschenbach è l’incarnazione dell’ambiguità – come ambiguo è il desiderio dell’uomo che tanto lo cerca. Tadzio, che Visconti fece interpretare a Bjorn Johan Andrésen, è di una bellezza quasi sacra, la bellezza degli angeli di cui non si riesce mai a discernere il genere. E’ l’efebo, oggetto d’amore, padrone di un potere estetico misteriosamente inconsapevole.

A me puoi dirlo di Catherine Lacey – apprezzata autrice americana, pubblicata in Italia da Sur – inizia da una persona che dorme in chiesa e in chiesa si sveglia attorniata da un’intera comunità. Senza nome, senza passato, senza una provenienza certa: è come un’apparizione. Lo chiameranno Panca, ma nessuno sa dire se Panca sia un ragazzo o una ragazza. Anzi di più, nessuno sa dire qualcosa di preciso di lui/lei. Le domande degli altri personaggi rimarranno senza risposta. E’ un approccio paradossale, quello di Lacey, che denuncia lo schematismo culturale con il quale affrontiamo il concetto d’identità. Panca non risponde a nessuno dei quesiti che gli vengono rivolti, rimane sempre in silenzio. Come definiamo noi stessi, dunque gli altri? “Chissà se solo gli altri possono definire il corpo, il nostro corpo, o se uno dall’interno può cogliere qualcosa di più vero, qualcosa che non si può vedere o spiegare a parole”. La sua diversità innalza Panca sopra gli altri. La diversità è una forma di libertà. Ma la libertà fa paura.

Due anni fa al teatro di Vienna è andata in scena per la prima volta l’opera Orlando, scritta e diretta da Olga Neuwirth, una delle compositrici più note dell’attuale scena musicale, basata sul romanzo di Virginia Woolf. La libertà di espressione, l’identità fluida. Orlando mette in discussione ogni dualità, vive l’esperienza di “essere-nel mezzo”.

Vienna, rappresentazione dell’Opera Orlando di Olga Neuwirth

Nato maschio nell’epoca di Elisabetta I Tudor e suo cortigiano, cambierà sesso e attraverserà quattro secoli arrivando nel 1929. Orlando è la biografia di un eroe che diventa eroina. Il tema non è il sesso, e nemmeno la storia: è la trasformazione; l’idea della metamorfosi, che è sempre coesistenza di un corpo nell’altro, di un genere nell’altro. L’identità è il luogo del fluido e dell’instabile, di mutazioni incessanti, ma anche di elementi inalienabili di continuità. Il maschile è anche femminile e viceversa. Non è un caso che nella trasposizione cinematografica Orlando sia stato interpretato da Tilda Swinton, vera e propria icona della gender confusion.

La trasformazione, la transitorietà racconta l’oggi – forse più l’oggi di ogni altro momento storico. Ci ricorda quello che vediamo nelle manifestazioni più popolari. Achille Lauro mette in scena tutto questo, estremizzandolo in un trasformismo che non è più soltanto tra i generi maschile e femminile; e forse, proprio per questo suo ecclettismo, perde di incisività: la provocazione si fa talvolta caricatura. Nel 1993, Kurt Cobain era apparso sulla copertina di “The Face” con un abito a fiorellini: non c’era nulla di ridicolo. La sua espressione attonita aveva qualcosa di disarmato, ma anche di sensuale: un’ambiguità solo a un passo dall’abbandonarsi ai sensi, senza forzature, senza costruzioni. L’annullamento dell’artificio, ma anche delle regole sociali del genere – di ogni regola.

All’opposto c’era stato David Bowie, con il suo fisico scheletrico, gli occhi disuguali e – almeno all’inizio – i denti storti. Non aveva alcuna importanza che si fosse dichiarato gay, era comunque uno degli uomini più sexy del pianeta. Dopo Space Oddity, nel 1971 aveva promosso molto svogliatamente Hunky Dory, perché tutte le sue energie creative erano concentrate su

The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. Era un album eccezionale sin dal titolo, e “giocava con i concetti di sessualità e artificio come nessuno nella musica aveva osato prima” (Sono l’uomo delle stelle, Il Saggiatore). Bowie aveva diciassette anni quando compariva in televisione come opinionista e parlava dei diritti dei maschi con i capelli lunghi. Tutine glitter, body, oppure completi giacca e pantaloni coloratissimi – piaceva agli uomini e anche alle donne. Era e resta un dandy, ed è stato considerato nel 2000 l’uomo più elegante del mondo.

David Bowie

Non so esattamente cosa sia l’eleganza, sicuramente quello che ha Bowie nel suo trasformismo e nella sua dichiarata ambiguità è stile. “Stile significa presentazione del proprio sé come un oggetto d’arte tridimensionale da ammirare e da toccare”, scriveva Angela Carter, scrittrice e giornalista. David Bowie ha fatto del suo stile un’espressione artistica, ovvero un modo di raccontarsi al mondo. Precorrendo i tempi.

La più giovane delle protagoniste di Ragazza, donna, altro, romanzo con cui Bernardine Evaristo ha vinto il Man Booker Prize nel 2019, dice che il femminismo è superato, ma anche essere donna è superato; dice che il futuro non è né maschio né femmina. Non so se il punto sia questo, so solo che le tematiche della fluidità sessuale sono una prospettiva importante da cui guardare l’oggi.

Maria Luisa Frisa spiega nel suo libro come la moda negli ultimi anni si sia mossa per assottigliare le differenze tra maschile e femminile. Fino a quello che vediamo oggi nei ventenni Maneskin, che hanno vinto Sanremo e ci dicono che insieme a loro ha vinto il genderless. E’ la sensualità dirompente in corpi giovani, quasi fossero ancora in transizione. E’ l’assottigliamento tra i generi diverso dall’unisex. E’ uno stile urlato, deciso, che non rinuncia al decorativismo. Viviamo ormai nell’appropriazione incrociata dei caratteri, come negazione e annullamento di limiti e preconcetti: è l’accettazione visiva di quell’ideale parità di genere di cui parliamo molto e in parte stiamo già realizzando. Oggi si va delineando una nuova pagina su cui costruire l’identità.

Articolo di Gaia Manzini per il Foglio Quotidiano

CARTOLINE DA PARIGI/1 – immagini di donne

CARTOLINE DA PARIGI/1 – immagini di donne

Tratti dal mio libro Cartoline da Parigi, diario di viaggio ed esplorazione della Ville lumiere, che fra 800 e 900 fu il centro del mondo,  pubblico, per i miei amici del blog, i capitoli ispirati a quattro donne dalla vita strepitosa ed inimitabile: Un uomo di nome Colette; Coco, uno stile  di donna; Madame Lamboukas, dite Edith Piaf; e infine Sugli scogli di Belle Île, che tratteggia la figura di Sarah Bernhardt, e che contiene un… misterioso incontro che avrebbe fatto invidia a Marcel Proust.  

colette

Un uomo di nome Colette

Negli ultimi decenni di una vita lunga e agitata, Colette abita al n. 9 di rue de Beaujolais, nel lato settentrionale delle Galeries du Palais Royal. Oggi una targa ricordo è posta sotto le sue finestre.

