EBDOMERO DI SCIRICO’

EBDOMERO DI SCIRICO’

Il lavoro editoriale mi ha portato spesso a contatto con il mondo dell’arte e talvolta, come un cortocircuito, mi viene di accomunare figure e momenti tra loro lontani, sull’onda di warburghiane consonanze e contiguità non percepite o non rilevanti al primo impatto. Esempio: pittori scrittori: Kandinskij, Klee, de Chirico.

Tutti e tre, nel giro di un decennio, tra il 1896 e il 1906, approdano, per la loro educazione artistica, alla Akademie der Bildenden Künste di Monaco di Baviera. I primi due, arrivati a breve distanza, si avvalgono della guida del direttore dell’accademia Franz von Stuck, ma il nume tutelare, da poco scomparso, è sempre Arnold Böcklin.

Il primo di questo fantastico trio di cui mi è dato di occuparmi è Klee. Siamo verso la fine degli anni 50, al Saggiatore di Alberto Mondadori, dove sono arrivato da pochi mesi. Klee è un pittore di cui molto si parla, ma poco conosciuto e capito.

Paul Klee: KN il fabbro), 1922, Musée d’art moderne, Centre Pompidou, Paris

Argan propone di pubblicare nell’imminente 1960, nel ventesimo anniversario della sua scomparsa, i suoi Diari 1898-1918: una novità assoluta, per iniziativa del figlio Felix, che contravviene alle riserve del padre, che gli aveva impedito anche solo di prenderne visione, in considerazione del fatto che ormai la sua arte è diventata «oggetto di attenzione di tutto il mondo occidentale». Ma non basta: Argan, che aggiunge una sua prefazione alla nostra edizione, affianca ai Diari una monografia di Will Grohmann sui meravigliosi Disegni e Debenedetti, nella Biblioteca delle Silerchie, pubblica di Clement Greenberg un breve Saggio su Klee, definito «il più filosofico, il più lirico e musicale di tutti i pittori moderni». Filosofia, lirica e musica sono in effetti tra gli ingredienti principali dei Diari, uno zibaldone, di volta in volta registro di eventi quotidiani; racconto di formazione; rendiconto in progress delle stagioni di una prodigiosa creatività, dei generi e delle tecniche; playlist vertiginosa degli eventi musicali, teatrali e cabarettistici di tutta Europa, che manco Arbasino. La musica in particolare lo riguarda sia come spettatore che come esecutore, in quanto violinista della Orchestra di Berna e in formazioni cameristiche.

Paul Klee

Conclusa l’esperienza dell’«inutile» accademia («eseguo sonate di Bach. Cos’è Böcklin al confronto?»), pensa alla sua formazione, prima di affrontare il mercato. Oltre all’imprescindibile Viaggio in Italia, compiuto reggendo in mano, come un breviario, Il Cicerone di Burkhardt, c’è il Viaggio a Tunisi, immersione nel colore mediterraneo e felice approdo all’acquerello dopo la fase grafica, assieme a Macke.

Il primo incontro con la scrittura di Kandinskij è stato invece un saggio introduttivo al suo volume, Contrappunti, nell’ambito della collana saggiatoriana “Acquerelli”, che accoglieva anche opere di Klee, Nell’interregno, Macke, Viaggio a Tunisi, e Marc, Indivisibile bellezza.

Qualche decennio dopo, alla Bompiani, mi è riuscito di pubblicare, sia pure su licenza temporanea dell’editrice SE, Lo spirituale dell’arte, un testo che, al di là delle sue istanze teoriche sull’ “arte nuova”, ha influenzato la nostra percezione dei colori, dopo Goethe, prima di Itten e di Pastoureau, offrendone un sagace profilo identitario.

Per parlare della sua arte, approda anche alla rivista «Valori plastici» lanciata nel 1920 con una Prefazione di Giorgio de Chirico. Come non ricordare dell’artista Kandinskij le incredibili esperienze vissute attraverso due guerre mondiali, la Rivoluzione Russa di cui, senza mai prendere la tessera del partito, è stato un autorevole artefice della politica culturale nel tempo della gloriosa Avanguardia e, infine, bersaglio di punta dell’oltraggio nazista con la mostra 1937 dell’Arte Degenerata nella “sua” Monaco!

