MINA: l’EMOZIONE NON C’E’

MINA: l’EMOZIONE NON C’E’

Fra Cassiopea e Orione (i titoli degli ultimi album) ritroviamo la sua voce inconfondibile, la tecnica raffinata, ammirati per tanta longevità canora. Ma, sotto tanto talento, non si sente la passione, e anche le melodie più suggestive ed emozionanti scivolano via, come l’acqua su una pietra.

Mina è un monumento alla voce, un monumento che non ha corpo. Desaparecida senza pentimenti da decenni, offre il suo dono naturale nascondendosi dietro le tende. Ha cantato di tutto e con tanti. Negli anni ha consumato buona parte di quel canzoniere italiano che ora ha pensato di catalogare in un Italian songbook che ripesca il già fatto, rilucidato per l’occasione, con qualche piccola aggiunta, tanto per non far dimenticare che è ancora on the road, sia pure su una strada invisibile.

Il progetto ha visto per ora l’uscita dei primi due album, Cassiopea e Orione, una confezione prenatalizia che andrà avanti nei tempi. Insomma, il monumento ha deciso di fare un altro monumento, un «vuolsi così colà dove si puote e più non dimandare». Nel senso che Mina scolpisce le canzoni con la sua scelta, pesca fior da fiore, setaccia il repertorio recitandolo in scioltezza, modellando al suo talento note, parole, autori. Forte di una certezza: i monumenti non si discutono.

Però i monumenti neanche cantano e Mina lo fa, lo ha fatto tutta la vita. Si dice che abbia messo insieme qualcosa come 1500 titoli, un’opera monumentale (appunto), segnata da uno strumento superbo, cristallino, dal timbro caldo, immediatamente riconoscibile, dotato di estrema duttilità, sostenuta da una tecnica raffinata. Un canto non provinciale, influenzato dal graffio delle grandi voci nere (l’esuberanza di una Sarah Vaughan) eppure profondamente italiano.

Mina in sessant’anni abbondanti di carriera, due terzi dei quali in clandestinità, è andata avanti come un rullo compressore, macinando stili e climi, consenso, assoluta stima. E ora riascoltandola, visto che la signora ha ormai 80 anni ed è lecito dare uno sguardo alla sua storia, viene spontaneo fare anche un bilancio. Un bilancio, per non peccare di piaggeria e basta, che lascia insieme un gusto misto fatto di ammirazione e perplessità. Si può parlare del repertorio, non sempre scelto con rigore.

E poi si può discutere dell’uso del virtuosismo a volte eccessivo, ridondante: le avrebbe fatto bene ascoltare dosi massicce di Billie Holiday, voce limitata, sentimento sconfinato. Ecco poi il disappunto maggiore, ascoltandola: si avverte quando Mina canta con sufficienza, si abbandona al suo talento, non pensa, recita il rosario con naturale disposizione, non scava a fondo, non pesa le parole. Vale, ad esempio, questa antologia appena pubblicata. C’è «Una lunga storia d’amore», splendida melodia di Gino Paoli. Una versione che scivola via, come l’acqua sulla pietra. Basta fare il paragone con quella dell’autore per accorgersi di cosa voglia dire cantare una canzone con senso della profondità: Gino non può competere con lei sul piano vocale, ma su quello dell’intensità, dell’espressione come si dice, non c’è gara.

Il paragone vale anche con un altro classico come Almeno tu nell’universo, la interpretazione che offre Mina e quella di Mia Martini appartengono a due mondi diversi: c’è un universo levigato da una parte e, dall’altra, un universo che grida dolore. Terzo esempio, Caruso: ascoltare questa edizione e poi quella di Lucio Dalla spiega pienamente il problema.

Lo si avverte pure in Va bene, va bene di Vasco Rossi, un pezzo che non richiede virtuosismi, ma solo intensità e Vasco, attore fantastico, ha pochi rivali nella recita, la sfacciataggine sbarazzina di quando dice «va bene, va bene, va bene» non può scorrere via come un bicchiere d’acqua neppure frizzante. Dietro quel va bene c’è una filosofia di vita, un senso perfino drammatico e impertinente dell’esistenza.

