IL CONCILIO DI FRANCESCO

IL CONCILIO DI FRANCESCO

Il Papa ha aperto il percorso sinodale definito “l’avvenimento ecclesiale più importante dopo il Vaticano II”. La Chiesa in tutto il mondo è chiamata a interrogarsi sul suo destino. Tra opportunità e tanti rischi

Il Sinodo sulla sinodalità sarà probabilmente, nonostante l’urticante cacofonia, la principale eredità del pontificato bergogliano. Monsignor Piero Coda, da poche settimane nominato segretario generale della Commissione teologica internazionale, l’ha definito “l’avvenimento ecclesiale più importante dopo il Concilio Vaticano II: “Per la prima volta in duemila anni di storia della Chiesa, un Sinodo è chiamato a coinvolgere tutto il Popolo di Dio”, ha detto a Vatican News. Per la Bbc, “Papa Francesco ha lanciato ciò che qualcuno descrive come il più ambizioso tentativo di riforma cattolica degli ultimi sessant’anni”. Una sorta di Vaticano III, insomma, senza l’impegnativo titolo di Concilio a pesare sull’evento ma con tutti i presupposti per segnare una svolta.

Sabato scorso il Papa ha aperto il percorso sinodale che, dopo una prima fase a livello diocesano, approderà a Roma

“Papa Francesco invita la Chiesa intera a interrogarsi su un tema decisivo per la sua vita e la sua missione: ‘ Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del Terzo millennio’”, si legge all’inizio del Documento preparatorio. Che questo fosse il punto- chiave lo si era già capito all’inizio, nella serata del 13 marzo 2013, con quel riferimento meditato a sant’ignazio di Antiochia e alla sua massima sulla Chiesa di Roma che presiede nella carità tutte le Chiese. E poi la doppia assise sinodale sulla famiglia, con scrutini all’ultimo voto per stabilire se la comunione ai divorziati risposati era cosa da farsi, cardinali su fronti contrapposti divisi tra chi era impegnato a tendere agguati al piano preordinato e chi sguainava le lance a protezione del deposito innovato. Ora si parte con un percorso lungo, “dal basso”, come più volte è stato ripetuto: prima nelle diocesi, quindi a Roma.

Un processo, come ebbe a dire il cardinale Gualtiero Bassetti aprendo l’ultima assemblea generale della Cei e riferendosi al percorso sinodale italiano, “che permetterà alle nostre Chiese che sono in Italia di fare proprio, sempre meglio, uno stile di presenza nella storia che sia credibile e affidabile”.

La strada l’ha indicata il Papa nel suo discorso inaugurale ( inaugurale del percorso, non del Sinodo vero e proprio), una settimana fa: comunione, partecipazione, missione. Serve coltivare “la concretezza della sinodalità in ogni passo del cammino e dell’operare, promuovendo il reale coinvolgimento di tutti e di ciascuno. Vorrei dire – ha osservato Francesco – che celebrare un Sinodo è sempre bello e importante, ma è veramente proficuo se diventa espressione viva dell’essere Chiesa, di un agire caratterizzato da una partecipazione vera”. Per fare cosa? Lo spiega sempre il documento preparatorio, che tra le altre cose indica come obiettivi del percorso la necessità di “sperimentare modi partecipativi di esercitare la responsabilità nell’annuncio del Vangelo e nell’impegno per costruire un mondo più bello e più abitabile” e il bisogno di “esaminare come nella Chiesa vengono vissuti la responsabilità e il potere, e le strutture con cui sono gestiti, facendo emergere e provando a convertire pregiudizi e prassi distorte che non sono radicati nel Vangelo”. La Chiesa tutta, scriveva il Papa, “è chiamata a fare i conti con il peso di una cultura impregnata di clericalismo, che eredita dalla sua storia, e di forme di esercizio dell’autorità su cui si innestano i diversi tipi di abuso ( di potere, economici, di coscienza, sessuali). E’ impensabile una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio”. E deve essere vera questa partecipazione: “Siamo disposti all’avventura del cammino o, timorosi delle incognite, preferiamo rifugiarci nelle scuse del ‘ non serve’ o del ‘ si è sempre fatto così’?”, ha domandato Bergoglio nell’omelia di apertura, pronunciata domenica scorsa in San Pietro. Il Sinodo non deve essere “una convention ecclesiale, un convegno di studi o un congresso politico”. Non deve essere neppure “un parlamento, ma un evento di grazia, un processo di guarigione condotto dallo spirito”. Iniziando questo cammino, ha aggiunto il Pontefice, “siamo chiamati a diventare esperti nell’arte dell’incontro. Non nell’organizzare eventi o nel fare una riflessione teorica sui problemi”. Ogni incontro “richiede apertura, coraggio, disponibilità a lasciarsi interpellare dal volto e dalla storia dell’altro. Mentre talvolta preferiamo ripararci in rapporti formali o indossare maschere di circostanza – lo spirito clericale e di corte: sono più monsieur l’abbé che padre”.