Giorgio de Chirico

In una lettera del 28 febbraio 1941 ad Alberto Savinio (assente in questo contesto perché “troppo” scrittore) Valentino Bompiani scrive: «Un’altra lieta coincidenza: ieri sera mi sono messo d’accordo con Giorgio de Chirico per la stampa di Ebdòmero».

Nelle righe precedenti informava Savinio di essere riuscito a convincere Arnoldo Mondadori a rinunciare all’opzione pregressa, così che il prolifico fratello di Giorgio diventa, tra guerra e dopoguerra, autore di punta della Bompiani. Ebdòmero esce l’anno successivo, tredici anni dopo la prima edizione in lingua francese (1929) che aveva stupito e conquistato Parigi, dove ormai de Chirico si chiamava Sciricò. Con questo romanzo, ritenuto un capolavoro della letteratura surrealista, de Chirico compie un’operazione analoga a quella che Kandinskij aveva prodotto in forma saggistica: rendere conto della poetica della propria arte attraverso la scrittura (Riccardo Dottori ne bene rilevato le affinità nel suo saggio, Giorgio de Chirico. Immagini metafisiche).

Ebdòmero è ora disponibile, con un’introduzione di Fabio Benzi, pubblicato dalla Nave di Teseo, nell’ambito di un programma avviato con Paolo Picozza, presidente della Fondazione Isa e Giorgio de Chirico, che prevede la pubblicazione dell’Opera Omnia del Maestro.

Memorie della mia vita è il best-long-seller che de Chirico pubblica appena finita la seconda guerra mondiale. La prima volta che ce ne siamo occupati, alla fine degli anni 90 allora alla Bompiani, a Elisabetta Sgarbi brillavano gli occhi nel ricordo degli spontanei cenacoli letterari nella casa di Ro Ferrarese, ai quali assisteva in disparte, forse nemmeno considerata per la giovane età, e di cui le Memorie erano un Leitmotiv. E non solo, credo, per il languore delle contadine tra gli effluvi della canapa macerata nei campi circostanti, il pane a coppia ferrarese, gli oggetti delle vetrine del ghetto, i biscotti, il Castello Estense, la stazione e i treni, De Pisis e Previati, la noia della naia militare con l’infido Carrà e l’amatissimo fratello Alberto. La sua visione critica dell’arte moderna si esprime qui tra ironia e furore, come le reiterate invettive contro la trimurti Cezanne Van Gogh Gauguin, e magari simpatizza per Derain. Irresistibile il racconto dei goffi tentativi di Roberto Longhi, Il Nemico, di evitare di incrociarlo, quando già in vista, per le vie di Firenze. Quanto al narcisismo esibito del Pictor Optimus, si può dire che la sua formazione nietzscheana non conosce frontiere.

Articolo di Mario Andreose per il Corriere della sera

In copertina:Paul Klee, Cat and Bird, 1928,  The Museum of Modern Arts, New York

Senza pietre di paragone

Senza pietre di paragone

Senza pietre di paragone/ né pretese di perfezione/ se ragiono/ a tono/ funziono/ a una condizione/ diventare ciò che sono/ non chi impersono”

E’ nato giusto 90 anni fa, in bilico fra il Capricorno e l’Aquario, Alberto Arbasino. Una vita lunga e ricca di incontri, anche memorabili, che tratteggia in questa vecchia intervista di Malcom Pagani che vale la pena di riprendere, facendo al professore i migliori auguri.

Viene dalla laboriosa provincia lombarda, inizia una carriere universitaria come giurista, che poi abbandona per la letteratura e il giornalismo. Mente fina, palato difficile, una raffinatezza d’insieme che nei saggi raggiunge i suoi migliori risultati. Ancora oggi Parigi o cara! si legge con partecipazione.

Alberto Arbasino giovane

Pur refrattario all’elaborazione di un saggio sul maleducato da carrozza: “Il tempo è prezioso e la tolleranza costa già un notevole sforzo”, Alberto Arbasino soffre treni, scompartimenti e vicini ciarlieri. “Prendere le cosiddette vetture silenziose, che poi tanto silenziose non sono, è un’accortezza inutile”. Parlano tutti ad alta voce: “Dei fatti loro, dell’intimo, del personale”.