Quanto agli inediti, Un tempo piccolo, che porta la firma anche di Franco Califano, già lanciata dai Tiromancino, francamente non merita il posto in una selezione intitolata Italian songbook. Decisamente meglio Nel cielo dei bars, ballad classica all’americana, che il povero Fred Buscaglione aveva cantato poco prima di morire nel film Noi duri: è un buon recupero, centellinato con misura e partecipazione (questa sì), musicalmente curatissimo.

Tutto sommato, allora, andando indietro nel tempo lungo la carriera di Mina, finisce per essere rivalutata l’allegra impertinenza di quando l’ex Tigre di Cremona si faceva donare una tigre a pois dal suo amico marajà, o la sensualità che riusciva a trasmettere cantando Il cielo in una stanza, che non è la descrizione di un arredamento, ma di un orgasmo, un erotismo assente in questa versione, pure elegante, ricantata nell’88 e che sembra voler dare ragione a chi sostiene che Lucio Battisti criticava Mina dicendo «l’emozione non c’è». E Battisti di emozioni se ne intendeva: «Seguir con gli occhi un airone sopra il fiume e poi/ Ritrovarsi a volare/ E sdraiarsi felice sopra l’erba ad ascoltare/ Un sottile dispiacere».

Articolo di Marco Molendini per www.dagospia.com

OH!, ORNELLA

OH!, ORNELLA

 

Proviamo anche con Dio, non si sa mai: «Come dice Bertrand Russell, lui è così immenso che non si può nominare, ma a qualcosa devo pur credere e di raccogliermi ogni tanto ho bisogno anche io. Prego Gesù, mi attacco a lui».

Negli anni incerti, Ornella Vanoni, dama del 1934, acrobata per indole e amazzone tra le epoche, aveva usato come liana persino la bottiglia: «Bevevo soltanto champagne, mi piaceva da impazzire, ma ero diventata una palla e purtroppo ho dovuto smettere».

Ora che l’età non è più un problema, «sono molto infantile, ce la sto mettendo tutta per invecchiare ridendo», e la memoria è della stessa pasta dell’ironia: «Non è una dannazione, tanto le cose brutte alla fine le rimuovi, ma non sarà per questo che sono sempre stanca?», i malanni stagionali: «La tosse, il raffreddore, un disastro», la carriera e i ricordi assumono un’importanza relativa: «A forza di raccontare le vecchie storie mi sono annoiata. Son stufa di Ornella Vanoni, c’ho due balle così».

Ornella è un profilo sul divano, un sorriso orientato al tramonto che cade da una finestra di Milano, un cane nero da festeggiare senza pudore alternando insensatezze cinofile con il vizio dell’onomatopea e vezzeggiativi: «Oddio bambina, ia ia ia ia, madonni, madonni, lo yeti piccolino, il mio yeti piccolino».

I decenni la situano nello stesso luogo che occupa con baldanza fin dal ’58: «A me piace stare sul palco, mi è sempre piaciuto. Ma adesso che la paura se ne è andata ed è rimasta soltanto l’emozione, finalmente me la godo. Io e i miei musicisti ridiamo tantissimo e rideremo anche a Sanremo. Ci vado volentieri, è una buona occasione e porto in gara una canzone molto bella e adulta. Però poi di vincere il Festival, dico la verità, non me ne può fregar di meno».

Perché?

«Perché non bisogna mai pensare a quelle cose. Se ti attacchi all’idea di vincere e poi non accade, rimani malissimo. Come le dicevo, conta soltanto l’emozione. Se non ce l’hai è meglio tu stia a casa».

Se non la provasse più?

«Scenderei dal palco. Non sono un genio, ma forse scriverei qualcosa, porterei i cavi agli elettricisti, mi inventerei altro. Non potrei mai stare senza lavorare».

Lei è qui con noi da sempre.

«Sono vecchia? Sì. Le immagini dei bombardamenti per esempio sono vividissime. Essere vissuti durante la guerra è un grande privilegio, a chi non l’ha vista manca qualcosa».

 

Che cosa manca?

