I TRE GIANNI

I TRE GIANNI

Affettuoso ritratto di Gianni Clerici, che ha appena compiuto 90 anni. Il confronto con Brera e Mura svela un mondo di scrittori sportivi colti e originali, eclettici e mordaci, generosi di critiche come di ritratti esaltanti.

Infatti, c’ è stato un Gianni, Brera, aedo major del calcio e del ciclismo e dopo di lui un altro Gianni, Mura, cantore, aggiornato al nuovo millennio, delle storie di cuoio e delle pagine gialle del Tour.

 Il meglio del cantautorato nostrano sta dentro l’ opera dei due Lucio, Battisti e Dalla, la più elevata letteratura dello sport si è condensata tra le rughe e l’ inchiostro purissimo versato dai “tre Gianni”.

Così ora, l’ aznavouriano «ed io tra di voi», potrebbe intonarlo lui, lo Scriba massimo del tennis, Gianni Clerici. Il terzo Gianni c’ è, vive e lotta con noi dalla sua casa sul lago di Como, e in questo tempo impoetico e virale, venerdì schiaccia sotto la rete dei 90 anni.

I nove aurei decenni de «l’ uomo del tennis», come ebbe a salutarlo frettolosamente nel salotto letterario del Bagutta la sua madrina Maria Bellonci, forse ignara del giudizio dato dall’ altra Maria, la somma filologa Corti che, allo stile linguistico clericiano riconosceva il crisma idiomatico del “lombardese”.

Ma se per uno sprezzante Umberto Eco «Brera è un Gadda spiegato al popolo », per noi Clerici è un dandy alla Dorian Gray letto dall’ alta società, misto a un più popolare Giorgio Bassani da pagina di quotidiano (ha cominciato al Giorno nel 1956, proseguendo per Repubblica fino ad oggi). Discendente diretto del vate del “prototennis”, l’ abate Antonio Scaino da Salò che, alla corte degli estensi, nella Ferrara del tennista-scrittore Bassani, diede alle stampe il trattato cinquecentesco Del giuoco della palla. Caposaldo arricchito e completato dal suo monumentale ed esaustivo 500 anni di Tennis.

Clerici storico, certo, enciclopedico diderotiano, ma dotato da sempre di sublimi smash narrativi, (da leggere l’ ultimo romanzo 2084 La dittatura delle donne; Baldini + Castoldi, pagine 135, euro 16,00) quanto di scavalcanti lob poetici.

Gianni Mura

I suoi versi da postumo in vita furono apprezzati dal poeta laureato, lo sportivo ed elegiaco Giovanni Raboni che nella poesia di Clerici trovò «una sorta di ansiosa fermezza, di sfuocata precisione, che è, ai miei occhi una qualità rara».

Rarità, anche agli occhi di Italo Calvino, per cui Clerici è semplicemente «uno scrittore prestato al tennis». Trasformista fregoliano, sfugge ad ogni catalogazione, assurgendo a unico biografo all’ altezza del suo personaggio.

«Allevato con amore, forse eccessivo e con poca disciplina. Lasciato libero di frequentare il liceo, di ritirarmi da scuola per tentare l’ avventura del tennis, di iscrivermi all’ università, per abbandonarla e poi riprenderla. Libertà grande, la mia, che era anche tale perché i miei genitori erano privi di modelli, per me, attendibili », scrive di sé in Quello del tennis. Storia della mia vita e di uomini più noti di me (Mondadori).

L’ inguaribile febbre per tutti i suoi 90 anni, il tennis, lo colpì precocemente. Sviando la Baronessa Kroff «che si stupiva che un bambino di sei anni non avesse mai sentito nominare Gogol», incrociò lo sguardo e l’ aurea di un’ icona: Alan Little, il bibliotecario di Wimbledon.

Alla teoria del narratore in erba e del futuro storyteller del green londinese, fece seguire la pratica: le lezioni al Circolo Tennis di Alassio (presieduto da Lord Daniel Hanbury e dal segretario Goodchild), impartitegli dal maestro anglo-americano Sweet. «Ai miei tempi il tennis era ritenuto un gioco aristocratico, se erano gli aristocratici a giudicarlo. Per altri un gioco da signorine, il sissy game anglosassone », ricorda caustico lo Scriba.