E il vento caldo delle sue piccole vacanze in Spagna: “Andavamo alle Baleari. Ibiza era meravigliosa e Formentera non era altro che una lingua di sabbia tagliata dal taxi che ci portava da un lato all’altro dell’isola per il pranzo” o “i flautisti da giardino che ascoltavo d’estate dall’ammezzato di una delle mie prime case romane” non tornano a visitare la stagione dei suoi 84 anni.

arbasino
Alberto Arbasino

Luglio è quasi a metà, sulla terrazza il fico ha foglie di un verde innaturale e Arbasino indossa la camicia color kaki di chi sa come attraversare il suo deserto: “Di sera esco ancora volentieri, anche se scivolare dalla Via Veneto prefelliniana alla cena in Piazza Navona, non mi accadrà più. Con Ercolino Patti, Sandro De Feo e Cesare Brandi succedeva spesso. Cesare aveva un piccolo pied-à-terre e dopo una giornata di lavoro casalinga non covava il desiderio della minestrina nel tinello.

Così si usciva in gruppo e si stava insieme fino alle due di notte. Mi stupivo. Lavoravano come ossessi e scrivevano senza sosta, ma non rinunciavano a vivere. Ridursi male comunque era difficile. Non tralignavamo mai. Un bicchiere, forse due. Si beveva il giusto, con moderazione”. Della grande casa con le sue iniziali sulla porta, conosce oro, incenso e giacimenti.

Alberto Moravia

Quando cerca nella biblioteca un volume di De Chirico: “Me lo regalò lui in Via della Vite, in fondo ci sono anche delle note a penna”, insegue un nome sulla Garzantina: “L’editore fiorentino di cui le parlavo era Carocci”, sventa l’attentato dell’ospite superando agile uno zaino sulla moquette o rimpiange con discrezione la mancanza di un computer: “Non lo possiedo, per alfabetizzarsi è tardi, ma ne sento la mancanza”, Arbasino denuncia il perpetuo movimento che dalla fine degli anni 50, immobile non l’ha fatto mai restare.

Giorgio De Chirico: autoritratto col fratello Alberto Savinio

Anche se i baffi di quando intervistava Borges sono un ricordo fotografico, è nell’autoscatto del tempo che fu: “Self-made man di origini decadenti (nato a Voghera nel 1930, rinato a Roma nel 1957) con la tentazione di vivere come se. Cioè come se abitassimo una società civilissima, illuminata e cosmopolita…” e nei versi ancora attualissimi di Super-Eliogabalo: “Senza pietre di paragone/ né pretese di perfezione/ se ragiono/ a tono/ funziono/ a una condizione/ diventare ciò che sono/ non chi impersono” che Arbasino può vantare la curiosità di chi ha guardato il mondo senza curarsi delle “ultime novità”.

Lo stile nemico della semplificazione: “Per far contenti tutti e raggiungere le edicole degli areoporti non si può rinunciare all’ambiguità, alla notte, al mistero, all’oscurità”. L’amicizia con Agnelli: “Ci vedevamo spesso, dietro la sua raffinatezza pulsavano frequentazioni e lezioni erudite, Mario Tazzoli, Luigi Carluccio e Franco Antonicelli che alle signore di Voghera consigliava di servire i cioccolatini in coppe di cristallo”.

Visconti con la sorella alla Colombaia Ischia

Il mondo dell’avvocato come ouverture per altri 92 splendidi e diseguali Ritratti italiani raccolti per Adelphi. Ironia, affinità elettive, distanze e convergenze di Arbasino con i pensatori del suo tempo si allineano sotto l’ombrello di un illusorio ordine alfabetico. Sono volti, echi e disegni di passato senza data. Incontri con imprenditori, registi e letterati. Quadri non sovrapponibili.

Cornici di un’età irripetibile. Sulla parete d’ingresso, nel tratto grasso di un pennarello nero, uno schizzo che Pasolini donò allo scrittore durante un’intervista: “Arbasino, in un atto di industria culturale (abbietto, naturalmente)”. Gli zigomi duri, nota Arbasino: “Sono i suoi” come la freccia che Pasolini indirizza a se stesso: “Io mentre aspetto che scriva le domande a cui nobilmente rispondere”.

Carlo Emilio Gadda

Lei arriva a Roma negli anni Cinquanta.

Avevo poco più di vent’anni e non la pensavo diversamente da Paul Nizan: ‘Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita’. Quando si parla di Arcadia bisognerebbe essere cauti. In Italia la ricostruzione era a buon punto, ma ci sembrava comunque un’epoca noiosissima, una lunga stagione morta.

