Il lavoro editoriale mi ha portato spesso a contatto con il mondo dell’arte e talvolta, come un cortocircuito, mi viene di accomunare figure e momenti tra loro lontani, sull’onda di warburghiane consonanze e contiguità non percepite o non rilevanti al primo impatto. Esempio: pittori scrittori: Kandinskij, Klee, de Chirico.
Tutti e tre, nel giro di un decennio, tra il 1896 e il 1906, approdano, per la loro educazione artistica, alla Akademie der Bildenden Künste di Monaco di Baviera. I primi due, arrivati a breve distanza, si avvalgono della guida del direttore dell’accademia Franz von Stuck, ma il nume tutelare, da poco scomparso, è sempre Arnold Böcklin.
Il primo di questo fantastico trio di cui mi è dato di occuparmi è Klee. Siamo verso la fine degli anni 50, al Saggiatore di Alberto Mondadori, dove sono arrivato da pochi mesi. Klee è un pittore di cui molto si parla, ma poco conosciuto e capito.
Argan propone di pubblicare nell’imminente 1960, nel ventesimo anniversario della sua scomparsa, i suoi Diari 1898-1918: una novità assoluta, per iniziativa del figlio Felix, che contravviene alle riserve del padre, che gli aveva impedito anche solo di prenderne visione, in considerazione del fatto che ormai la sua arte è diventata «oggetto di attenzione di tutto il mondo occidentale». Ma non basta: Argan, che aggiunge una sua prefazione alla nostra edizione, affianca ai Diari una monografia di Will Grohmann sui meravigliosi Disegni e Debenedetti, nella Biblioteca delle Silerchie, pubblica di Clement Greenberg un breve Saggio su Klee, definito «il più filosofico, il più lirico e musicale di tutti i pittori moderni». Filosofia, lirica e musica sono in effetti tra gli ingredienti principali dei Diari, uno zibaldone, di volta in volta registro di eventi quotidiani; racconto di formazione; rendiconto in progress delle stagioni di una prodigiosa creatività, dei generi e delle tecniche; playlist vertiginosa degli eventi musicali, teatrali e cabarettistici di tutta Europa, che manco Arbasino. La musica in particolare lo riguarda sia come spettatore che come esecutore, in quanto violinista della Orchestra di Berna e in formazioni cameristiche.
Conclusa l’esperienza dell’«inutile» accademia («eseguo sonate di Bach. Cos’è Böcklin al confronto?»), pensa alla sua formazione, prima di affrontare il mercato. Oltre all’imprescindibile Viaggio in Italia, compiuto reggendo in mano, come un breviario, Il Cicerone di Burkhardt, c’è il Viaggio a Tunisi, immersione nel colore mediterraneo e felice approdo all’acquerello dopo la fase grafica, assieme a Macke.
Il primo incontro con la scrittura di Kandinskij è stato invece un saggio introduttivo al suo volume, Contrappunti, nell’ambito della collana saggiatoriana “Acquerelli”, che accoglieva anche opere di Klee, Nell’interregno, Macke, Viaggio a Tunisi, e Marc, Indivisibile bellezza.
Qualche decennio dopo, alla Bompiani, mi è riuscito di pubblicare, sia pure su licenza temporanea dell’editrice SE, Lo spirituale dell’arte, un testo che, al di là delle sue istanze teoriche sull’ “arte nuova”, ha influenzato la nostra percezione dei colori, dopo Goethe, prima di Itten e di Pastoureau, offrendone un sagace profilo identitario.
Per parlare della sua arte, approda anche alla rivista «Valori plastici» lanciata nel 1920 con una Prefazione di Giorgio de Chirico. Come non ricordare dell’artista Kandinskij le incredibili esperienze vissute attraverso due guerre mondiali, la Rivoluzione Russa di cui, senza mai prendere la tessera del partito, è stato un autorevole artefice della politica culturale nel tempo della gloriosa Avanguardia e, infine, bersaglio di punta dell’oltraggio nazista con la mostra 1937 dell’Arte Degenerata nella “sua” Monaco!
In una lettera del 28 febbraio 1941 ad Alberto Savinio (assente in questo contesto perché “troppo” scrittore) Valentino Bompiani scrive: «Un’altra lieta coincidenza: ieri sera mi sono messo d’accordo con Giorgio de Chirico per la stampa di Ebdòmero».