«Intanto che non sai se arriverai a domani. Dormivamo vestiti con le scarpe e il cappotto, pronti a scattare appena suonavano le sirene. All’inizio correvamo in cantina, poi capimmo che avremmo fatto la fine dei topi e cominciammo ad andare verso i prati, al limitare della città. Vedevamo i bengala rossi e ci gettavamo per terra. I sibili delle bombe e mio padre che mi si butta addosso per proteggermi dalle schegge me li ricordo bene. Non c’è depressione durante la guerra. Speri solo di restare vivo. Se hai il cancro lotti per vivere, se ti viene la depressione lotteresti per morire».

Lei è mai stata depressa?

«Ho avuto tre depressioni pazzesche, ho perso tanti capelli, in testa prima avevo una criniera, altroché».

Da ragazza era bellissima.

«In spiaggia, da giovane, mi chiamavano culo d’oro. Ma più che bellissima ero particolare. Avevo un viso molto moderno. E siccome avevo una grande cicatrice sul collo, usavo il corpo come scudo. Durante la guerra, mi avevano curato male una ferita, torturandomi con aghi terrificanti, senza antibiotici o medicine per togliere il dolore. Le garze e i cerotti non mi hanno aiutata, né mi hanno dato forza caratteriale. Ero molto timida. Lei non sa com’ero timida».

Fare musica l’ha rassicurata?

Ornella con Lucio Ardenzi

«Mi ha resa molto più inquieta. Debuttai seguendo un’intuizione di Strehler e interpretando per la prima volta le canzoni della mala senza mai aver cantato prima. Poi feci teatro. Quando mi sposai, mio marito (Lucio Ardenzi, ndr)  mi fece recitare L’idiota di Achard».

Venne accolta come una rivelazione.

«La storia con Strehler era stata scandalosa e siccome con lui, proprio per quelle ragioni, non avevo mai potuto recitare, mi buttai senza rete. Ma avevo una paura tremenda e non dormivo mai. Facevo una tragedia di qualunque esibizione, anche se dovevo cantare alla Bussola. Che poi, a me, cantare a tarda ora non è mai piaciuto».

Perché?

«Adoro gli orari europei. Esci dall’ufficio, alle sette e mezzo sei in sala, alle nove e mezzo a casa e alle undici a dormire. Mangiare presto, dormire presto. È saggio. Invece gli italiani, niente».

Come niente?

«Agli italiani piace fare tardi. E che palle».

Quindi non era una nottambula.

«Ero nottambulissima. Quando sei ragazza, sei nottambula per forza».

Con Strehler vedevate l’alba?

«Ero una ragazza borghese, inconsapevole e ignorante. Quando ho incontrato Giorgio, lui si è innamorato di me e io mi sono innamorata di lui. Volevo fare l’estetista, Strehler mi ha spinto all’arte, a camminare su una strada che in realtà non avrei voluto assolutamente percorrere».

La affascinava l’inafferrabilità?

«Tutt’altro. Giorgio, riamato, mi amava tanto. Sono certa sia stato l’uomo che mi ha amata di più. Lo so».

Come lo sa?

«Mi sentiva come una sua creazione. Mi trovò intonsa, ero un materiale grezzo, un Pinocchio da plasmare. A dividerci furono i suoi vizi. A un tratto non li sopportai più. Non avevo voglia di assumere quella cosa che usava in continuazione. Della cocaina ero stufa, ero stanca. Lui ne faceva un uso smodato. Lo seguii, provai, poi a un certo punto me ne andai».

Fu solo quello?

«Fu esasperazione. A un certo punto, la mia testa si rifiutò di proseguire in quella direzione. Mai stata gelosa però. Che scopasse anche le altre non mi importava niente. Non l’ho mai sorpreso con una, non ne ho mai avuto bisogno. Sapevo con chi era e con chi andava. Con quali donne e perché. Una sola volta mi incazzai davvero. Mi portò a casa e poi riuscì. Mi mentì. E mi arrabbiai proprio perché di dirmi balle simili non c’era alcuna necessità».

La monogamia è un’illusione?

Giorgio Strehler

«Dipende dalla curiosità. Se sei curiosa e sensuale, la monogamia dura un po’ di anni e poi dopo non dura più. La monogamia è difficile. Le mie storie sono durate sempre poco, anche per il mestiere che facevo. Bardotti, il mio produttore, un genio, aveva ragione. Mi rimproverava perché sceglievo come compagni avvocati e commercialisti: “Non ti capiranno mai, le persone curiose volano alte, quelle poco curiose camminano”».