Sfogandosi con lei, Pasolini parla di un “ridicolo decennio”.

È un decennio di paradossi e contraddizioni. Di ultimi fuochi, di cambiamenti, di libera sessualità dietro le dune e le pinete e di libri straordinari. Lo osservavo, lo criticavo, lo subìvo il decennio dei ’50, poi adocchiavo la letteratura e mi chiedevo: ‘Come è possibile?’. Di mese in mese, anzi di giorno in giorno, in libreria era una festa. Il Pasticciaccio gaddiano, Menzogna e Sortilegio, Il Disprezzo e La noia, gli ultimi due romanzi veramente belli di Moravia.

Glielo disse che erano gli ultimi?

Umberto Eco

Con Alberto ce ne facemmo e dicemmo di cotte e di crude. Da ragazzo era antipatico. Da uomo maturo dispettoso, prepotente ed eccessivamente prono al partito. In vecchiaia ci rappattumammo. Non ripeteva più ‘uffa uffa’ con severo cipiglio, ma in trattoria, davanti alle pere cotte, gridava: ‘Semo tutti peracottari’. Gli era venuta voglia di ridere. È superfluo dirlo, ma mi manca moltissimo, non solo nell’ultima veste giocosa.

Eravate entrambi permalosi?

Lui sicuramente. Io mai, altrimenti non sarei arrivato fin qui. Alberto era ispido ed era capace di lunghissimi silenzi. Quando compì settant’anni gli portai 7 fazzolettini da Parigi. Aveva il vezzo di annodarli al collo e mi impegnai nell’acquisto. Li avevo cercati con perizia: grandi marche, colori magnifici, confezione adeguata. Li soppesò e poi disse: ‘Li conosco, a Roma li chiamano strangolini’.

Maria Bellonci

Faceva parte degli intellettuali suscettibili?

Lui no, ma non mancavano. C’erano persone che non tolleravano neanche l’afrore del giudizio critico e si adombravano se non si ragionava delle loro opere dal superlativo in su. In supporto non mancavano mai teorie di corifei. Gente che generosamente si prestava all’equivoco: ‘Chi osa mettersi contro da oggi in poi non è credibile’, ‘Chi non capisce è sciocco’, ‘Chi non si spella le mani è un buzzurro’.

Di Antonioni, incline all’offesa, lei scrive cose non tenere.

Maria Bellonci

Con intuizione corretta, Antonioni fotografava tedio, imbecillità e incomprensioni sentimentali della società europea sottoposta all’industrializzazione forzata. Metteva sotto la lente quel disagio che i milanesi bramarono di provare nell’istante immediatamente successivo all’edificazione del primo grattacielo cittadino. Ma nel suo cinema, la pretesa letteraria si risolveva in bozzetti incongrui e programmatici. La serietà con cui agghindava i suoi improbabili personaggi, le mezze calzette elevate a paradigma del Paese, involontariamente comica. Passata la sbornia e svanito l’equivoco, in effetti, si rise.

Michelangelo Antonioni

Altro moloch dal carattere puntuto, Luchino Visconti.

In lui la componente populistica e quella dannunziana convivevano contribuendo all’essenza di un Visconti che nel retropalco e nell’isolamento sembravano esattamente la stessa persona. Uno che ideologicamente pendeva per il proletariato, detestava la classe media e respirava circondato dallo sfarzo. Un signorotto di geniale talento, ben allevato da genitori che lo portarono alla Scala fin da bambino, con una sua corte di zelantissimi sottomessi, affannati nell’eseguirne gli ordini. Frequentarlo annoiava e addolorava. Giovanni Testori, un caro amico, era sfruttato malamente. Sul versante teatrale poi, anche se gli dobbiamo spettacoli sommi come Anna Bolena e La sonnambula, l’elenco di quelli infelici ha voci in quantità. A un certo punto, anche dal loggione, prevalse lo strepito collettivo: ‘Che palle’.

Louis Borges

In “Ritratti italiani”, parole liete sono riservate a Giorgio De Chirico.