Visita il quadrilatero che circonda il silenzioso giardino, vi si gode una piacevole frescura e alcune delle botteghe e dei negozi di moda o di antiquariato sotto il porticato, meritano uno sguardo.

In vecchiaia, oramai bloccata dall’artrite, guardando per appunto Parigi da quelle finestre, Colette descrive la città sotto la dominazione tedesca.

Ai tedeschi si è già rivolta nel 1941 per riportare con successo a Parigi dal campo di concentramento il terzo marito, l’ebreo Maurice Goudekit.

Quando muore nel 1951 Colette è oramai una vecchia obesa e immobilizzata su una carrozzella, ma sempre combattiva, libera, anticonformista, in anticipo sui tempi.

Ma perché parlare di Colette? Forse perché è stata una donna e una scrittrice fra le più rappresentative di quegli anni? Certo, ma c’è dell’altro.

Questa donna per almeno un trentennio è stata al centro delle vita sociale e intellettuale di Parigi, ma per i benpensanti è stata nello stesso tempo simbolo di perversione, libertinaggio, spregio di ogni valore su cui si fondano ordine, famiglia e nazione. E’ così vivo lo strascico della sua vita costellata di scandali e polemiche furiose, che la Chiesa, alla morte, rifiuta di concederle funerali religiosi.

Ciò nonostante, i suoi libri nell’arco del primo trentennio del ‘900 sono autentici best-seller, fa tendenza anche nel campo della moda ed è a lungo fra i critici teatrali più contesi dai giornali parigini.

Non dimentichiamo che Colette ha anche un ruolo fra l’intellighenzia parigina, in particolare nella cerchia degli scrittori che si pongono, come ricorda Dan Franck nel suo saggio Libertad ! l’amore, l’impegno, l’arte e la politica, i drammi e le leggerezza nella Parigi degli anni trenta (Garzanti 2005), a sinistra del Partito Comunista francese. Sarebbe ingeneroso ricordala solo come l’amante di Bernier, Souvarine, Battaille e non dire che finanzia e scrive su La Critique Sociale, rivista su posizioni anti staliniste.

Ma questo succede verso il 1930, torniamo all’inizio, alla sua giovinezza.

Il successo, dapprima, è frutto soprattutto dell’abile regia del primo marito Henri Gouthier Villars, dongiovanni della Bella époque parigina, che sposa nel 1893.

L’uomo è infedele, certo ricambiato, spregiudicato e ben ammanigliato. Nel ritratto che ne schizza Félix Vallotton ci appare un viso sanguigno dai marcati lineamenti, fornito di pizzo e baffi monumentali, come nella moda maschile di quegli anni; “Willy”è abile uomo di comunicazione e di affari, un vero press-agent e un procuratore in senso moderno.

Sulla scia dei successi editoriali e di quello teatrale di Colette, egli sviluppa il marchio “Claudine” (è il nome della protagonista del romanzo Claudine s’en va), con una fiorente attività commerciale che spazia dagli accessori, ai profumi, ai gadget. Fra i due il ménage, pur fra alti a bassi, dura con successo di pubblico e di danaro.

Per anni Willy sfrutta senza scrupoli le capacità di scrittrice della moglie, cofirmando i romanzi, suggerendo trame, inserendo pagine di più accesa morbosità o particolari scabrosi. Anche lettori esigenti ne apprezzano le opere: Simenon, ad esempio, definisce la scrittura di Colette “elegante come i viticci di una vigna”.

Nel frattempo, la vita sentimentale di Colette, si svolge come in un turbine. Poliedrica e instancabile è, come scrive André Obey nel 1923, “un grand’uomo”.

Nonostante l’indubbio fascino e le capacità interpretative che ne fanno una attrice di successo, l’aspetto di Colette non è un gran che, almeno secondo i canoni odierni.

Viso forte, naso importante, bocca sottile e tirata, guardo deciso, a tratti duro. Un insieme poco femminile, ma che sa all’occorrenza cangiare, esercitando una grande attrattiva sulle persone.

Simone de Beauvoir nel libro di memorie La Forza delle cose, che abbraccia il ventennio che va dalla liberazione dal nazifascismo alla indipendenza algerina, così ricorda la scrittrice: “Quando ero ragazza, Colette mi aveva affascinata. Aveva un modo di parlare che mi divertiva, a me come a tutti, tre o quattro dei suoi libri mi piacevano molto. Peccato che non ami gli animali, aveva detto un giorno di lei Cocteau… I suoi amori, i retroscena dei music-hall, la Provenza, erano argomenti che le si addicevano molto più degli animali. Il suo disprezzo per le altre donne, il suo rispetto per i valori intangibili, il sentirla compiaciuta di sé, non mi erano simpatici.. Ma bastava guardarla. Immobile, i capelli ribelli, l’età, il trucco esagerato, davano al suo riso aguzzo, ai suoi occhi azzurri, un folgorante splendore: in mezzo alla sua collezione di fermacarte… mi apparve paralizzata e sovrana, come una formidabile Dea Madre” ( o.c. Einaudi pag. 231).

Colette riesce anche a sedurre, oramai quarantasettenne, Bertrand, il figlio minorenne del suo secondo marito Henry de Jouvenel, condirettore de Le Matin.

Ciò nonostante, alla star (si direbbe oggi) pluridivorziata, bisessuale Colette è conferita la massima onorificenza francese, la Legion d’Onore, nello stesso anno in cui la stessa onorificenza è concessa a Marcel Proust.

Come può una società rifiutare certi modelli di vita, accompagnati spesso dalla loro sfacciata esibizione, e nello stesso tempo onorare chi ne rappresenta la quintessenza, il modello?

Non è facile rispondere, o meglio le risposte possono essere tante. Proviamo a darne qualcuna, e scopriamo perché questo paradosso, se riferito a Parigi, è solo apparente.

Una prima risposta, la più facile, sta nella personalità stessa di Colette, inimitabile, irripetibile.

La sua smania di vivere, i suoi slanci, la passione che mette in ogni cosa, sono irresistibili e contagiosi.

Suo malgrado, Colette rappresenta un modello di libertà, di autentica espressione di sentimenti e passioni, che segretamente tutti sentono dentro, ma sepolti dalle convenzioni, e seppure soffocati della morale, sempre palpitanti, smaniosi di spazio, di luce, di godimento.

Soffermarsi su quegli anni che stanno a cavallo fra un secolo e l’altro, e che si spingono fino alla fine della prima guerra mondiale, ci avvicina alla seconda risposta, quella legata allo spirito del tempo.

Sono gli anni delle innovazioni e del progresso tecnico, della luce elettrica, dei fratelli Lumiere.

La grande depressione iniziata nei primi anni nel 1870 è oramai lontana e superata.