I discorsi sono belli, profondi e ricchi di dotte citazioni, gli obiettivi alti e condivisibili. C’è anche un benefico effetto poetico di sottofondo, tra i rimandi alla “santa memoria” di Yves Congar e le immagini più o meno allegoriche evocate negli interventi che si sono succeduti. Però il quadro rischia di essere troppo perfetto per corrispondere al reale. Francesco, nel suo messaggio, ha sfidato rischi e perplessità, incoraggiando a salpare verso una meta che al momento più ignota non potrebbe essere. Un po’ come Ferdinando Magellano, quando salpò dalla Spagna non sapendo bene dov’era localizzato il passaggio tra l’atlantico e il Pacifico ( non lo sapeva, ma non disse a nessuno di non saperlo). Il senso, ancora una volta, è di generare processi, andare al largo e poi si vedrà. L’importante è muoversi, non restare fermi aspettando che accada qualcosa o che i tempi migliorino, magari chiusi in qualche ridotta utile a preservare una sorta di utopica purezza.

L’idillio rappresentato cozza con la realtà di una Chiesa divisa – è un’evidenza, non la lamentazione dell’improvvisato profeta di sventura – e già finita sul lettino anatomico di assemblee locali che si propongono di svuotarla e di riempirla con qualcosa di nuovo, di “fresco”, in sintonia con quel che richiede il tempo d’oggi. Proprio citando Congar, Francesco ha detto che “non bisogna fare un’altra Chiesa, bisogna fare una Chiesa diversa”. E’ questa, ha aggiunto il Papa, “la sfida. Per una ‘ Chiesa diversa’, aperta alla novità che Dio le vuole suggerire”.

Il problema è che laddove la spinta alla sinodalità ( sovente confusa con la collegialità) è più forte, l’intento dichiarato non è quello di fare una Chiesa “diversa”, bensì di edificare una Chiesa “altra”. Una Chiesa “nuova”, in sintonia con le mode correnti, ammiccando al mondo e cercando non di rado di rendere ammaliante una Chiesa incapace di parlare il linguaggio contemporaneo. Se, come accade in Germania, si mette ai voti la proposta di discutere del sacerdozio ( non più del solo celibato, ma proprio del senso del sacerdozio in quanto tale e l’idea riscuote anche parecchio consenso), significa che si vuole costruire qualcosa di mai visto prima. Lo ha detto il cardinale Walter Kasper, lodato da Francesco al primo Angelus e per una buona parte del pontificato teologo di riferimento bergogliano: parlando del Sinodo tedesco, Kasper ha detto che “c’è chi vuole reinventare la Chiesa con l’aiuto di un erudito quadro teologico e teorico”. Già mesi fa, all’inizio dell’estate, aveva chiarito il concetto: “Sono molto preoccupato. Va oltre la mia immaginazione che richieste come l’abolizione del celibato e l’ordinazione delle donne al sacerdozio possano finire con una maggioranza di due terzi nella Conferenza episcopale o che possano raggiungere un consenso nella Chiesa universale”. Tant’è che, sono sempre parole del porporato tedesco, qualcuno potrebbe domandarsi se questo percorso sia ancora “totalmente cattolico”. Un osservatore esterno, senza badare troppo alla prudenza diplomatico- clericale, non avrebbe troppe difficoltà a definire il percorso scismatico.

Nel suo messaggio inaugurale di una settimana fa, il Papa ha parlato di tre rischi che possono interessare un Sinodo. Intanto, il formalismo: “A volte c’è qualche elitismo nell’ordine presbiterale che lo fa staccare dai laici; e il prete diventa alla fine ‘ il padrone della baracca’ e non il pastore di tutta la Chiesa che sta andando avanti. Ciò richiede di trasformare certe visioni verticiste, distorte e parziali sulla Chiesa, sul ministero presbiterale, sul ruolo dei laici, sulle responsabilità ecclesiali, sui ruoli di governo e così via”. Secondo rischio, l’intellettualismo, cioè “l’astrazione, la realtà va lì e noi con le nostre riflessioni andiamo da un’altra parte”. Il “far diventare il sinodo una specie di gruppo di studio, con interventi colti ma astratti sui problemi della Chiesa e sui mali del mondo; una sorta di ‘ parlarci addosso’, dove si procede in modo superficiale e mondano, finendo per ricadere nelle solite sterili classificazioni ideologiche e partitiche e staccandosi dalla realtà del Popolo santo di Dio, dalla vita concreta delle comunità sparse per il mondo”. Infine, il rischio dell’immobilismo e cioè “che alla fine si adottino soluzioni vecchie per problemi nuovi: un rattoppo di stoffa grezza, che alla fine crea uno strappo maggiore”.