E lei perché li aveva scelti?

«Mi ero illusa che mi dessero una vita più serena. In realtà era sempre una vita del cavolo. Non capivano i nervosismi, le fatiche, le ansie. Non condividevano un cazzo, quelli lì».

Pensa di aver inferto più delusioni o di essere stata più delusa?

«Sono stata spesso delusa, ma forse ho deludito, o come si dice? Deluso, ecco, deluso anche io. Quando finisce, finisce. Ma ho pianto pure io, cosa crede? Non ho fatto piangere solo gli altri, non sono stata una farfalla che ha attraversato le vite di questi uomini in lacrime. Ho sofferto tantissimo».

«Se fossi stata più onesta», disse, «avrei detto a mio marito che amavo ancora Gino Paoli e non l’avrei sposato».

«Avrei anche voluto, ma c’era un problema: Gino era sposato. È stato un casino, un amore molto travagliato e forse ho amato Paoli così tanto proprio per questo. Non lo possedevo, non lo avevo. Quando non hai una persona sei portato a credere che l’amore più grande sia quello che ti fa soffrire di più. E invece, cazzo, dovrebbe essere il contrario. Dovresti amare chi ti rende felice».

C’è una vena masochistica nell’amore?

«Tutte le donne hanno una leggera vena masochistica. L’uomo se ne va, la donna invece trascina il rapporto sperando che tutto si sistemi. Ma quando una cosa si rompe, si rompe e quando si incolla, si vedono le crepe».

Lei e Paoli eravate una frattura vivente.

«Con quel maglione nero e quella voce, Gino era una personalità particolare. Io non ne parliamo. “Quella lì è la cantante della mala che porta sfiga”, dicevano di me, “e poi è pure lesbica”».

E di lui che cosa dicevano?

«Le stesse cose o quasi. “Quello lì è gay”. Anzi, è recchia, invertito, frocio. Che in fondo è anche una parola più onesta, perché gay presuppone un’allegria di base che Gino non aveva e perché in certi giorni girano le balle anche ai gay».

Mai stata attratta da una donna?

«Ho avuto attrazione per qualche ragazza, certo. Fascinazione e curiosità. Una mia amica sostiene che la mia parte maschile sia frocia. Se passa una bella donna dico “che bella”, se passa un bell’uomo dico “che fico”. Non ha torto».

Torniamo a Paoli. Gino è di indole cupa?

Ornella con Gino Paoli

«Suo figlio Tommaso dice che ci sono delle mattine in cui non si sa se non trovi il dentifricio o se è morto qualcuno. Sa qual è la fortuna di Gino? Aver trovato Paola, sua moglie. L’ha voluto e se l’è tenuto. Lei è allegra e ha due palle così. Ci sentiamo spesso. L’ultima volta ho rimproverato Gino per interposta persona: “Paola, guarda che se Gino continua a dire che sono una brava donna purtroppo insopportabile, lo cito per danni”».

Lei porta rancore?

«Ho avuto un’ultima storia d’amore con un ingrato che mi ha ferita. Ora sono felicemente sola, ma un pelo di fastidio, quando ci penso, ce l’ho ancora. Se quello va sotto un tram magari mi dispiace, però meglio».

Meglio?

«Ho sempre esigiuto rispetto. Si dice esigiuto, no? Oppure si dice esigito? Spero di no. Mamma mia che brutte parole, che schifo, esigiutoesigito. Comunque ho sempre preteso rispetto, in amore e sul lavoro. E ogni tanto mi incazzavo. Antonello Falqui lo mollai così, su due piedi, in uno studio tv, 20 minuti prima di andare in onda».

Come andò?