L’Expo del 1889 ha richiamato oltre 50 milioni di visitatori; si doveva aspettare il 1970 ad Osaka per battere questo record. Per ospitare la II Olimpiade moderna Parigi si rifà il vestito: vengono costruite la Gare de Lyon, la Gare d’Orsay, la linea 1 del métro, il Grand e Petit Palais.

Il 4 ottobre del 1883 parte dalla Gare de Lyon per Istanbul, via Monaco-Vienna, il primo, lussuoso orient-express, ancora oggi operativo, se si esclude la tratta Strasburgo-Vienna, vittima del low-cost. Treno mitico, destinato ad alimentare costantemente la fantasia di scrittori e cineasti.

Nulla sembra precluso e si guarda al futuro con grande ottimismo.

In realtà non c’è solo questo, ben più dense sono le contraddizioni: conflitti, guerre, rivoluzioni, depressioni e scandali finanziari.

Come non ricordare che l’avvento della III Repubblica nel 1870, costa il sangue di decine di migliaia di comunardi, perseguiti fin dentro le mura del cimitero di Père Lachaise e qui uccisi e sepolti un una fossa comune?

Eppure, di questo sangue, delle deportazioni nelle colonie, delle distruzioni, Parigi si libera presto. L’Esposizione universale del 1889, accoglie i parigini e i turisti con il nuovo, svettante simbolo della città rinata: la torre Eiffel.

Parigi nell’immaginario collettivo si forma allora, in quell’epoca celebrata per i cabaret, il can can, l’età dell’euforia e delle frivolezze.

Fra i tanti artisti richiamati a Parigi a fine secolo è Aroldo Bonzagni, nel 1910, con il suo quadro Mondanità o uscita del veglione, a cogliere appieno la disincantata ironia, il clima mondano, le pose e gli sguardi delle folla gaudente, l’aura di quel mondo scintillante.

Il mito ormai si sostituisce alla storia. Giovanni Boldini, Giuseppe De Nittis, Federico Zandomeneghi, fra gli italiani, e Toulouse Lautrec, Monet, Pissarro, Renoir fra i francesi non fanno altro che cristallizzare in immagini indelebili questo rovesciamento, questo spiazzante riposizionamento dei valori, stravolti dalla voglia collettiva di libertà e di progresso.

Non è un caso che proprio a Parigi nel 1909 Marinetti presenta il Manifesto del Futurismo, in inno alla velocità, alla luce, al mutamento continuo in avanti.

E anche se nel 1912 il Titanic affonda nelle gelide acque del mare del Nord, non per questo la borghesia continentale cessa di guardare all’America, alle sue metropoli, ai fasti di un benessere inarrestabile.

Lo stesso mito nel progresso dilaga conquistando anche il proletariato europeo che vede Oltreoceano la terra della nuova frontiera, del lavoro e del riscatto.

Colette forse, come nessun altra, più ancora di Sarah Bernhardt, più di Isadora Duncan, sa riassumere in sé questa immagine. Trasgredire per crescere, per assaporare il nuovo, per abitare da subito quella “società aperta” che per primo Henri Bergson, il massimo filosofo francese di quegli anni, ha descritto. Ecco perché Colette è detestata ed ammirata insieme.

La vocazione teatrante di Colette, il suo esibizionismo sfrenato sul palcoscenico, è un bisogno profondo, in cui risuonano le voglie sopite e la vitalità trasgressiva di una generazione, quella della Belle époque.

La Belle époque costruisce se stessa sul mito delle grandi capitali, in cui la borghesia commerciale e delle professioni si muove come su un palcoscenico. Qualche anno più tardi osserva infatti Jean Cocteau: “tutti a Parigi vorrebbero essere attori e nessuno spettatore”.

Ebbene, Colette è attrice e spettatrice nello stesso momento, sa comprendere meglio di ogni altra donna contemporanea quello che Oscar Wilde riassume mirabilmente nell’aforisma: “ le donne sono fatte per essere amate non per essere comprese”.

E in quegli anni che nasce la Parigi capitale della moda, la patria degli artisti, e si costruisce quello che verrà definito il “fantastico reale”, come ricerca della modernità.

I grandi magazzini, i passages diventano i salotti della borghesia parigina, come intérieurs abbordabili e visitati dalla masse.

Ma forse per capire fino in fondo il paradosso di cui ci stiamo occupando, nulla è meglio delle parole di Honoré de Balzac, a proposito di Parigi: “ Parigi è un paese molto ospitale; accoglie tutto, sia le fortune più vergognose che quelle insanguinate. Il delitto e l’infamia vi godono diritto di asilo, v’incontrano simpatie; solo la verità non vi possiede altari”.

Colette “grande uomo” comprende la natura ambigua di Parigi, vi si adatta col fiuto del grande animale di razza, forse con un pizzico di opportunismo, trasgredisce per tutti contando sull’indulgenza, tutti ama per tutti lasciare, rimanendo sempre se stessa per trovare, alla fine, nella solitudine, la grandezza.

Coco Chanel, uno stile di donna.

Coco Chanel

Coco Chanel

Colette e Coco vivono entrambe a Parigi per lunghi anni una vita parallela.

Non so se si conoscevano, se si frequentavano, è bello però pensare che sia stato così. Chissà?

In fondo sono ambedue donne libere, anticonformiste, indipendenti. Si rivolgono, la prima con i libri, l’altra con gli abiti o i profumi, alla stessa classe sociale.

Sul piano dei costumi forse Coco incide di più che non Colette; certamente la rivoluzione dello stile e nel modo di vestire attuata da Coco è una svolta più radicale e duratura di quanto Colette non ha fatto con i suoi libri.

Ancora una volta le idee nella storia dell’evoluzione umana appaiono avere un peso inferiore alla storia materiale, a ciò che in via fattuale, ogni giorno permette a queste idee di farsi largo.

Diceva il mio insegnante di disegno: gli impressionisti non ci sarebbero stati se qualcuno non avesse inventato i tubetti in cui conservare i colori, quando dipingevano in plein-air.

Ma per tornare a Coco, una sua frase rimasta celebre è: “la moda passa lo stile resta”; in essa è condensata tutta la sua filosofia di vita, la sua concezione dello spirito modernista, che pure Colette sente fortissimo, ma che spesso in lei è soffocato fra lustrini, busti, svenevolezze, patemi d’animo. La donna di Colette è ancora quella della Belle époque: chi ha visto il film Cherie, tratto da un suo libro e interpretato da Michele Pfiffer, sa cosa voglio dire.

Chanel invece spazza via tutto ciò, libera la donna aprendola al comfort, senza nuocere alla femminilità e al fascino muliebre, anzi esaltandolo. Un capolavoro, quasi la quadratura del cerchio.