Francesco vuole “un lavoro appassionato e incarnato”, convinto che davanti alla Chiesa vi siano tre opportunità da cogliere, la prima delle quali “è quella di incamminarci non occasionalmente ma strutturalmente verso una Chiesa sinodale: un luogo aperto, dove tutti si sentano a casa e possano partecipare”. Laddove però questo lavoro appassionato e incarnato è già iniziato, i risultati mostrano che anziché edificare una “Chiesa della vicinanza” si è andati incontro a ulteriori divisioni, sovente arrecando ferite sanguinolente alla Chiesa stessa. Disorientando e allontanando, alimentando battaglie tra laici e guerricciole clericali, cristallizzando gli schieramenti contrapposti. La Chiesa non è un Parlamento né una democrazia, come ha voluto ribadire il segretario generale del Sinodo, il cardinale Mario Grech, terrorizzato ( probabilmente a ragione) che il percorso avviato si concluda con drammatiche conte all’ultimo voto – e infatti ha già fatto balenare l’ipotesi che le procedure possano essere riviste, evitando calcolatrici e tesi scrutini – che riportano la memoria all’assemblea sulla famiglia del 2014, quando il via libera al riaccostamento alla comunione dei divorziati risposati prese le sembianze di un voto di fiducia a un governo balneare italiano, con cori da stadio e cardinali che vestivano i panni da capi ultrà non distinguibili dai baroni che frequentano le curve nostrane. La Germania è il caso di scuola, gli Stati Uniti inseguono con la spaccatura sulla comunione da dare o negare a Biden e ai cattolici liberal pro choice: lo si è visto a giugno, con i vescovi collegati su Zoom che dicevano sì o no alla linea dura. Lo si è visto in occasione del Sinodo sull’amazzonia, partito con obiettivi nobili e temi davvero incarnati nella realtà delle popolazioni interessate e finito con le lotte sui viri probati, le diaconesse da istituire visto che nei tempi antichi forse esistevano ( ci sono commissioni al lavoro su questo, intente a cercare appigli storici per clericalizzare le donne, andando così paradossalmente contro le linee- guida date dal Pontefice, che ha sempre parlato di valorizzazione delle figure femminili nella Chiesa) e i presuli tedeschi pronti ad assicurare a radio e giornali che ogni decisione adottata per le Chiese della regione sudamericana sarebbe stata importata in Europa e ovunque nel mondo, scordandosi del principio bergogliano secondo cui il mondo è un poliedro complesso in cui ogni faccia è diversa l’una dall’altra e non una sfera dove tutto è uguale e ogni punto è equidistante dal centro.

In tutti questi tre casi di immobilismo ce n’era ben poco: il mulino, soprattutto in Germania e nell’assise amazzonica, era alimentato da proposte non nuove ma comunque tese a rimuovere la polvere depositata sugli antichi drappi di una stagione ormai passata. Muoversi per innovare e riformare, per ridare slancio a un corpaccione infiacchito e non più seducente. Eppure, il risultato è stato che anziché raggiungere l’esaltazione della partecipazione vera e corale, si è fomentato il caos. Anziché incamminarsi strutturalmente verso una Chiesa sinodale “dove tutti si sentano a casa e possano partecipare” ( obiettivo papale), il fossato tra i fronti contrapposti si è allargato. Il salvagente, se la barca dovesse iniziare ad avere problemi durante la navigazione, il Papa l’ha comunque lanciato. Due anni e mezzo fa, preoccupato per la piega che gli eventi stavano prendendo in Germania, scrisse che “gli interrogativi presenti, come pure le risposte che diamo, esigono una lunga fermentazione della vita e la collaborazione di tutto un popolo per anni. Ciò porta a generare e mettere in atto processi che ci costruiscano come popolo di Dio, più che la ricerca di risultati immediati che generino conseguenze rapide e mediatiche, ma effimere per mancanza di maturazione o perché non rispondono alla vocazione alla quale siamo chiamati”. E’ una sorta di altolà, rispettoso delle legittime aspirazioni di ciascuno, a cercare di ribaltare il tavolo. Un velato richiamo a chi può essere tentato di caricare un’assemblea sinodale di aspettative troppo alte, tali poi da suscitare comprensibili sentimenti di delusione tra clero e fedeli laici se gli alti obiettivi non si raggiungono.