Gianni Brera

Molti critici musicali non hanno mai suonato uno strumento e spesso non sanno neppure leggere lo spartito, Clerici invece ha imparato presto a pizzicare le corde della racchetta e ha vergato magistralmente interi capitoli dei libretti d’ opera e dell’ epica eroica dei Gesti bianchi, oltre a far iscrivere il suo nome sull’ Albo d’ oro del ranking. Campione italiano di doppio, in coppia con Fausto Gardini nel 1947 e nel ’48’.

Nel 1950, la stagione mitica di Costa Azzurra, a Vichy vinceva la “Coppa de Galea” e due anni dopo trionfava anche al “Monte Carlo New Eve Tournement”. Non era il più forte di quella “generazione di fenomeni” composta dai vari Pietrangeli, Sirola, Merlo, Gardini e Bergamo, ma lo Scriba in calzoncini e maglietta, rigorosamente bianca, almeno per un turno ha calcato l’ erba sempre verde di Wimbledon e “scivolato”, per ribattere colpo su colpo, sulla terra rossa parigina del Roland Garros.

“Snob e stupid nel tennis”, l’ articolo al vetriolo titolato dal folberciclofilo Brera, segnò idealmente la sua battuta, d’ arresto, con il tennis giocato, ma almeno gli aprì le porte della più straordinaria delle redazioni sportive, quella del Giorno di Mattei.

«Io ho tre croci, una grandissima Enrico Mattei e due piccoline, Giancarlo Fusco e Gianni Clerici », soleva ripetere il direttore Italo Pietra che al più grande narratore orale mai avvistato per le strade e i bar di questo Paese, Fusco, aveva assegnato la prima column con foto (assieme a quella dell’ americano Art Buchwald), mentre al “Brera del tennis”, Clerici, concesse carta bianca per coniare un nuovo stile di reportage dello sport. Lo stile di chi ha saputo raccontare con la stessa poesia e intensità romantica la «Divina » Suzanne Lenglen, così come il suo «Idolo» dimenticato, Gianni Cucelli, nato Giovanni Kucel, in terra d’ Istria (a Fiume).

Giovane staffettista e poi partigiano della bella scrittura Clerici, ha saputo inseguire la traiettoria della pallina e al contempo uscire dalle righe del campo per viaggiare, conoscere, interrogare uomini e donne di tutte le fedi, forte anche di una laurea in Storia delle religioni.

Il tennis con la penna dello Scriba, a tratti del match ha rimbalzato tra la letteratura e l’ ascetismo mistico alla Siddharta. Un giorno, racconta orgoglioso, di essere salito apposta fino a Montagnola per avvicinare il Nobel adorato, Hermann Hesse. E dei tanti libri letti, la risposta al suo mestiere di vivere, sempre in bilico tra il ramo lacustre dello scrittore e quello del giornalista, l’ ha trovata proprio in un paragrafo di Da una biblioteca della letteratura universale.

«L’ attività di un cosiddetto libero scrittore è considerata oggi una “professione” – scrive Hesse – , probabilmente perché esercitata come un mestiere qualsiasi da molti che non hanno per essa alcuna vocazione. Perciò ogni libero scrittore trova difficoltà a orientarsi nella sua ambigua situazione, a metà tra il redditiere e lo scrittore non libero, e cioè il giornalista ». Da grande cerimoniere del giornalismo aulico applicato al tennis, Clerici ha scomunicato i tanti, troppi improvvisatori dei cronisti dei Gesti bianchi.

Non fa sconti neppure alla buonanima cult americana di David Foster Wallace che con il suo «assurdo» Federer come esperienza religiosa «ha compiuto un’ operazione molto giornalistica, dico giornalistica nell’ aspetto negativo del termine, come di quelli che scrivono articoli scopiazzando».