Nelle righe precedenti informava Savinio di essere riuscito a convincere Arnoldo Mondadori a rinunciare all’opzione pregressa, così che il prolifico fratello di Giorgio diventa, tra guerra e dopoguerra, autore di punta della Bompiani. Ebdòmero esce l’anno successivo, tredici anni dopo la prima edizione in lingua francese (1929) che aveva stupito e conquistato Parigi, dove ormai de Chirico si chiamava Sciricò. Con questo romanzo, ritenuto un capolavoro della letteratura surrealista, de Chirico compie un’operazione analoga a quella che Kandinskij aveva prodotto in forma saggistica: rendere conto della poetica della propria arte attraverso la scrittura (Riccardo Dottori ne bene rilevato le affinità nel suo saggio, Giorgio de Chirico. Immagini metafisiche).
Ebdòmero è ora disponibile, con un’introduzione di Fabio Benzi, pubblicato dalla Nave di Teseo, nell’ambito di un programma avviato con Paolo Picozza, presidente della Fondazione Isa e Giorgio de Chirico, che prevede la pubblicazione dell’Opera Omnia del Maestro.
Memorie della mia vita è il best-long-seller che de Chirico pubblica appena finita la seconda guerra mondiale. La prima volta che ce ne siamo occupati, alla fine degli anni 90 allora alla Bompiani, a Elisabetta Sgarbi brillavano gli occhi nel ricordo degli spontanei cenacoli letterari nella casa di Ro Ferrarese, ai quali assisteva in disparte, forse nemmeno considerata per la giovane età, e di cui le Memorie erano un Leitmotiv. E non solo, credo, per il languore delle contadine tra gli effluvi della canapa macerata nei campi circostanti, il pane a coppia ferrarese, gli oggetti delle vetrine del ghetto, i biscotti, il Castello Estense, la stazione e i treni, De Pisis e Previati, la noia della naia militare con l’infido Carrà e l’amatissimo fratello Alberto. La sua visione critica dell’arte moderna si esprime qui tra ironia e furore, come le reiterate invettive contro la trimurti Cezanne Van Gogh Gauguin, e magari simpatizza per Derain. Irresistibile il racconto dei goffi tentativi di Roberto Longhi, Il Nemico, di evitare di incrociarlo, quando già in vista, per le vie di Firenze. Quanto al narcisismo esibito del Pictor Optimus, si può dire che la sua formazione nietzscheana non conosce frontiere.
Articolo di Mario Andreose per il Corriere della sera
In copertina:Paul Klee, Cat and Bird, 1928, The Museum of Modern Arts, New York
Senza pietre di paragone/ né pretese di perfezione/ se ragiono/ a tono/ funziono/ a una condizione/ diventare ciò che sono/ non chi impersono”
E’ nato giusto 90 anni fa, in bilico fra il Capricorno e l’Aquario, Alberto Arbasino. Una vita lunga e ricca di incontri, anche memorabili, che tratteggia in questa vecchia intervista di Malcom Pagani che vale la pena di riprendere, facendo al professore i migliori auguri.
Viene dalla laboriosa provincia lombarda, inizia una carriere universitaria come giurista, che poi abbandona per la letteratura e il giornalismo. Mente fina, palato difficile, una raffinatezza d’insieme che nei saggi raggiunge i suoi migliori risultati. Ancora oggi Parigi o cara! si legge con partecipazione.
Pur refrattario
all’elaborazione di un saggio sul maleducato da carrozza: “Il tempo è prezioso
e la tolleranza costa già un notevole sforzo”, Alberto Arbasino soffre treni,
scompartimenti e vicini ciarlieri. “Prendere le cosiddette vetture silenziose,
che poi tanto silenziose non sono, è un’accortezza inutile”. Parlano tutti ad
alta voce: “Dei fatti loro, dell’intimo, del personale”.
E il vento caldo delle
sue piccole vacanze in Spagna: “Andavamo alle Baleari. Ibiza era meravigliosa e
Formentera non era altro che una lingua di sabbia tagliata dal taxi che ci
portava da un lato all’altro dell’isola per il pranzo” o “i flautisti da
giardino che ascoltavo d’estate dall’ammezzato di una delle mie prime case
romane” non tornano a visitare la stagione dei suoi 84 anni.