Era unico. Straordinario. Diverso da chiunque altro. Avvertiva l’estraneità al mondo circostante, viveva al passato remoto, si sentiva inadeguato persino all’allegro, innocuo circo di Piazza di Spagna. De Chirico abitava a pochi passi dalla filiale della Banca Commerciale Italiana e temeva di essere costantemente rapinato da briganti e mascalzoni. ‘Ho paura sia a ritirare che a depositare’ mi diceva e io: ‘Maestro, perdoni, ma che razza di traffico ha con questa banca?’.

Il denaro per lei è stato importante?

Non troppo, ma ho sempre considerato ovvio essere pagato per scrivere: il mio lavoro. Nel ’67, ai tempi de Il Giorno di Italo Pietra, un ex comandante partigiano che ben conoscevo per antichi vincoli familiari e che dei suoi anni universitari a Pavia amava dire: ‘Ballavamo il Charleston e traducevamo Sofocle meglio degli altri’, mi trasferii in un amen al Corriere Della Sera. A Il Giorno mi pagavano regolarmente, ma da anni collaboravo senza l’ombra di un contratto. All’ennesimo rinvio della questione mi spostai in Via Solferino. Un problema simile lo ebbi anche a Repubblica. Ero stato eletto deputato con il Partito Repubblicano e l’amministrazione del giornale fu laconica: ‘Un contratto con un deputato non si fa’.

Bruno Visentini

Divenne deputato nel 1983.

Me lo chiesero due fior di personaggi come Giovanni Spadolini e Bruno Visentini. Una volta con Visentini si andava a Treviso. Lui si trasformava, parlava in dialetto e diventava incomprensibile. Di preferenza litigava con uno scrittore autoctono che però dal trevigiano si era emancipato. Aveva viaggiato. Quando si incontravano non c’era facezia che non li accendesse in discussioni infinite.

Niente a che vedere con la timidezza di Gadda e Manganelli.

Manganelli, uno scrittore sublime, era schivo. Lo incontravi al ristorante, in una sala appartata, avviluppato in se stesso. Mandava l’ambasciata di un cameriere per salutarti, poi si raccomandava: ‘Non dire a nessuno che mi hai visto’. Gadda era diverso. Me lo ricordo su una mia vecchia spider con Bonsanti sul sedile posteriore.

Giorgio Manganelli

Terrorizzato dalle curve e con la mano sul freno, Gadda era pronto a intervenire. Una sera, tornando dalla proiezione de La Bella di Lodi, chiese di fermarsi all’Hilton di Monte Mario. Si impelagò in un discorso da ingegnere sugli ascensori con un altro ingegnere, il fratello di Fabrizio Clerici. Tecnicismi da ossessi che evaporarono in un istante quando all’orizzonte si scorse la sagoma di un prelato.

Gadda, l’uomo che vestiva in blu, non dimenticava mai la camicia bianca e certe discutibili cravatte acquistate in uno spaccio di Via della Mercede, all’improvviso si illuminò: ‘Così dovevo nascere. Essere americano, farmi prete e vivere in un grande albergo bevendo succo d’arancia’. Erano anni curiosi. Anni in cui gli uomini non sapevano farsi la barba e Mimì Piovene, di casa a San Giovanni, si lamentava: ‘Sono diventata la barbiera del Laterano’.

Di Umberto Eco ha scritto: “Costruiva oggetti complessi che agli incolti mettevano paura”.

È vero e fu un’operazione di rara intelligenza. Con i libri di Eco, laureati e laureandi scoprivano la complessità dell’esistenza in maniera abbastanza semplice. Il successo fu assoluto. L’attenzione della critica, sacrale. Non a caso, da allora e per sempre, Eco ha fatto il fornitore di oggetti apparentemente complessi.

Le è simpatico?

Simpaticissimo. Anzi, simpaticissimi. Lui e la moglie.

Umberto Eco con la moglie Renate Ramge

Il verbo di Eco inizia a imporsi nei ’70.

Un decennio abbastanza atroce. Si viveva sulla retorica del ’68 rapidamente diventata una retorica tremenda. A San Francisco c’erano i figli dei fiori, in Europa gli assassini. In California, con gli spazi larghi tra i palazzi, i prati e la sensazione di libertà, la spinta a delinquere era anestetizzata dal contesto. Da noi in fondo, in ambiti più asfittici, l’agguato era nell’aria e la storia fosca dei Guelfi e dei Ghibellini, dei Montecchi e dei Capuleti, non faceva altro che ripetersi.