L’ originalità è alla base dello stile, di colui che lo statistico e tassonomico Rino Tommasi, suo mentore di doppio in telecronaca per centinaia di slam, chiama affettuosamente il “Dottor Divago”. «Non sempre nelle cronache di Gianni troverete il risultato dell’ incontro, ma troverete sempre la spiegazione della vittoria di un giocatore sul proprio avversario», ha detto il numerologo del suo amato Gianni.

Tommasi ha avuto l’ onore e l’ onere di condividere un tratto importante del lungo cammino in presa diretta con Clerici, e quando nel febbraio scorso, in occasione dei suoi 86 anni Ubaldo Scanagatta gli ha domandato: «Ci arriviamo a 100, Rino?» e Tommasi pronto gli ha risposto: «Certo che sì, passeggiando!» Auguri Scriba Clerici, fino a 100 anni, passeggiando.

Massimiliano Castellani per “Avvenire”

CA’ VENDRAMIN

CA’ VENDRAMIN

Una generazione se ne va e un’altra arriva,/ma la terra resta sempre la stessa./Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce./Il vento va verso sud e piega verso nord./Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento./Tutti i fiumi scorrono verso il mare,/eppure il mare non è mai pieno:/al luogo dove i fiumi scorrono, continuano a scorrere.

 

Con queste parole si apre i Libro di Qoèlet, contenuto nella Bibbia. I fiumi scorrono sempre verso il mare, ma la terra non resta sempre la stessa. Lo scoprì Gianni Celati, durante il viaggio del 1989 Verso la foce (è il titolo del libro che trasse dagli appunti del suo diario). Prima di lui fece lo stesso viaggio Mario Soldati: era il 1957. Giunto a Ferrara, in località Dogana Vecchia, proprio sotto l’argine del Po, lo scrittore piemontese assiste sgomento ai lavori idraulici che, allargando il vecchio argine, avrebbero sepolto quanto rimaneva del presidio fra due Stati: quello fra Serenissima e Pontificio.

Panorama da Ca’ Vendramin sul delta del Po.

Le terre cambiano, cambiano con esse gli uomini, spesso in peggio. Per meglio dire: terre e uomini cambiano insieme. Ed è una bella lotta stabilire il primato. Può più l’opera rovinosa delle acque alluvionali, l’incessante erosione dei marosi, oppure l’antropizzazione? A dire che , fino a non molto tempo fa, qualcuno era disposto a credere che queste terre padane così estreme, sbracciate sul mare, qualche cosa di speciale la conservavano. Ne fanno fede queste parole di Giovannino Guareschi, quello di Don Cammillo e Peppone. “Bisogna rendersi conto che in quella fettaccia di terra fra il fiume e il monte possono succedere cose che da altre parti non succedono.” Sono sicuro che Gianni Brera farebbe sue queste parole (lui di San Zenone sul Po)! Quando l’uomo si misura direttamente con la natura, tocca la sua piccolezza, ma la sua inquietudine esistenziale lo spinge ad andare oltre tali limiti, là dove tutto può succedere, dove cedono le paure e si fa più acuta la consapevolezza del mito.

Di questa lotta fra ambiente e uomo fa fede il Museo regionale della bonifica di Ca’ Vendramin, che visito accompagnato dal mio capitano Achab (https://www.ninconanco.it/col-capitano-achab/), uomo di scanni e abilissimo a scansar barene. Guardo lui stagliato lungo il profilo dell’argine e della ciminiera che sembra un obelisco. Mi viene da accostarlo a quel pescatore di Scano Boa,(www.comingsoon.it/film/scano-boa/20006/scheda/) atipico eroe e maldestro pescatore, inventato da Gian Antonio Cibotto, un altro squisito letterato, vegliardo indomito, impastato di versi, canne palustri e fango.

 

 

 

Le foto in bianco e nero si riferiscono ai lavori per la costruzione dell’idrovora di Ca’ Vendramin

Il consorzio o retratto (secondo la vulgata veneziana) risale al 1745. Nasce per iniziativa dei privati, proprietari terrieri e latifondisti interessati al controllo delle acque e alla bonifica dei terreni. Nel 1801 sotto Napoleone i tre preesistenti consorzi di bonifica vengono unificati e nel 1804 la manutenzione dei fiumi e degli argini diventa competenza statale. Nel 1815, quando ai francesi subentrano gli austriaci, il consorzio assume la denominazione di Consorzio agli scoli dell’Isola di Ariano, attuale Consorzio di bonifica del Delta del Po.