Luglio è quasi a metà,
sulla terrazza il fico ha foglie di un verde innaturale e Arbasino indossa la camicia
color kaki di chi sa come attraversare il suo deserto: “Di sera esco ancora
volentieri, anche se scivolare dalla Via Veneto prefelliniana alla cena in
Piazza Navona, non mi accadrà più. Con Ercolino Patti, Sandro De Feo e Cesare
Brandi succedeva spesso. Cesare aveva un piccolo pied-à-terre e dopo una
giornata di lavoro casalinga non covava il desiderio della minestrina nel
tinello.
Così si usciva in gruppo
e si stava insieme fino alle due di notte. Mi stupivo. Lavoravano come ossessi
e scrivevano senza sosta, ma non rinunciavano a vivere. Ridursi male comunque
era difficile. Non tralignavamo mai. Un bicchiere, forse due. Si beveva il
giusto, con moderazione”. Della grande casa con le sue iniziali sulla porta,
conosce oro, incenso e giacimenti.
Quando cerca nella
biblioteca un volume di De Chirico: “Me lo regalò lui in Via della Vite, in
fondo ci sono anche delle note a penna”, insegue un nome sulla Garzantina:
“L’editore fiorentino di cui le parlavo era Carocci”, sventa l’attentato dell’ospite
superando agile uno zaino sulla moquette o rimpiange con discrezione la
mancanza di un computer: “Non lo possiedo, per alfabetizzarsi è tardi, ma ne
sento la mancanza”, Arbasino denuncia il perpetuo movimento che dalla fine
degli anni 50, immobile non l’ha fatto mai restare.
Anche se i baffi di
quando intervistava Borges sono un ricordo fotografico, è nell’autoscatto del
tempo che fu: “Self-made man di origini decadenti (nato a Voghera nel 1930,
rinato a Roma nel 1957) con la tentazione di vivere come se. Cioè come se
abitassimo una società civilissima, illuminata e cosmopolita…” e nei versi
ancora attualissimi di Super-Eliogabalo: “Senza pietre di paragone/ né pretese
di perfezione/ se ragiono/ a tono/ funziono/ a una condizione/ diventare ciò
che sono/ non chi impersono” che Arbasino può vantare la curiosità di chi
ha guardato il mondo senza curarsi delle “ultime novità”.
Lo stile nemico della
semplificazione: “Per far contenti tutti e raggiungere le edicole degli
areoporti non si può rinunciare all’ambiguità, alla notte, al mistero,
all’oscurità”. L’amicizia con Agnelli: “Ci vedevamo spesso, dietro la sua
raffinatezza pulsavano frequentazioni e lezioni erudite, Mario Tazzoli, Luigi
Carluccio e Franco Antonicelli che alle signore di Voghera consigliava di
servire i cioccolatini in coppe di cristallo”.
Il mondo dell’avvocato
come ouverture per altri 92 splendidi e diseguali Ritratti italiani raccolti
per Adelphi. Ironia, affinità elettive, distanze e convergenze di Arbasino con
i pensatori del suo tempo si allineano sotto l’ombrello di un illusorio ordine
alfabetico. Sono volti, echi e disegni di passato senza data. Incontri con
imprenditori, registi e letterati. Quadri non sovrapponibili.
Cornici di un’età
irripetibile. Sulla parete d’ingresso, nel tratto grasso di un pennarello nero,
uno schizzo che Pasolini donò allo scrittore durante un’intervista: “Arbasino,
in un atto di industria culturale (abbietto, naturalmente)”. Gli zigomi duri, nota
Arbasino: “Sono i suoi” come la freccia che Pasolini indirizza a se stesso: “Io
mentre aspetto che scriva le domande a cui nobilmente rispondere”.
Lei
arriva a Roma negli anni Cinquanta.
Avevo poco più di
vent’anni e non la pensavo diversamente da Paul Nizan: ‘Non permetterò a
nessuno di dire che è la più bella età della vita’. Quando si parla di Arcadia
bisognerebbe essere cauti. In Italia la ricostruzione era a buon punto, ma ci
sembrava comunque un’epoca noiosissima, una lunga stagione morta.