Altra icona dei ’70, Nanni Moretti. Nel suo ritratto si sostiene che il regista sia privo di cinismo.

Il cinico non perde tempo a deplorare il proprio cinismo con malspeso rovello. Moretti è un cuor d’oro sempre animato dal senso civico e dal bisogno di stare dalla parte giusta. Il rischio moralismo, quando si vuole essere educati, corretti e civici, c’è. Il ritratto del perfetto moralista, in certi film in cui il nostro porta in scena se stesso, anche.

Se scrivere è un lavoro, leggere che cos’è?

È un altro lavoro. Va compensato. Costa fatica. Non a caso non ho letto i libri che partecipavano al premio Strega.

Nessuno?

Nessuno. Neanche per sogno. Chi mi paga? Nei libri dello Strega di quest’anno non mi viene in mente nulla che valesse l’aggravio della lettura.

Carlo Ponti con Sophia Loren

Perché?

Per la stessa identica ragione per la quale se sul giornale vedo gesti normali insigniti delle nove colonne, mamme che mettono lo zucchero nel caffè o profeti che pensano di stupire usando la parola cazzo, giro pagina. Non me ne importa niente. Non mi vien voglia di leggere. Tanti anni fa non si usavano letterariamente gli antichi sapori o le ricette della nonna mescolandole impunemente con le malattie del papà o l’agonia della mamma.

C’erano libri diversi. Scrittori migliori. Il proprio minuscolo io o il proprio ombelico non erano ritenuti validi motivi per sbarcare in libreria e anche se le chiese politiche erano più invadenti di oggi, c’era più understatement anche nella presa di posizione. Se si esclude il Pci, non pulsavano le maldestre voglie di appartenenza e la conclamata aderenza al nuovo progetto politico sul tavolo che oggi rendono impossibile qualsiasi sfumatura. C’è una percepibile ansia di salire sul carro. Consiglierei prudenza, magari il carro si rivela meno solido del previsto.

È un problema culturale?

Ma la cultura è un affare bizzarro. Come ho scritto in Ritratti italiani, di fronte al rotocalchismo, quella vera sparisce. Basta un lieve sospetto e non la si trova più. Pensare che in un’epoca lontana sorridevamo dell’ingenuità di Carlo Ponti, un produttore che a differenza degli epigoni contemporanei, a Milano aveva studiato davvero. Nell’ufficio all’Ara Coeli, oltre il suo tavolo, teneva la Pléiade con la costa della copertina rivolta verso l’interlocutore. Ci chiedevamo: ‘Ma se volesse leggerla lui, che periplo dovrebbe fare per raggiungere il sapere?’.

È sparita anche la letteratura italiana?

Si è deciso a tavolino che i best-seller dovessero essere al livello del fruitore. E così, una volta abbattuto il gusto a colpi di orrori, visto l’apprezzamento per il buco della serratura di stampo familiare, via libera ai sapori, alle ricette della nonna, ai lutti e alle corsie d’ospedale. Vendono moltissimo. Sono un prodotto da banco. Uno shampoo. Un codice in più nello scontrino del supermercato. Forse sono più alternativo, io.

Sull’affezione premiologica della letteratura italiana lei montò uno speciale per la Rai in epoca non sospetta.

Più della liturgia dello Strega, non ho dimenticato Casa Bellonci. I corridoi strapieni di libri, lo spazio totalmente colonizzato dai volumi, una cosa da restare sbalorditi. Per la Rai in effetti assemblai un’ora e mezza di premi nazionali da Venezia a Firenze. C’era un ritmo serrato e allo spettatore sembrava si trattasse di un unico premio.

L’intento era quello. Quando andai da Maria Bellonci spiegandole che non avrebbe potuto parlare per più di 30 secondi quasi mi rise in faccia: ‘Ho bisogno di più tempo’. Si cambiò 10 volte, il risultato era inverosimile. Maria vestita da donna, da uomo, a pois. Divertentissimo. Lei lo sapeva. Era una furbona.

È furba anche una letteratura in cui l’intimo dolore sfiora la pornografia?

Furba sicuramente, pornografica non so, certamente irrilevante. Come può affascinarmi il calvario della prozia? Il ‘sapesse quanto abbiamo sofferto signora mia?’. Vabbè, anche se c’è chi non si diverte e gli scrittori danno l’impressione di divertirsi poco, signora mia sarà contentissima.