Il prosciugamento dei terreni avveniva attraverso poderose macchine idrauliche: la prima idrovora a Ca’ Vendramin, mossa da vapore, nei cui locali, costruiti fra il 1900 e 1903, oggi è ospitato il museo.  Due le idrovore secondarie, mosse da energia elettrica. Una rete allora all’avanguardia, progettata dal Genio civile di Rovigo, su indicazione di un abile ingegnere di Castelleone, Antonio Zechettin, meritatamente ricordato in un’iscrizione.

 

A causa dell’abbassamento del suolo fra gli anni 1950 e ’60 l’impianto perse la sua rilevanza e venne dismesso, a favore del nuovo impianto di Goro.

Il progetto iniziale prevedeva di allocare qui un ecomuseo, in cui valorizzare il significativo patrimonio storico e ambientale di Ca’ Vendramin, offrendo servizi culturali e occasioni per un uso intelligente del tempo libero e del turismo. La Fondazione Ca’ Vendramin, che pure vede la presenza, oltre agli enti locali, della Regione Veneto, è priva di mezzi finanziari adeguati. Il centro culturale per studi e ricerche collegate all’ambiente del Po è solo sulla carta.

Lo stesso vale per l’orto botanico, che il progetto prevedeva di specializzare nella salvaguardia e studio delle varietà botaniche tipiche dell’area deltizia. Dopo le restrizioni dei fondi per le gite scolastiche, anche questo flusso turistico, numericamente significativo, è andato ad esaurimento. Oggi, per entrare nel museo non bisogna certo farsi largo fra la calca. Ma forse è meglio così: queste sale enormi, in cui persistere l’odore del grasso minerale e della ruggine, in fondo stanno bene immerse nella penombra e nel silenzio. Silenzio fatto di rispetto e ammirazione per il tanto lavoro e il tanto ingegno profusi, nel produrre prima e nel mantenere in efficienza poi queste macchine che, pure inerti e scrostate, ancora riescono a trasmettere forza e a ispirare riguardo. Oltre che silenziose, queste sale diventano impenetrabili da novembre a tutto febbraio dell’anno successivo, in quanto il museo in quei mesi chiude. Un po’ come i rifugi di montagna!?

Nelle varie sale le didascalie sono puntuali, grandi pannelli illustrano la storia dell’edificio ed è possibili visionare materiale multimediatico. 

Manca, purtroppo, un opuscolo illustrativo takeaway.

Lungo le pareti della sala convegni troviamo una mostra fotografica sul tema Polesine, opera di una appassionata locale: Maria Burgato. Riproduciamo qui sotto alcuni dei suoi scatti.

Per informazioni e prenotazioni: www.fondazionecavendramin.it

Info@fondazionecavendramin.it

 

 

Il mio nome è Giovanni Luigi Brera

Il mio nome è Giovanni Luigi Brera

Il giornalista sportivo e scrittore Gianni Brera

Il giornalista sportivo e scrittore Gianni Brera

Il mio vero nome è Giovanni Luigi Brera. Sono nato l’8 settembre 1919 a San Zenone Po, in provincia di Pavia, e cresciuto brado o quasi fra boschi, rive e mollenti“.

Una frase piena di musica e di sentimento. O, se vogliamo, un dipinto realizzato con precise pennellate con l’uso del colore che solo un grande pittore riesce a dosare. E allora, ci sono paesaggi, pietanze e tante storie non solo sportive, originate dalla realtà che diviene fantasia. Una creatività capace di trasformare una pedalata in un gesto da imitare, da seguire in primo piano come quelle espressioni del volto che già da sole indicano stati d’animo o speranze.