Sfogandosi
con lei, Pasolini parla di un “ridicolo decennio”.
È un decennio di
paradossi e contraddizioni. Di ultimi fuochi, di cambiamenti, di libera
sessualità dietro le dune e le pinete e di libri straordinari. Lo osservavo, lo
criticavo, lo subìvo il decennio dei ’50, poi adocchiavo la letteratura e mi
chiedevo: ‘Come è possibile?’. Di mese in mese, anzi di giorno in giorno, in
libreria era una festa. Il Pasticciaccio gaddiano, Menzogna e Sortilegio, Il
Disprezzo e La noia, gli ultimi due romanzi veramente belli di Moravia.
Glielo
disse che erano gli ultimi?
Con Alberto ce ne facemmo
e dicemmo di cotte e di crude. Da ragazzo era antipatico. Da uomo maturo
dispettoso, prepotente ed eccessivamente prono al partito. In vecchiaia ci
rappattumammo. Non ripeteva più ‘uffa uffa’ con severo cipiglio, ma in
trattoria, davanti alle pere cotte, gridava: ‘Semo tutti peracottari’. Gli era
venuta voglia di ridere. È superfluo dirlo, ma mi manca moltissimo, non solo
nell’ultima veste giocosa.
Eravate
entrambi permalosi?
Lui sicuramente. Io mai,
altrimenti non sarei arrivato fin qui. Alberto era ispido ed era capace
di lunghissimi silenzi. Quando compì settant’anni gli portai 7
fazzolettini da Parigi. Aveva il vezzo di annodarli al collo e mi impegnai
nell’acquisto. Li avevo cercati con perizia: grandi marche, colori magnifici,
confezione adeguata. Li soppesò e poi disse: ‘Li conosco, a Roma li chiamano
strangolini’.
Faceva
parte degli intellettuali suscettibili?
Lui no, ma non mancavano.
C’erano persone che non tolleravano neanche l’afrore del giudizio critico e si
adombravano se non si ragionava delle loro opere dal superlativo in su. In
supporto non mancavano mai teorie di corifei. Gente che generosamente si
prestava all’equivoco: ‘Chi osa mettersi contro da oggi in poi non è
credibile’, ‘Chi non capisce è sciocco’, ‘Chi non si spella le mani è un
buzzurro’.
Di
Antonioni, incline all’offesa, lei scrive cose non tenere.
Con intuizione corretta,
Antonioni fotografava tedio, imbecillità e incomprensioni sentimentali della
società europea sottoposta all’industrializzazione forzata. Metteva sotto la
lente quel disagio che i milanesi bramarono di provare nell’istante immediatamente
successivo all’edificazione del primo grattacielo cittadino. Ma nel suo cinema,
la pretesa letteraria si risolveva in bozzetti incongrui e programmatici. La
serietà con cui agghindava i suoi improbabili personaggi, le mezze calzette
elevate a paradigma del Paese, involontariamente comica. Passata la sbornia e
svanito l’equivoco, in effetti, si rise.
Altro
moloch dal carattere puntuto, Luchino Visconti.
In lui la componente
populistica e quella dannunziana convivevano contribuendo all’essenza di un
Visconti che nel retropalco e nell’isolamento sembravano esattamente la stessa
persona. Uno che ideologicamente pendeva per il proletariato, detestava la
classe media e respirava circondato dallo sfarzo. Un signorotto di geniale
talento, ben allevato da genitori che lo portarono alla Scala fin da bambino,
con una sua corte di zelantissimi sottomessi, affannati nell’eseguirne gli
ordini. Frequentarlo annoiava e addolorava. Giovanni Testori, un caro amico,
era sfruttato malamente. Sul versante teatrale poi, anche se gli dobbiamo
spettacoli sommi come Anna Bolena e La sonnambula, l’elenco di quelli infelici
ha voci in quantità. A un certo punto, anche dal loggione, prevalse lo strepito
collettivo: ‘Che palle’.
In
“Ritratti italiani”, parole liete sono riservate a Giorgio De Chirico.
Era unico. Straordinario.