«Avrei dovuto cantare La storia di un ricordo di Gino Paoli. (La intona: “Una porta che si chiude, il tuo viso che sparisce”). Una canzone drammatica. Prima di me doveva esibirsi la gallese Shirley Bassey. Sa come sono provinciali gli italiani, no? Quando arriva uno dall’America o dall’Inghilterra si sciolgono: “Ah, divina” e non capiscono più niente. Aveva un pezzo triste anche lei e a un tratto Falqui mi si avvicina: “Dovresti cambiare canzone”, dice. Non replico. “Benissimo”, dico ai musicisti. “Facciamo Senza fine”, tre minuti, rapidi e poi andiamo a casa. A quel punto, Falqui chiama la pausa a tradimento. Allora mi sono incazzata: “Esterofilo di merda”, gli ho detto e mi sono chiusa la porta alle spalle. Lui era sconvolto, agli amici comuni diceva: “Ti rendi conto? Mi ha dato dell’esterofilo di merda”».

Falqui ebbe una celebre storia d’amore con Mina.  

Mina

«Scapparono insieme, ma la fuga durò poco. Si è parlato a sproposito della nostra rivalità, ma non c’è mai stato antagonismo e a me Mina era molto simpatica. La nostra diversità mi è servita da propellente. Io pudica, lei tutta allegra e spumeggiante. Agli inizi era straordinaria, dopo meno. Era più distaccata e si vedeva».

Mina vive in Svizzera

«Credo che all’inizio l’allontanamento fosse di natura fiscale, perché se fosse tornata le avrebbero tolto anche le mutande. Poi forse ha capito che non farsi vedere rendeva eterni e trasformava in miti. Penso che nella distanza sia felice».

Chi ha conosciuto di felice?

«Hugo Pratt. Ti sedevi davanti a lui e negli occhi blu, ma di un blu profondo, aveva tutto l’atlante. Possedeva ironia, spirito, una cultura folle, e un sincero amore per Stevenson perché era un ragazzo selvaggio anche lui. Un uomo stupendo. Gli dicevo “Ma come sei grasso” e lui, in veneziano: “Ciò, el magnar, el bever, le donne. Senò seria magro come un termometro”. Abbinava l’erotismo e le donne ai piaceri del cibo e del vino. E non sbagliava mica, sa?».

Altri uomini stupendi?

«Lucio Dalla. Lo adoravo. Più grande di Battisti, di De André, di Gaber che pure era grandissimo e superiore a Fabrizio. Dalla era il più grande di tutti. Intelligenza suprema, senso della tristezza portato all’estremo, ironia assoluta, vocalmente poi, una spanna sopra tutti gli altri».

Gli antipatici? I mediocri?

«Mediocri un’infinità. Come disse Umberto Eco a suo figlio prima di andarsene: “Quando starai per morire capirai che hai passato la vita circondato da deficienti”. Antipatici, diceva? Tom Jones. Così tamarro, così tremendo. Non lo sopportavo. Se vuole, posso parlarle dei simpatici. Del magnifico Ron o di Patty Pravo. È matta come una capra, mi diverte alla follia, è meravigliosa».

Ci parli di Patty.

Patty Pravo

«Quando sale sul palco Patty, è un fatto. Ha personalità. Racconta balle stupende. Quando dice: “Ho fatto la traversata oceanica in solitaria” so che racconta una balla, ma la racconta talmente bene che sono ammirata: “Ma cara”, dice, “le balle bisogna raccontarle enormi, altrimenti che balle sono?”».

In politica le piaceva Craxi.

«Il ciccione era fallocratico, ma aveva carisma, quello che manca ai figuranti di oggi. Sono apolitica comunque, ho litigato con tutti: destra e sinistra».

Ora, a pochi giorni dalle elezioni, tornerà a Sanremo: 51 anni fa salì sul palco con Tenco.

«Lo ritenevo un soccombente. Quella sera, quando si uccise, ero lì. Lo rimproverai: “Teniamo gli occhi aperti Luigi, altrimenti in tv non arriva niente”. Li aprì, mi parve un gufo. Seppi da Paoli che aveva assunto tre scatole di Pronox e bevuto una bottiglia di cognac. Mi spaventai: “State vicini a Tenco”, dissi ai discografici. Forse fui brusca, forse superficiale. Ma a Sanremo essere egoisti è facile, ognuno ha i propri cazzi, le proprie paure, il proprio ego».

L’ha combattuto l’ego?

«Cantare bene alla mia età significa essersene liberati. Non ho il difetto della vanità, non penso mai al segno che ho lasciato, il mito della Vanoni non ce l’ho. È faticoso, l’ego. Una volta chiesi a Gerry Mulligan se si fosse mai innamorato di una modella: “Sì, e fu un dramma”, rispose. “Eravamo entrambi innamorati della stessa persona”».