Solo ora ce ne rendiamo pienamente conto: al numero 31 di rue Cambon, con aghi, filo e forbici si attua una vera rivoluzione, perché da lì per la prima volta esce la donna nuova, con abiti di linea pura e minimalista, comodi, confezionati con tessuti soffici; esce indossando per la prima volta i pantaloni, calzando scarpe bicolori per snellire le gambe, esce non più pallida e esangue, ma  abbronzata come Coco è abituata a essere fin da ragazza.

Mi immagino questa donna che, con esibita nonchalance, si reca lì vicino, a bere un aperitivo a l’Hotel Ritz, sfoggiando un cappellaccio, trasformato con pochi tocchi magici, nell’oggetto del desiderio. E’un avvenimento quel giorno, ne parlano sottovoce i vecchi camerieri.

Chiamare un profumo con un numero, il 5, e venderlo in un rettangolo di vetro trasparente, è una trasgressione inaudita al gusto dei tempi. Eppure, la società francese, la donna francese, quelle di tutto il mondo si dimostrano pronte a fare questo salto, decretando un successo che fa delle creazioni di Chanel allora e oggi un modello irraggiungibile di buon gusto.

Ancora oggi la maison è presente nella storica sede di rue Cambon, strada borghese ed elegante, di fronte c’è una scuola elementare.

Osservo d’infilata le sue numerose vetrine, sormontate da tende bianche con stampigliato il celebre marchio: due C che si abbracciano.

Non riesco a entrare perché la maison di domenica è chiusa. Percorro allora rue Cambon fino a rue Saint Honoré e da qui al Ritz, in place Vendôme; sosto sotto il portico, oramai immerso nella penombra, catturato dal gioco misterioso delle ombre, stagliate sui vetri illuminati dell’albergo. A Parigi fa buio dopo che da noi in Italia, in quanto siamo notevolmente più a ovest.

Arrivo a Place de la Concorde serenamente aperta nell’ultimo chiarore del giorno, la Senna non si vede, ma si intuisce il fresco umidore dell’acqua, quasi il suo frusciare sotto il ponte. Un batteaux-mouches arranca lontano verso il Pont des Invalides.

Dal lato opposto una figura rapida e snella, quasi un’ombra evanescente, si avvicina, il cappellino che indossa dondola ad ogni suo passo. E’ un cappellino rosso, semplice, ad una falda, proprio come quello che poco prima  ho visto nella vetrina di Coco.

Il cappellino getta sul viso della ragazza un’ombra misteriosa, quando mi scorre a fianco sento un riso sommesso, mi giro, mi interrogo, ma già è passata, è lontana oramai, e anche il profumo che sento, prima che la sera lo disperda, è forse un’illusione.

“Lontano il rimorchiatore ha fischiato, il suo richiamo ha passato il ponte, ancora un’arcata, un’altra, la chiusa, un altro ponte, lontano, più lontano. Chiama a sé tutte le chiatte del fiume, e la città intera e il cielo e la campagna, e noi, tutto si portava via, anche la Senna, tutto…(Celine Viaggio al termine della notte.)
Sugli scogli di Belle Île.

Sarah Bernhardt

Sarah Bernhardt

Le coste della Bretagna sono state un’attrazione irresistibile per i pittori impressionisti, in particolare per Claude Monet, che le dipinge parecchie volte al tramonto, quando la luce soffusa, i riflessi rossastri sul mare, i primi tremori nell’aria grigia, sfumandone i contorni, ne accrescono il fascino.
Anche Sarah Bernhardt, bellissima e celebrata attrice della Comedie Française, la elegge a suo buon ritiro, trovando riparo a Belle Île, piccola isola a poche miglia dalla costa atlantica.
Con Sarah siamo di fronte ad una protagonista di rango, ad un’altra donna di forte e indomabile volontà, magnifica interprete di quegli anni ruggenti.
Sono gli stessi anni in cui Colette conosce il massimo della notorietà e della ricchezza.
Come lei, Sarah ha il riconoscimento della Legion d’onore. Come lei è sessualmente disinibita e dichiaratamente lesbica, ma non disdegna il corteggiamento di uomini del calibro di Gustave Doré o Georges Clairin o dei colleghi attori.

Il suo mito artistico è talmente forte che Marcel Proust, tratteggiando una attrice ne Alla ricerca del tempo perduto, non può che ispirarsi a lei
Quando nel 1906 Sarah si reca in tour a Chicago, il suo tendone non riesce a contenere il flusso incessante di spettatori.
La sua bellezza diventa così proverbiale da ispirare un vivaista a dare il suo nome ad una peonia dagli splendidi petali rosa, ancora oggi molto diffusa.
A questa ambasciatrice della Patria, i francesi riconoscenti nel 1945 posano una lapide ricordo in rue de Médicine, 5, la vedete proprio a fianco dell’ingresso dell’università Paris III.

L’iconografia di Sarah, comprende tutti gli stili e le fogge dell’epoca, essa rende appieno la sua figura e il suo fascino. Assai meno le foto di scena, dove ci appare soffocata dai costumi, a volte di foggia virile, in quanto, come usa allora, alle attrici si affidano anche ruoli maschili.
Ma i suoi più bei ritratti sono, a mio giudizio, le splendide fotografie che le fa Felix Nadar.
Dalla filigrana del bianco e nero, dai fondi neutri virati al color seppia, esce una figura fragile, intensa, spirituale, fissata in un isolamento pensoso, ma straripante di fascino.
Si intuisce come ogni incontro con lei non può che tramutarsi in un avvenimento, destinato a segnare una vita.
Oltre che attrice di teatro si avventura con successo nel primo cinema muto (lei dalla voce considerata divina), scrive soggetti teatrali; oramai menomata (una tubercolosi ossea la costringe all’amputazione di una gamba) continua una intensa vita sociale, testimoniando fino all’ultimo (muore nel 1923 e viene sepolta al Pere Lachaise) l’élan vitale di quegli anni.