Diverso da chiunque altro. Avvertiva l’estraneità al mondo circostante,
viveva al passato remoto, si sentiva inadeguato persino all’allegro, innocuo
circo di Piazza di Spagna. De Chirico abitava a pochi passi dalla filiale della
Banca Commerciale Italiana e temeva di essere costantemente rapinato da
briganti e mascalzoni. ‘Ho paura sia a ritirare che a depositare’ mi diceva e
io: ‘Maestro, perdoni, ma che razza di traffico ha con questa banca?’.
Il
denaro per lei è stato importante?
Non troppo, ma ho sempre
considerato ovvio essere pagato per scrivere: il mio lavoro. Nel ’67, ai tempi
de Il Giorno di Italo Pietra, un ex comandante partigiano che ben conoscevo per
antichi vincoli familiari e che dei suoi anni universitari a Pavia amava dire:
‘Ballavamo il Charleston e traducevamo Sofocle meglio degli altri’, mi
trasferii in un amen al Corriere Della Sera. A Il Giorno mi pagavano
regolarmente, ma da anni collaboravo senza l’ombra di un contratto.
All’ennesimo rinvio della questione mi spostai in Via Solferino. Un problema
simile lo ebbi anche a Repubblica. Ero stato eletto deputato con il Partito
Repubblicano e l’amministrazione del giornale fu laconica: ‘Un contratto con un
deputato non si fa’.
Divenne
deputato nel 1983.
Me lo chiesero due fior
di personaggi come Giovanni Spadolini e Bruno Visentini. Una volta con
Visentini si andava a Treviso. Lui si trasformava, parlava in dialetto e
diventava incomprensibile. Di preferenza litigava con uno scrittore autoctono
che però dal trevigiano si era emancipato. Aveva viaggiato. Quando si
incontravano non c’era facezia che non li accendesse in discussioni infinite.
Niente
a che vedere con la timidezza di Gadda e Manganelli.
Manganelli, uno scrittore
sublime, era schivo. Lo incontravi al ristorante, in una sala appartata,
avviluppato in se stesso. Mandava l’ambasciata di un cameriere per
salutarti, poi si raccomandava: ‘Non dire a nessuno che mi hai visto’. Gadda
era diverso. Me lo ricordo su una mia vecchia spider con Bonsanti sul sedile
posteriore.
Terrorizzato dalle curve
e con la mano sul freno, Gadda era pronto a intervenire. Una sera, tornando
dalla proiezione de La Bella di Lodi, chiese di fermarsi all’Hilton di Monte
Mario. Si impelagò in un discorso da ingegnere sugli ascensori con un altro
ingegnere, il fratello di Fabrizio Clerici. Tecnicismi da ossessi che
evaporarono in un istante quando all’orizzonte si scorse la sagoma di un
prelato.
Gadda, l’uomo che vestiva
in blu, non dimenticava mai la camicia bianca e certe discutibili cravatte
acquistate in uno spaccio di Via della Mercede, all’improvviso si illuminò:
‘Così dovevo nascere. Essere americano, farmi prete e vivere in un grande
albergo bevendo succo d’arancia’. Erano anni curiosi. Anni in cui gli uomini
non sapevano farsi la barba e Mimì Piovene, di casa a San Giovanni, si
lamentava: ‘Sono diventata la barbiera del Laterano’.
Di
Umberto Eco ha scritto: “Costruiva oggetti complessi che agli incolti mettevano
paura”.
È vero e fu un’operazione
di rara intelligenza. Con i libri di Eco, laureati e laureandi scoprivano la
complessità dell’esistenza in maniera abbastanza semplice. Il successo fu
assoluto. L’attenzione della critica, sacrale. Non a caso, da allora e per
sempre, Eco ha fatto il fornitore di oggetti apparentemente complessi.
Le è
simpatico?
Simpaticissimo. Anzi,
simpaticissimi. Lui e la moglie.
Il
verbo di Eco inizia a imporsi nei ’70.
Un decennio abbastanza
atroce. Si viveva sulla retorica del ’68 rapidamente diventata una retorica tremenda.
A San Francisco c’erano i figli dei fiori, in Europa gli assassini. In
California, con gli spazi larghi tra i palazzi, i prati e la sensazione di
libertà, la spinta a delinquere era anestetizzata dal contesto. Da noi in
fondo, in ambiti più asfittici, l’agguato era nell’aria e la storia fosca dei
Guelfi e dei Ghibellini, dei Montecchi e dei Capuleti, non faceva altro che
ripetersi.