Si è raccontata molto in questi anni, ma cosa ha tenuto per sé?

«Una malinconia molto profonda nella quale nessuno poteva entrare per darmi una mano. Sono solare e gioiosa, ma anche molto dublinese. Mi piace la pioggia».

Come ci si salva?

«Con l’autoironia. Mi conosco troppo bene per offendermi».

Pensa mai alla morte?

«Siamo appesi a un filo, può capitare a chiunque, in ogni momento. Bisogna cercare di ritagliarsi un po’ di serenità interiore. Quando penso alla morte penso al mare».

Perché?

«Perché il mare ti porta via».

Malcom Pagani per   www.vanityfare.it 

 

I miti non possono steccare

I miti non possono steccare

Il quartetto negli anni d'oro del rock

I Beatles negli anni d’oro del rock

Il Mito è un morto vivente, ma non lo sa. Quando lo sa, sparisce, lascia foto e ricordi, uno stuolo di biografi ne alimentano il mito. Il Mito sa di non avere una biografia, ma un destino, e il destino, come diceva Walt Whitman, non può essere narrato, ma cantato. Allora, se ancora in vita, il Mito sparisce, perché sa di essere oramai un dettaglio, rifiutato dalla potente sintesi che il mito fa, oramai oggetto e non soggetto, patronimico scritto con la minuscola.

Queste cose nessuno le ha dette a Paul McCartney, l’unico dei Beatles ancora in circolazione. Oramai settantenne, si è presentato alla cerimonia di apertura delle olimpiadi londinesi, steccando dolorosamente.

Non hanno ancora inventato il botulino per le corde vocali e su twitter una fans disparata implora: per favore, ritirati!

Ottimo consiglio, ogni apparizione, magari magistrale e addolcita dai rimpianti fra palco e platea, non può aggiungere nulla, anzi sicuramente sottrae. E’ quanto è successo in questi giorni, sotto il cielo innaffiato di Barolo, per il Menestrello americano della seconda metà del 900, Bob Dylan; chi c’è stato non lo ha riconosciuto. Difetto di chi assisteva o dell’assistito?

Il mito non tollera aggettivi diminutivi, non tollera nemmeno aggettivi. Il mito ti vuole morto, perché sui morti si ricama meglio e le vaste pianure del tempo sono le praterie dei scrittori di polso e dei baritoni, per dirla gaddianamente (Carlo Emilio Gadda, non Mahatma Ghandi).

Il Mito, se ancora vivente,  c’è senza esserci,  amministra senza fare, asseconda nascondendosi.

Così da avvantaggiarsene fin che sta in mezzo a noi, non essendo interessato a quel al di là dove il mito già l’ha collocato. Magari un disco ogni tanto, un libro giovanile uscito da un baule, una registrazione creduta perduta, tutte cose queste assai corroboranti, e perciò redditizie per il Mito e per il mito.

Gli esempi non mancano, pensate a quella furbona di Mina che dal suo lago svizzero ogni tanto gorgheggia; i suoi articoli sulla Stampa ogni sabato sembravano dei necrologi, poverella non per colpa sua, ma per dato oggettivo. Per sollevare le vendite del giornale, il direttore non poteva che chiudere la mitologica rubrica, pur essendo di sicuro persona devota al Mito (non sto parlando dell’automobile della Fiat).

Pensate a quanto sarebbe utile se il vero senso del mito potesse prendere il sopravvento, entrare nella cultura delle masse, materialisticamente dialettiche, ispirare le classi dirigenti, dialetticamente ammassate o ammucchiate.

Pensate ai politici, a quelli che da trenta anni siedono ininterrottamente in Parlamento e ingombrano le reti televisive: eroici ed indefessi, Miti viventi, appunto.

Potessero sparire,  non esserci per essere nel mito, ritirati, non più al governo, ma solo evocati come i santi, illuminati, dopo tante tenebre, solo dai lumini dei tabernacoli o delle edicole.

In un solo colpo risolto il problema del ricambio generazionale. Ammàzzatelo! … la forza del mito!

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