Il punto di partenza è un’evidenza. Il Papa ne parlò alla curia romana, in occasione degli auguri nataliz i del dicembre 2019: “Non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – spe – cialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata”. Il discorso era diretto ai vescovi e al clero in generale, ma è facilmente estendibile a tutti. Capire che il tempo della cristianità è finito ( e non da ieri) è qualcosa di non scontato. Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptoris missio ( 1990), scrisse che “oggi la Chiesa deve affrontare altre sfide, proiettandosi verso nuove frontiere sia nella prima missione ad gentes sia nella nuova evangelizzazione di popoli che hanno già ricevuto l’annuncio di Cristo”. C’è bisogno – aggiungeva Wojtyla – “di una nuova evangelizzazione, o rievangelizzazione”. Basterebbero queste poche frasi per tenere lontano lo spettro di un Sinodo universale ridotto a congresso di studi per intellettuali del settore, convention ecclesiale o centro di ascolto diocesano dove registrare lamentele di laici impegnati e proposte innovative non di rado stravaganti. Non dimenticando che quando Paolo VI istituì il Sinodo dei vescovi, nel 1965, mise nero su bianco che tra suoi fini generali c’è quello di “rendere più facile l’accordo delle opinioni almeno circa i punti essenziali della dottrina e circa il modo d’agire nella vita della Chiesa”.

Matteo Matzuzzi per il Foglio Quotidiano

I TRE COVID DI PAPA FRANCESCO

I TRE COVID DI PAPA FRANCESCO

Papa Francesco racconta i suoi momenti di difficoltà: nella mia vita ho avuto tre situazioni “Covid”: la malattia, la Germania e Córdoba.

Quando a ventun anni ho contratto una grave malattia, ho avuto la mia prima esperienza del limite, del dolore e della solitudine. Mi ha cambiato le coordinate. Per mesi non ho saputo chi ero, se sarei morto o vissuto. Nemmeno i medici sapevano se ce l’avrei fatta. Ricordo che un giorno chiesi a mia madre, abbracciandola, di dirmi se stavo per morire. Frequentavo il secondo anno del seminario diocesano a Buenos Aires.

La malattia, l’acqua nei polmoni

Ricordo la data: era il 13 agosto 1957. A portarmi in ospedale fu un prefetto, accortosi che non avevo il tipo di influenza che si cura con l’aspirina. Per prima cosa mi estrassero un litro e mezzo di acqua da un polmone, poi restai a lottare tra la vita e la morte. A novembre mi operarono per togliermi il lobo superiore destro del polmone. So per esperienza come si sentono i malati di coronavirus che combattono per respirare attaccati a un ventilatore.

Di quei giorni ricordo in particolare due infermiere. Una era la caposala, una suora domenicana che prima di essere inviata a Buenos Aires era stata docente ad Atene. Ho saputo in seguito come, dopo che il medico se ne andò una volta concluso il primo esame, sia stata lei a dire alle infermiere di raddoppiare la dose del trattamento che lui aveva prescritto – a base di penicillina e di streptomicina – perché la sua esperienza le diceva che stavo morendo. Suor Cornelia Caraglio mi salvò la vita. Grazie al suo contatto abituale con i malati, conosceva meglio del medico ciò di cui avevano bisogno i pazienti, ed ebbe il coraggio di usare quell’esperienza.

Un’altra infermiera, Micaela, fece la stessa cosa quando ero straziato dal dolore. Mi dava in segreto dosi extra di calmanti, fuori dell’orario previsto. Cornelia e Micaela ormai sono in cielo, ma sarò sempre in debito con loro. Si sono battute per me fino alla fine, finché non mi sono ripreso. Mi hanno insegnato che cosa significa usare la scienza e sapere andare anche oltre, per rispondere alle necessità specifiche.

Da quella esperienza ho imparato un’altra cosa: quanto sia importante evitare la consolazione a buon mercato. Le persone mi venivano a trovare e mi dicevano che sarei stato bene, che non avrei mai più provato tutto quel dolore: sciocchezze, parole vuote dette con buone intenzioni, ma che non mi sono mai arrivate al cuore. La persona che più mi ha toccato nell’intimo, con il suo silenzio, è stata una delle donne che mi hanno segnato la vita: suor María Dolores Tortolo, mia insegnante da piccolo, che mi aveva preparato per la Prima Comunione. Venne a vedermi, mi prese per mano, mi diede un bacio e se ne stette zitta per un bel po’. Poi mi disse: «Stai imitando Gesù». Non c’era bisogno che aggiungesse altro. Dopo quell’esperienza presi la decisione di parlare il meno possibile quando visito malati. Mi limito a prendergli la mano.