Altra
icona dei ’70, Nanni Moretti. Nel suo ritratto si sostiene che il regista sia
privo di cinismo.
Il cinico non perde tempo
a deplorare il proprio cinismo con malspeso rovello. Moretti è un cuor d’oro
sempre animato dal senso civico e dal bisogno di stare dalla parte giusta. Il
rischio moralismo, quando si vuole essere educati, corretti e civici, c’è. Il
ritratto del perfetto moralista, in certi film in cui il nostro porta in scena
se stesso, anche.
Se
scrivere è un lavoro, leggere che cos’è?
È un altro lavoro. Va
compensato. Costa fatica. Non a caso non ho letto i libri che partecipavano al
premio Strega.
Nessuno?
Nessuno. Neanche per
sogno. Chi mi paga? Nei libri dello Strega di quest’anno non mi viene in mente
nulla che valesse l’aggravio della lettura.
Perché?
Per la stessa identica
ragione per la quale se sul giornale vedo gesti normali insigniti delle nove
colonne, mamme che mettono lo zucchero nel caffè o profeti che pensano di
stupire usando la parola cazzo, giro pagina. Non me ne importa niente. Non mi
vien voglia di leggere. Tanti anni fa non si usavano letterariamente gli
antichi sapori o le ricette della nonna mescolandole impunemente con le
malattie del papà o l’agonia della mamma.
C’erano libri diversi.
Scrittori migliori. Il proprio minuscolo io o il proprio ombelico non erano
ritenuti validi motivi per sbarcare in libreria e anche se le chiese politiche
erano più invadenti di oggi, c’era più understatement anche nella presa di
posizione. Se si esclude il Pci, non pulsavano le maldestre voglie di
appartenenza e la conclamata aderenza al nuovo progetto politico sul tavolo che
oggi rendono impossibile qualsiasi sfumatura. C’è una percepibile ansia di
salire sul carro. Consiglierei prudenza, magari il carro si rivela meno solido
del previsto.
È un
problema culturale?
Ma la cultura è un affare
bizzarro. Come ho scritto in Ritratti italiani, di fronte al rotocalchismo,
quella vera sparisce. Basta un lieve sospetto e non la si trova più. Pensare
che in un’epoca lontana sorridevamo dell’ingenuità di Carlo Ponti, un
produttore che a differenza degli epigoni contemporanei, a Milano aveva
studiato davvero. Nell’ufficio all’Ara Coeli, oltre il suo tavolo, teneva la
Pléiade con la costa della copertina rivolta verso l’interlocutore. Ci
chiedevamo: ‘Ma se volesse leggerla lui, che periplo dovrebbe fare per raggiungere
il sapere?’.
È
sparita anche la letteratura italiana?
Si è deciso a tavolino
che i best-seller dovessero essere al livello del fruitore. E così, una volta
abbattuto il gusto a colpi di orrori, visto l’apprezzamento per il buco della
serratura di stampo familiare, via libera ai sapori, alle ricette della nonna,
ai lutti e alle corsie d’ospedale. Vendono moltissimo. Sono un prodotto da
banco. Uno shampoo. Un codice in più nello scontrino del supermercato. Forse
sono più alternativo, io.
Sull’affezione
premiologica della letteratura italiana lei montò uno speciale per la Rai in
epoca non sospetta.
Più della liturgia dello
Strega, non ho dimenticato Casa Bellonci. I corridoi strapieni di libri, lo
spazio totalmente colonizzato dai volumi, una cosa da restare sbalorditi. Per
la Rai in effetti assemblai un’ora e mezza di premi nazionali da Venezia a
Firenze. C’era un ritmo serrato e allo spettatore sembrava si trattasse di un
unico premio.
L’intento era quello.
Quando andai da Maria Bellonci spiegandole che non avrebbe potuto parlare per
più di 30 secondi quasi mi rise in faccia: ‘Ho bisogno di più tempo’. Si cambiò
10 volte, il risultato era inverosimile. Maria vestita da donna, da uomo, a
pois. Divertentissimo. Lei lo sapeva. Era una furbona.
È furba
anche una letteratura in cui l’intimo dolore sfiora la pornografia?