Arrivo stanco sull’isola che è pomeriggio inoltrato. Il cielo grigio è solcato da nubi minacciose. Il vento durante la traversata si fa sentire a intermittenza, ricamando l’acqua di spuma bianca.
Esco sul ponte, preferisco espormi al freddo, agli spruzzi gelati, piuttosto che al diluvio di parole di un francese logorroico, giù nella stiva, vero supplizio per le orecchie.
La casa che fu di Sarah è un fortilizio isolato e severo, con finestre a ogiva, in mezzo ad un paesaggio aspro e desolato, quasi a picco sul mare.
Oltre, quando mi affaccio, non vedo spiaggia, ma faraglioni e rocce scure, acque profonde e cupe.
Mi tornano alle mente le immagini di Monet, e trovo la conferma nella dote sovrumana degli artisti di ricreare la realtà, quasi a prescinderne.
Come riesce a fare Claude Debussy nei sui tre schizzi sinfonici intitolati La Mére, arabeschi liquidi frastagliati e diafani, note che si rovesciano con voce ora cristallina ora profonda. Chissà se componendo Claude pensava a questo mare, a questo frastaglio di rocce sotto il cielo incombente.
L’uomo che mi apre, piuttosto anziano, mantiene la testa china, lo sguardo verso terra, torna e sedere, poi indica con la mano il corridoio immerso nel buio.
Mentre salgo si sente il tipico odore di chiuso, di mobili vecchi, di arredi tarlati, di stoffe ammalorate dal tempo.
La stanza da letto è piccola, legno comune alle pareti, la testata del letto in noce è sontuosamente lavorata, ai piedi poggia un pizzo rebodrè, con ricami a boccioli, di un rosa un poco stinto; abiti appesi, cappelliere, tendaggi, oggetti d’uso sono sparsi ovunque, forse per mostrarli alla curiosità del visitatori, quasi sia una mostra di modernariato. Questa stanza avrebbe fatto la gioia di Henry Matisse.
Non mi resta, in quei pochi attimi di raccoglimento, che chiudere gli occhi, e immaginarmi quella stanza come veramente era, o meglio come deve essere ora per non smentirsi, per aiutarmi nello sforzo di vincere l’inganno del cuore e della mente.
“Lasciando a sinistra, al piano rialzato, la camera da letto di Odette…una scala diritta saliva fra pareti dipinte di scuro da cui pendevano stoffe orientali, fili di rosari turchi, e una grande lanterna giapponese appesa ad un cordoncino di seta….L’aveva fatto sedere accanto a sé in uno dei molti
misteriosi recessi che erano disposti nelle rientranze della sala protetti da immense palme contenute in portavasi cinesi, o da paraventi si cui erano appese fotografie, nastri intrecciati e ventagli….Mostrandogli via via certe chimere con la lingua di fuoco dipinte su un vaso o ricamate su un paravento, le corolle di un mazzo di orchidee, un dromedario d’argento niellato con gli occhi incrostati di rubini che stava sul caminetto accanto a un rospo di giada…..” (Marcel Proust: Un amore di Swann, BEN pagg. 65- 66)

Tre donne importanti, tre parigine, diverse ma unite nell’affermare la nascita di un nuovo modo di essere dalla donna all’inizio del 900, tre donne cui il processo di emancipazione femminile deve molto, molto più delle suffragette o delle femministe incazzate e dure, frutto della rivoluzione studentesca degli anni 68-70.
Tre donne, grazie alle quali è stata una intera società a evolvere, a maturare, a progredire. Forse una targa in una strada di Parigi che le accomunasse in questo ricordo non sarebbe del tutto male.

Edith Piaf

Edith Piaf

Madame Lamboukas dite Edith Piaf. 

E’ sepolta nel cimitero delle celebrità al Père Lachaise, Gassion, 97° divisione,viale traverso n. 3 (la tomba si distingue perché è sempre ricoperta di fiori freschi), poco distante dalla tomba di Yves Montand e Simone Signoret, che riposano insieme.
Anche a lei, come già a Colette, vengono rifiutate le esequie religiose perché vissuta in uno stato di pubblica peccatrice, pericolosamente e sempre al massimo.
Una vita di stravizi: nelle schede segnaletiche della polizia troviamo che da ragazzina si prostituiva, dalle parti di Belleville-Mélilmontant o Pigalle; era nota per frequenti episodi di alcoolismo, infine per la dipendenza dalla droga.
Il suo primo impresario, Louis Leplée, gentile e elegante, forse omosessuale, muore assassinato per mano di due (o più?) ragazzi nella propria abitazione: l’episodio è oscuro, Edith è a lungo sospettata di esserne la mandante e la nomea rischia di comprometterne la carriera appena avviata.
Dal 1951 fino alla morte, Edith colleziona quattro incidenti d’auto, un tentato suicidio, quattro cure disintossicanti, una cura del sonno, tre coma epatici, una crisi di follia, due di delirium tremens, sette operazioni, una broncopolmonite.
Quando muore, il 14 ottobre del 1963, il feretro è seguito da oltre 40 mila parigini ( la guida Lonely parla di circa 2 milioni, ma mi sembra esagerato), è all’apice della fama internazionale, ha appena 47 anni ma, corrosa dall’alcool e dalla morfina, sembra la nonna di Théofanis Lamboukas, parrucchiere, in arte Sarapo, sposato appena l’anno prima.
A Théo, il nome d’arte glielo inventa la Piaf, ricordandosi di una parola greca imparata ad Atene tanti anni prima, che significa ti amo (in realtà si dice s’agapò).
Edith nasce nel 1915, lo stesso anno della prima guerra mondiale e quello in cui Einstein pubblica la teoria della relatività generale.
Rue de Belleville 72, pochi gradini grigi, una facciata dimessa, in alto una lapide sporca che dice che lì è nata Edith Piaf. Ma la cosa è controversa. Nel sito ufficiale si dice sia nata all’ospedale de Tenon Porte de Bagnolet.

La sorellastra Simone, detta Momone, che per tanti anni le è accanto, prima complice poi apprensiva sorvegliante, vittima e succube della forte personalità della sorella, nel libro Edith Piaf, una vita una voce, conferma che Edith nasce sotto un lampione a gas, non adagiata in una mangiatoria, ma sulla mantellina di una premurosa guardia del commissariato del vicino rue Ramponneau.
Sia quel che sia, di certo il quartiere multietnico che oggi si apre davanti a voi all’uscita del métro Pyrénee, deve essere all’epoca alquanto malfamato.