Malcom Pagani per il “Fatto quotidiano” del 14 luglio 2014

Antonioni

Antonioni

 

Antonioni

Il regista Michelangelo Antonioni

Il mare senza il solito blu, gli scogli (delle Eolie) come punte di coltello, gli interni delle case come gabbie interiori intrise di segni strabici, gli sguardi e i gesti inquieti e tormentati di Monica Vitti e di Lea Massari.

 

Antonioni vitti

Antonioni con Monica Vitti

Deserto rosso

Immagine tratta da Deserto Rosso

zabrinskie point

Immagine del film Zabriskie Point

Pochi giorni ancora (fino a domenica 7 febbraio) per lasciarsi trasportare nei luoghi complessi della mente, nel taglio chiaro e vivido che fa del ferrarese Michelangelo Antonioni (1912-2007) il più potente (non a tutti digeribile, ma alla lunga il vincitore, il vero padre della modernità cinematografica) esploratore della visione di un mondo non indifferente alla psicologia umana ed alle potenzialità di ogni espressione visiva.

 

Avventura vitti ferzetti

Gabriele Ferzetti e Monica Vitti nel film L’avventura

Presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna, a Roma “I 400 scatti”, una selezione di immagini realizzate dal fotografo di scena Enrico Appetito, tra il 1959 e il 1964, sui set dei quattro film di Antonioni dedicati alla “malattia dei sentimenti“ o “tetralogia dell’incomunicabilità”: L’ avventura (1959-60), La notte (1961), L’eclisse (1962) e Il deserto rosso(1964).

 

Immagini scelte tra le più intense di un percorso di complicità con il regista, gli attori e i paesaggi, che ha consentito ad Appetito di cogliere attimi, sensazioni, ironie e ansie. Gli scatti ingranditi e scanditi per film sottolineano quella preveggenza così nitida che non può che infastidire, decenni prima che ci si accorga quanto lo sfacelo, culturale, politico e psichico abbia ridotto in macerie il mondo intero.appetito fotografo

 

Antonioni lo fa da subito e per tutta la vita, centrando l’obiettivo anche quando non sembra, con la descrizione puntigliosa del nei contesti architettonici più disparati, dimostrando che da un “ovunque possibile”, che sia isola, mare, deserto, centro storico, corridoio di un treno, chiesa o palazzo elegante, non si sfugge alla propria lacera identità, ai dolori, anche quelli inutili, che colgono impreparati, alle immagini dense e silenti dell’arte –che ci aiutano solo in parte –a districare i fili di un’esistenza inquieta e da un futuro che volge alla deriva.

 

Anche in questo caso (la mostra interdisciplinare di Palazzo dei Diamanti di Ferrara, nel 2013, poi esportata a Parigi, ha fatto scuola) non vi è solo una carrellata di scatti e brani di film, ma il rimando tra arte, cinema e fotografia è onnipresente. Le immagini fotografiche vengono messe in relazione con dipinti e sculture dei maestri dell’avanguardia italiana ed europea del Novecento.

 

Spunti di spazi mentali che riconducono alla base visionaria di ogni singolo film, passando non per le parole, ma attraverso le immagini, ovvero la sostanza da cui quasi tutta la sua opera prende forma.

campigli

Opera di Massimo Campigli

de chirico

Opera di Giorgio De Chirico

sironi

Opera di Mario Sironi

Nella trilogia raccontata da Appetito, la pittura italiana contemporanea è fondamentale fonte d’ispirazione: affiorano ricordi delle piazze di De Chirico e molte delle composizioni di Morandi e le citazioni di Campigli e Sironi. Viene svelata la parabola creativa (a cura di Antonio Passa e Marco Maria Gazzano) accostandola a opere (appartenenti alla collezione della Galleria) di alcuni di questi colossi del Novecento, creando un dialogo diretto tra film e pittura, come Giorgio Morandi, Lucio Fontana, Giorgio De Chirico, Alberto Burri, Mimmo Rotella, Emilio Vedova, Giorgio Turcato e Jean Fautrier.

Infine – anzi per prima, quasi come un omaggio – la bellezza e la bravura senza confini di Monica Vitti, che illuminò il percorso artistico e biografico di Antonioni in quegli anni cruciali.

Articolo di Claudia Colasanti per il “Fatto Quotidiano” 3 febbraio 2016

 

 

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