Furba sicuramente,
pornografica non so, certamente irrilevante. Come può affascinarmi il calvario
della prozia? Il ‘sapesse quanto abbiamo sofferto signora mia?’. Vabbè, anche
se c’è chi non si diverte e gli scrittori danno l’impressione di divertirsi
poco, signora mia sarà contentissima.
Il mare senza il solito blu, gli scogli (delle Eolie) come punte di coltello, gli interni delle case come gabbie interiori intrise di segni strabici, gli sguardi e i gesti inquieti e tormentati di Monica Vitti e di Lea Massari.
Antonioni con Monica Vitti
Immagine tratta da Deserto Rosso
Immagine del film Zabriskie Point
Pochi giorni ancora (fino a domenica 7 febbraio) per lasciarsi trasportare nei luoghi complessi della mente, nel taglio chiaro e vivido che fa del ferrarese Michelangelo Antonioni (1912-2007) il più potente (non a tutti digeribile, ma alla lunga il vincitore, il vero padre della modernità cinematografica) esploratore della visione di un mondo non indifferente alla psicologia umana ed alle potenzialità di ogni espressione visiva.
Gabriele Ferzetti e Monica Vitti nel film L’avventura
Presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna, a Roma “I 400 scatti”, una selezione di immagini realizzate dal fotografo di scena Enrico Appetito, tra il 1959 e il 1964, sui set dei quattro film di Antonioni dedicati alla “malattia dei sentimenti“ o “tetralogia dell’incomunicabilità”: L’ avventura (1959-60), La notte (1961), L’eclisse (1962) e Il deserto rosso(1964).
Immagini scelte tra le più intense di un percorso di complicità con il regista, gli attori e i paesaggi, che ha consentito ad Appetito di cogliere attimi, sensazioni, ironie e ansie. Gli scatti ingranditi e scanditi per film sottolineano quella preveggenza così nitida che non può che infastidire, decenni prima che ci si accorga quanto lo sfacelo, culturale, politico e psichico abbia ridotto in macerie il mondo intero.
Antonioni lo fa da subito e per tutta la vita, centrando l’obiettivo anche quando non sembra, con la descrizione puntigliosa del nei contesti architettonici più disparati, dimostrando che da un “ovunque possibile”, che sia isola, mare, deserto, centro storico, corridoio di un treno, chiesa o palazzo elegante, non si sfugge alla propria lacera identità, ai dolori, anche quelli inutili, che colgono impreparati, alle immagini dense e silenti dell’arte –che ci aiutano solo in parte –a districare i fili di un’esistenza inquieta e da un futuro che volge alla deriva.
Anche in questo caso (la mostra interdisciplinare di Palazzo dei Diamanti di Ferrara, nel 2013, poi esportata a Parigi, ha fatto scuola) non vi è solo una carrellata di scatti e brani di film, ma il rimando tra arte, cinema e fotografia è onnipresente. Le immagini fotografiche vengono messe in relazione con dipinti e sculture dei maestri dell’avanguardia italiana ed europea del Novecento.
Spunti di spazi mentali che riconducono alla base visionaria di ogni singolo film, passando non per le parole, ma attraverso le immagini, ovvero la sostanza da cui quasi tutta la sua opera prende forma.
Opera di Massimo Campigli
Opera di Giorgio De Chirico
Opera di Mario Sironi
Nella trilogia raccontata da Appetito, la pittura italiana contemporanea è fondamentale fonte d’ispirazione: affiorano ricordi delle piazze di De Chirico e molte delle composizioni di Morandi e le citazioni di Campigli e Sironi. Viene svelata la parabola creativa (a cura di Antonio Passa e Marco Maria Gazzano) accostandola a opere (appartenenti alla collezione della Galleria) di alcuni di questi colossi del Novecento, creando un dialogo diretto tra film e pittura, come Giorgio Morandi, Lucio Fontana, Giorgio De Chirico, Alberto Burri, Mimmo Rotella, Emilio Vedova, Giorgio Turcato e Jean Fautrier.
Infine – anzi per prima, quasi come un omaggio – la bellezza e la bravura senza confini di Monica Vitti, che illuminò il percorso artistico e biografico di Antonioni in quegli anni cruciali.
Articolo di Claudia Colasanti per il “Fatto Quotidiano” 3 febbraio 2016