Edith cresce secondo lo stile “tragico” di molte figure di artisti di quegli anni: affidata a una nonna alcolizzata, viene poi portata in provincia, a Bernay in Normandia, da parenti tenutari di un bordello.
Ha una cataratta, è praticamente cieca, ma nessuno se ne accorge. Quando lo scoprono, le signorine del bordello si rivolgono a santa Teresa di Lisieux; quando Edith riacquista improvvisamente la vista è il 1921; per prima cosa vede la tastiera di un pianoforte, unico strumento che impara a suonare, pur non conoscendo mai la musica.
Grazie a quel breve periodo di cecità, acquista una sensibilità per il mondo sonoro del tutto particolare: “ i suoni per me hanno forme, visi, gesti, una voce è come le linee di una mano, nessuno ce l’ha uguale a un’altra.
A nove anni è già per le strade di Parigi con il padre acrobata, a quindici è sola con la sorella Momone, conosce la feccia, la prostituzione e inizia le prime, spontanee esibizioni.
Dice in seguito:”il mio conservatorio è la strada. La mia intelligenza è l’istinto”. Scrive Momone: “la strada l’affascinava. Cantare per la strada, a quei tempi, era per noi qualcosa di miracoloso”. Insieme guadagnano bene, certi giorni fino a 300 (vecchi) franchi.
Edith è alta giusto un metro e mezzo, gracile, ampia fronte, capelli arricciati che le incorniciano il volto e che lei alliscia con il sapone, bocca piena, naso delicato.
Si fa notare presto per la voce possente, dal tono drammatico e intenso; uno stile e dei modi che poi diventano di moda, anche in versione colta, nel mondo degli esistenzialisti, di cui un’altra cantante, Juliette Greco diventa un’icona.
Il nome d’arte le è affibbiato dal surricordato Leplée: Piaf vuole dire nell’argot parigino uccellino, ancora un poco implume per la verità: Edith veste, parla, mangia, come una di strada, come una “monella”.
L’incontro con l’ex legionario Raymond Asso cambia tutto. Raymond è un ragazzo dal grande naso e di altrettanto fiuto, che le impone in scena il vestito nero, a maniche lunghe, appena scollato sul biancore del decolté, che diviene presto la divisa di una generazione di donne di un certo tipo: fragili fisicamente, ma generose, passionali. Asso è metodico, preciso, ama Edith, si è messo in testa di farne qualcuna, la migliore nel campo.
La protegge anche dalle sue stesse intemperanze, l’allontana dall’ambiente equivoco di papponi e sbandati in cui è fino allora vissuta, le insegna a stare a tavola, a vestirsi. Educa il suo gusto come donna e come artista.
Fra loro due (come praticamente sempre accade a Edith) c’è la musica, ma anche l’amore. E’ con l’amore i litigi, le scenate, sovente concluse a sberle.
Edith non vuole staccarsi dalla strada: “A Edith quell’ambiente piaceva. Le piacevano i tipi duri, gli uomini veri. Gli uomini sul serio. Non le mezze cartucce, non quelli che si davano l’aria dei dritti ma che in corpo non avevano niente”. Asso questo non lo sopporta, spesso inferocito la insulta: “ Ti vesti come una puttana…T’abbuffi come una troia.. Una bambina di sei anni legge meglio di te”.
Non esiste allora il politicamente corretto e le sberle esprimono solo uno stato d’animo. Spesso sono reciproche, almeno con Edith, esempio precoce, direi sonoro, di parità fra i sessi.

In effetti Edith ha ancora parecchio da imparare, anche in fatto di abbigliamento. Ecco come veste allora: “Edith s’era messo un vestito di velluto, color sipario di teatro, uno scarto che le avevano rifilato, roba da mettersi a urlare, con una pelliccetta grigia di gatto. Si era lisciata i capelli e truccata secondo lo stile dell’epoca: il viso spettrale, le labbra sanguinolente… sembrava un’attrice del muto in un filmato di second’ordine.”
Ha gusto orrendi, rincara la sorella: “ amava i vestiti a piegoline, a volani, i collettoni rossi. Come se nulla fosse si metteva roba blu,viola, verde, gialla, magari tutti i colori insieme.
Temperamento, carisma e talento sono già definiti attorno ai 18 anni, poi potranno solo consolidarsi, rimanendo immutabili fino alla fine.
Ben presto è attorniata da quella corte di amanti, ammiratori, collaboratori, approfittatori che la seguono ovunque. Si dice: ti dirò chi sei se mi dici con chi vai. E le amicizie di Edith non sono tutte anime belle e, soprattutto, dalla fedina penale pulita.
Quanto al carattere è presto detto: prova, se ne hai il coraggio, a dirle di no; definirla autoritaria è glissare, la pazienza è precocemente immigrata dal suo animo, ma, all’occorrenza- sempre quando è nell’acme dell’amore-, sa essere dolce come miele, seduttiva come Marilyn Monroe, infaticabile sul lavoro, severa e scrupolosa nelle prove.
Dimostra poi buone doti organizzative, conosce il mestiere, conosce e ama il suo pubblico: “una canzone è una storia, ma bisogna fare in modo che il pubblico possa crederci. Per il pubblico io sono l’amore. Bisogna che graffi. Bisogna che gridi, il mio personaggio è questo”.
Non lava mai un piatto in vita sua, né lava un vestito: quando è sporco si butta. Mai si occupa dell’arredamento delle sue numerose case; in compenso sa sferruzzare a maglia: a turno tutti i suoi uomini hanno da lei in dono un maglione.
Ricca di quell’istinto che la strada affina, Edith “fin dal primo istante indovina quel che bisogna dire a una persona…quel che la persona vuole sentire. Non sbaglia mai. Per lei la verità è quella che in quel momento le passa per la testa” . Non deve essere un campione di coerenza, ma questo non era e non è richiesto a una cantante (come oggi ai nostri politici).
Conclusioni: per Edith esistono solo cantare e un eterno, fanciullesco innamoramento.
Scrive Momone che gli occhi di Edith innamorata diventano immensi, si fanno ardenti e dolci. E’ l’amore e il suo corpo ne vibra: “..ogni volta che si innamorava, aveva 18 anni, era il primo e l’ultimo amore, quello che ti capita una sola volta, che dura tutta la vita. Ci credeva e ci credevo anch’io. Si scuoteva, Edith. Si rodeva l’anima, era gelosa e possessiva. Urlava, chiudeva a chiave i suoi ragazzi. Era esigente e insopportabile, loro la picchiavano, lei li ingannava. Era impossibile. Per lei l’amore era fatto così.” Sangue e arena, insomma!

Non possiamo dimenticare che Edith è abituata a vivere alla giornata; sono estranei al suo orizzonte grandi valori, impegni sociali, verità incrollabili (riassunti nella triade borghese patria, famiglia, religione). Al di fuori della sua arte per Edith non c’è altro, o meglio, c’è l’amore, ma sono la stessa cosa.
Ciò che nei suoi atteggiamenti o giudizi può apparire futile o cinico, è solamente espressione del senso pratico di chi la vita la conosce in tutta la gamma delle sue crudezze.
Per tutta la sua breve esistenza Edith non si pone in altra prospettiva che vivere alla giornata, gli unici programmi sono quelli delle tournée, dei debutti o delle serate.
Quando si prodiga dal ‘40 al ’44 in serate per le truppe, gli operai e i prigionieri francesi, lo fa sentimentalmente, ricordando i bei ragazzi in divisa, i marinai corteggiati e sedotti attorno a place Pigalle o ai Champs-Elisées. Non dico fosse il suo un patriottismo sotto le lenzuola, ma….
Il suo atteggiamento rispetto alla guerra imminente è così espresso a Mamone nel 1938, l’anno di Monaco: “ non te ne occupare. Non tocca e te fabbricare la storia. Al posto tuo, se uno non se ne infischia, la sconta. E poi non vale la pena di prendersela per queste faccende che non si possono cambiare” .
Non è nel carattere di Edith riflettere sui drammi della guerra, e di Parigi vuole continuare a vedere solo le luci. Diversamente da tanti altri, come testimonia Simone de Beauvoir parlando della vecchia canadienne che perdeva il pelo indossata da Sartre, oppure delle sue scarpe con le suole di legno: “Parigi è gelata, l’albergo non è riscaldato, pare che non ci sia niente da mangiare, fino alla nove della sera è ancora buio e non c’è luce elettrica, i bar alle dieci di sera sono già chiusi, c’è uno squallore tremendo e dappertutto una noia mortale”
Edith, dunque, è chiusa nei suoi amori e concentrata sulla sua arte; ciò non gli impedisce però di lasciare il suo cachet per i prigionieri di guerra, o di aiutare la fuga di un gruppo di essi fornendo loro documenti falsi.
Arriva a guadagnare cifre strepitose, sia in Francia che, finita la guerra, negli USA, dove farà nove trionfali tournée, ma ha le mani bucate. Le capita spesso di non pagare i conti, le tagliano il gas, ma non dà mai peso ai soldi, né modifica la sua vita dispendiosa. Muore lasciando a Theo 40 mila franchi di debiti
“Io canterò sempre, e il giorno che non canterò più sarò crepata….economie mai! Io non sono una borghese. L’avvenire non mi interessa, verrà da sé.”
E’ come se volesse dire: dopo tanta fame e povertà lasciatemi scialacquare! Come dargli torto?
Può sembrare una visione fatalista questa di Edith; in realtà è la voce di una della strada che ha in testa un modello di vita e una visione del mondo diverso da quello corrente e rivendica fedeltà ai suoi valori.
A Maurice Chevalier che, negli ultimi anni di esistenza, le rimprovera affettuosamente la vita disordinata: “Piaf si sta sprecando malamente, mi pare corra verso l’abisso, non fa economia né di forze né di soldi..” (par. 356), risponde secca e folgorante: “ Va bene, sarà un bell’affare per lui pagarsi una bara d’oro. Quel giorno, a me basterà il completo di abete della povera gente. E poi voglio morire giovane. Secondo me è brutto invecchiare, come sono brutte le malattie..”