Un libro di Gianni Brera (http://www.ibs.it/code/9788842820987/brera-gianni-zzz99-mura/principe-della-zolla.htmlè sempre una risorsa e una nuova scoperta. Una miniera di idee, di invenzioni letterarie e di geografie umane. A San Zenone c’era  l’artigiano Carlo Brera, padre di Gianni.  La sua bottega si apriva sulla pubblica via. “Siamo poveri, non miserabili” diceva Carlo di se stesso e della sua famiglia. E da queste origini il promettente Gianni cominciava a farsi strada raccontando la vita quotidianacon un linguaggio poi diventato unico.

La presentazione del figlio Paolo conduce per mano il lettore tra le nebbie padane e l’infanzia difficile del piccolo Giuanin, sognando grandi partite, corse in bicicletta e sogni con i piedi per terra. E con una semplicità degna di un realismo cinematografico conclude “a volte c’è anche un piacere di leggere ciò che lo scrittore ha avuto il piacere di scrivere“.

Proprio così,  con pagine senza tempo, seppure datate,  come quella dedicata a Meroni che sembra un ritratto estemporaneo di quelli che si fanno guardando negli occhi il soggetto per entrare nella sua testa, nei suoi piedi, nella sua vita. Brera conquista il lettore con le sue parole mai messe a caso,  tutte incastonate come fanno i bravi “mastri” con calce e cazzuola mattone dopo mattone. E poi mentre si sente il sapore del buon vino e l’odore della pipa ti parla di ‘Zio Gadda’  “né rivendico parentele di sorta con quel grandissimo intarsiatore di parole toscane riplasmate in lombardo che è zio Carlo Emilio. Qualche critico minchione, interessandosi alle mie nugae, ha addirittura trovato che gli sono nipote. Balle. Soltanto la cadenza, qualche volta, può riecheggiare Gadda, ma unicamente perché anch’io ho imparato un po’ di toscano a scuola, e quando si appartiene a una determinata ‘rassa’ non si sfugge al giro delle sue circonvoluzioni, al suo orecchio e persino alla sua laringe“.

E cosa dire di quel delicato ricordo al ciclista non ammirato abbastanza e non presente come la premiata ditta Coppi & Bartali, quel Toni Bevilacqua, “sciamannato fratello della mia riva. Il labbrone pendulo, la dentatura che le troppe polente non hanno scalfito, gli occhi tristi del bove nato per faticare, un ghigno astruso, divertito, matto, di servo della gleba che ha buttato la marra sulla rovere. Non più capitano di ventura; la vocazione dell’arrotino ha inventato per te evasioni frenetiche. Grande atleta sarai mulinando polpacci ipertrofici, piedoni avvezzi al loglio e alle stoppie“.

E’ davvero difficile scrivere di Brera perché  riesce ancora ad esseresorprendente e innovativo.

Un Maestro a tutto campo e quel dialetto usato al punto e al momento giusto che diviene magicamente letteratura, autentica come un vitigno pregiato pronto a catturare la luce del sole. Brera è abile nel descrivere un mondo che non c’è più e che c’è ancora. Il termine ‘fatica’ compare molte volte in questi mirabili scritti. Ma si accorge, scrivendo, che quel piccolo mondo antico via via scompare tra la nebbia non più naturale, ma artificiale. Quella dell’opacità che tutto avvolge e al diavolo lo splendore dell’autenticità delle persone e dei luoghi. Ha ragione Gianni Mura, che ha curato questa raccolta, “ho fatto una scelta ‘fluviale’ perché Brera è stato un grande fiume senza mai problemi di siccità. Molto generoso nel dissetare, attento a non premere troppo sugli argini, carico di sedimenti, cose e voglia di andare. Posso ammetterlo solo alla fine: ho scelto col cuore”.

‘Un grande fiume’ che ha saputo trasportare tutte le possibili emozioni di uomini, paesi, gesti e comportamenti. Attento al dettaglio, annotando anche le piccole cose che i ‘piccoli’ tralasciano. E in quelle piccole cose si è sviluppata tutta la sua maestria letteraria, divenendo un faro per chi ancora oggi prova a scrivere degli affari della vita, con il cuore.

 

Il Fatto Quotidiano di Antonio Capitano | 30 marzo 2015

Contact Us