Dopo Leplée e Asso, sono innumerevoli gli uomini che entrano nella sua orbita, attratti dall’artista, dalla donna, da ultimo dal mito.
Il piano professionale e quello sentimentale sono sempre più intrecciati fra di loro, man mano che Edith cresce come donna e matura come interprete.
Compaiono nella sua vita, per periodi più o meno lunghi, Paul Meurisse, il bel indifférent, che recita con lei in una pièce scritta appositamente da Jean Cocteau; Yves Montand, che lanciato da Edith è destinato in breve a una folgorante carriera come cantante e attore; il pugile Marcel Cerdan, un amore spezzato da un incidente aereo alla fine del 1949; Eddie Constantine, Jacques Pills, che diventa suo marito, Charles Aznavour, altra sua creatura artistica, Claude Figus, e tanti altri.
Viene ben presto dipinta come mangiatrice d’omini, una sorta di ninfomane pronta ad accogliere chi capita nel suo letto.
“Ha sempre avuto bisogno di trovare un uomo a casa. Questo per lei era un punto fermo”, conferma Momone.
Ma non certo un uomo qualsiasi, anche quando la cosa durava lo spazio di una notte.
L’aspetto fisico conta, ma Edith cerca sempre personaggi, talenti, gente con passioni forti, sentimenti rudemente espliciti, meglio se ingenuamente manifestati.
L’assenza di un padre, di una educazione famigliare certo hanno potuto influire sui comportamenti di Edith; non compare, ad esempio, nelle sue parole la dimensione del rimorso, né tantomeno di pentimento, per quegli anni vissuti pericolosamente. Un bacio e una carezza non sono mai per lei un peccato, se accompagnate dal sentimento. In ciò la sua visione è estremamente evoluta, emancipata, laica diremo oggi, come lo era stata per Colette, prima di lei.
Le due donne, fra l’altro, si conoscevano, anche se non si frequentavano. C’è una foto che le ritrae insieme: è il giugno del 1952, Edith è premiata col Grand Prix de l’Accadémie du Disque. Colette è membro della giuria, già inchiodata sulla sua sedia a rotelle.

Ma, sul rapporto di Edith con gli uomini, ecco di seguito alcune delle sue massime:
“Una casa senza un uomo non è possibile. E’ peggio di una giornata senza sole”.
“Un uomo lo conosci solo dopo che lo hai provato a letto. Una notte di materasso serve più di un mese di discorsi per capire che tipo è un uomo” .
Sembra di sentire la maggiorata americana Mae West, invece sono le parole di uno scricciolo di donna, alta un metro e cinquanta.
Per mantenersi creativa e non lasciarsi sopraffare dalla depressione, Edith ha bisogno di un amor costante e quando l’ultimo si affievolisce va subito ravvivato sostituendolo con un altro. E’ sempre lei che decide quando il momento è arrivato. Allora, sa essere imperativa e anche spietata. Sentitela:
“Una donna che si lascia incastrare è una povera scema. Gli uomini non mancano mai, ne sono piene le strade. Solo che il sostituto non bisogna trovarselo dopo, bisogna trovarselo prima. Se succede dopo, la fregata sei tu; se prima, fregato è lui. E’ una differenza importante!” .
In realtà ai suoi uomini Edith lascia a tutti un buon ricordo, mantiene negli anni un buon rapporto, se necessario li aiuta e li incoraggia. Forse è la prima a rendersi conto di quanto sia impossibile vivere con lei, con le sue ossessioni, la violenta gelosia, la folle pretesa di doversi annullare in lei, da ultimo lo squallore dell’alcolismo, le menzogne e i sotterfugi della droga.
“Viveva tutto- annota Momone- fino in fondo, con la follia di quelli acrobati che si fermano soltanto quando cadono. Viveva come se dovesse morire l’indomani”.
Ma lei è così , non può essere differente e non fa nulla per nasconderlo. Prendere o lasciare.
A riprova del sentimento di affetto e gratitudine che Edith suscita in chi ne diventava amico, bastano due brani, uno di Eddie Costantine, il secondo di Cocteau, che tratteggia gli aspetti più poetici della sua arte.
“Mi ha insegnato tutto, a me come ad altri. Tutto su come deve stare in scena un cantante. Mi ha dato fiducia in me stesso, perché io non ne avevo. Mi ha dato il desiderio di lottare, perché io, al contrario, mi lasciavo andare. Perché diventassi qualcuno, mi ha fatto credere di essere qualcuno” .
“Guardate questa personcina le cui mani sono quelle della lucertola sui muri diroccati. Guardate la sua fronte bonapartesca, i suoi occhi di cieco che ha appena riacquistata la vista. Come canterà? Come si esprimerà? Come riuscirà a fare uscire dal suo petto esiguo i grandi lamenti della notte? Ed eccola che canta, o meglio, alla maniera dell’usignolo in aprile, prova il suo canto d’amore. Avete sentita la fatica dell’usignolo? Pena. Esita. Stride. Si strozza. Si slancia, ricade. E all’improvviso trova. Vocalizza. Sconvolge.”

Ma cosa resta, dopo quasi 50 anni dalla morte, dell’arte della Piaf? Che posto occupa ancora nella cultura musicale francese? Che dire di lei, come donna?
Edith si è ispirata fin dall’inizio alle grandi stars dei music-hall di allora: Marie Dubas, Frébel, Yvonne Georges, Damia.
Ben presto lascia il repertorio urlato, di periferia, da marciapiede. Già nel 1939, sotto la guida di Asso, al suo debutto all’A.B.C., locale di gran voga, sfodera lo stile che la rende inimitabile: “Sentii una specie di onda percorrere il pubblico. Questa donnetta, un po’ di sghembo, quasi povera, con quel abituccio corto…..col suo bel viso di miseria, bianco come la luce, e quella voce che conteneva tutto: la loro felicità, la loro gioia, i loro cuori… tutto questo li toccava, direttamente, in pieno” .
L’immedesimazione fra interprete e donna è la base di ogni ispirazione, del modo stesso di porgere la canzone.
Gli autori a lei cari sono quelli del suo ambiente, quelli del bidour-bar, quelli che conoscono la sua storia e vivono della sua voce.
Per Edith deve essere facile, in fondo canta, a volte scrive, di cose che sa, che ha conosciute:la vita di strada, l’amore non ricambiato, solitudine e morte, ma senza toni melensi, senza quell’autocommiserazione, che avrebbero reso le sue interpretazioni meno autentiche.
Più difficile è liberarsi dall’autobiografia e riuscire a trasmettere sentimenti ed emozioni che tutti possano capire, immedesimandosi, perché solo questa è la grande arte. Non solo, quindi, sfoggio di mezzi tecnici, sorretto magari da uno stile personale, destinato però inevitabilmente a uscire fuori moda, a non incontrare più nel tempo i gusti della gente.
A Edith Piaf questo salto di qualità riesce, è stata unica a fare della voce uno strumento espressivo quasi teatrale, che si alimenta direttamente all’aggrovigliarsi dei sentimenti, delle tragedie personali, ai drammi dell’esistenza.
Quando muore è conosciuta universalmente, la canzone francese non è che lei, al di qua e al di là dell’Atlantico. Ci sono è vero altri importanti chansonnier, come Jacques Brel, Georges Brassens, Léo Ferré, ma di quel mondo, senza lei, non si parlerebbe forse più.

C’è stata anche, prima di Edith, un’altra grande donna a calcare le scene delle Folies-bergére e del Moulin Rouge: è Mistinguett. Ma è altra cosa, e non solo perché nata nell’800.
Per l’esattezza nel 1875, anche lei donna di cattive abitudini, anche lei una presenza magnetica per la quale Parigi perde la testa, così come la perde, smarrendola per un decennio, il giovane Maurice Chevalier.
Diversamente da Edith Piaf, però, Mistinguett più che una voce è soprattutto una presenza.
Donna magnifica, due bellissime gambe, fotogenica. Così ci appare nei ritratti del solito Nadar, il fotografo di moda allora a Parigi.
Con questi attributi (tutti naturali e non da chirurgia estetica, beninteso) Mistinguett viene inevitabilmente attratta dal cinema, dove interpreta decine, forse centinaia di film.
Diffondendosi la sua fama però è come se perdesse di intensità, di concentrazione, come se si diluisse in una genericità inautentica, l’esatto contrario di quanto succede a Edith Piaf.

Ma per tornare a Edith, non tutto il repertorio regge alla distanza, certi toni melò, per quanto contestualizzati, sono francamente eccessivi; così i modi “stentorei” di cantare; affiora una certa ingenuità di temi, affidati a linee melodiche con effetti o arrangiamenti che il nostro orecchio musicale oggi rifiuta.
Non si creda, d’altronde, che l’intero repertorio sia giocato attorno al legionnaire, alle histoires de coeur, o a j’m’en fous pas mal o all’Hymne a l’amour.
Ascoltate i brani registrati con i Compagnons de la Chanson(365): ci sono allegria, il gioco e i paradossi dell’amore, refrain dallo spirito goliardico in cui pare quasi di sentire: in fondo “sono solo canzonette”.

Ciò precisato, il repertorio della Piaf, inteso come documento storico-musicale di quegli anni regge ancora molto bene. Restituisce molto del clima di allora, aiuta a comprendere delle attese e delle speranze di quelle generazioni, al pari o forse meglio di opere di artisti, scrittori o filosofi francesi di quegli anni, magari più complesse ed ambiziose. Chi parla oggi, ad esempio, di Sartre ?
Nel libro Piaf-Cerdan di Dominique Gramault-Patrick Mahé ( Rusconi, pag. 26) si riporta un omaggio alla cantante con queste parole:”Nata nella strada, cresciuta sul pavé, è come una reincarnazione dei Misteri di Parigi. E’ un’eroina di Victor Hugo, una senza famiglia, una senza legge, una cicala che canta la sua Parigi ingenua e poetica. Il suo palazzo è l’intera Parigi, con le sue strade dove chiedeva l’elemosina per il padre, e dove incontra i suoi amori. Come nel lamento, i suoi amori sono infelici, li canta per liberarsene. E’ qualcosa di più di una interprete dell’universo doloroso e romanzesco. Ne è la testimonianza. Piaf rende eloquente la disgrazia. E’ la più grande cantante popolare del nostro tempo.”
A queste parole, certo di circostanza ma in fondo corrette, aggiungo un dato che ancora oggi commuove e conserva grande nella nostra considerazione questa donna: il coraggio e la coerenza avute, il grande amore che l’ha unita al suo pubblico, fino alla fine, tanto che possiamo dire sia praticamente morta sul palcoscenico.
Nell’ultima sua recita la trasportano letteralmente sul palco, la sorreggono fin sotto il microfono:
“Al levarsi del sipario, comparve in scena una figurina nera, con il volto enfiato dagli antibiotici, una specie di marionetta carnevalesca acconciata come Edith Piaf. Grottesca e tragica. Moribonda e delirante insieme…. Fu un combattimento atroce: la lotta di questa donnina contro il male. Voleva donare al pubblico quel poco di vita che le restava, e il pubblico capiva e l’incoraggiava. Fra le quinte avevamo tutti le lacrime agli occhi.”.
Al medico dell’ospedale di Menton che le vietava di cantare per non suicidarsi, aveva risposto:
“E’ un suicidio che mi piace. Il mio!” Monella fino all’ultimo.

Resta da dire se sia oggi a Parigi possibile risentire quei suoni e assaporarne l’atmosfera.
Consiglio alcuni locali musicalmente più ortodossi o che coltivano forme musicali tradizionali fra tutti lo Chez Louisette (metro Port de Vignancourt), nell’area del mercato delle pulci a Saint-Ouen, oppure Le Limonarie, al 18 di cité Bergère (metro Grands Boulevards), piccolo wine bar dove si spende poco, con lo spettacolo che inizia alle 22.
E’ possibile anche consultare uno dei siti a lei dedicati, vi consiglio quello dalla Hall de la Chanson – Las conquêtes de Piaf, molto ben fatto, dove potrete sentirla intervistata, leggere la sua biografia, ascoltarla cantare.

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