All’estero: la solitudine che ti fa estraneo

Potrei dire che il periodo tedesco, nel 1986, è stato il “Covid dell’esilio”. Fu un esilio volontario, perché ci andai per studiare la lingua e a cercare il materiale per concludere la mia tesi, ma mi sentivo come un pesce fuor d’acqua. Scappavo a fare qualche passeggiatina verso il cimitero di Francoforte e da lì si vedevano decollare e atterrare gli aeroplani; avevo nostalgia della mia patria, di tornare. Ricordo il giorno in cui l’Argentina vinse i Mondiali. Non avevo voluto vedere la partita e seppi che avevamo vinto solo l’indomani, leggendolo sul giornale. Nella mia classe di tedesco nessuno ne fece parola, ma quando una ragazza giapponese scrisse «Viva l’Argentina» sulla lavagna, gli altri si misero a ridere. Entrò la professoressa, disse di cancellarla e chiuse l’argomento.

Era la solitudine di una vittoria da solo, perché non c’era nessuno a condividerla; la solitudine di non appartenere, che ti fa estraneo.

Senza uscire: una specie di quarantena

A volte lo sradicamento può essere una guarigione o una trasformazione radicale. Così è stato il mio terzo “Covid”, quando mi mandarono a Córdoba dal 1990 al 1992. La radice di questo periodo risaliva al mio modo di comandare, prima da provinciale e poi da rettore. Qualcosa di buono senz’altro lo avevo fatto, ma a volte ero stato molto duro. A Córdoba mi hanno reso il favore e avevano ragione.

In quella residenza gesuita trascorsi un anno, dieci mesi e tredici giorni. Celebravo la Messa, confessavo e offrivo direzione spirituale, ma non uscivo mai, se non quando dovevo andare all’ufficio postale. Fu una specie di quarantena, di isolamento, come nei mesi scorsi è successo a tanti di noi, e mi fece bene. Mi portò a maturare idee: scrissi e pregai molto.

Fino a quel momento nella Compagnia avevo avuto una vita ordinata, impostata sulla mia esperienza dapprima da maestro dei novizi e poi di governo dal 1973, quando ero stato nominato provinciale, al 1986, quando conclusi il mio mandato di rettore. Mi ero accomodato in quel modo di vivere. Uno sradicamento di quel tipo, con cui ti spediscono in un angolo sperduto e ti mettono a fare il supplente, sconvolge tutto. Le tue abitudini, i riflessi comportamentali, le linee di riferimento anchilosate nel tempo, tutto questo è andato all’aria e devi imparare a vivere da capo, a rimettere insieme l’esistenza. Il “Covid” di Córdoba è stato una vera purificazione. Mi ha dato più tolleranza, comprensione, capacità di perdonare. Mi ha lasciato anche un’empatia nuova con i deboli e gli indifesi. Questi sono stati i miei principali “Covid” personali. Ne ho imparato che soffri molto, ma se lasci che ti cambi ne esci migliore. Se invece alzi le barricate, ne esci peggiore.

A cura della Redazione di Avvenire.it

DIALOGO CON FRATELLO VIRUS

DIALOGO CON FRATELLO VIRUS

ASPETTANDO IL VACCINO SENTIAMO LA VOCE DEL POVERELLO CHE DIALOCA CON FRATELLO LUPO; PER QUESTE FESTE RILEGGIAMO PAPA FRANCESCO IN VERSIONE ECOLOGISTA E CONVINCIAMOCI CHE POSSIAMO ESSERE VERAMENTE FRATELLI TUTTI.

In una recente intervista su Radio 3 è stato chiesto a Chiara Frugoni, esperta medievalista e storica della Chiesa, in particolare della figura di San Francesco, se, vivendo il Santo nei nostri giorni, egli avrebbe chiamato fratello il virus Covid.

La storica ha esitato nella risposta, poi ha detto incerta che no, forse San Francesco non avrebbe considerato fratello il virus, volendolo personificare.

Lo spunto veniva dal racconto del fratello lupo di Gubbio, che il Santo avrebbe ammansito e riconciliato con gli abitanti di quella città. Ma c’è qualche similitudine fra il Covid e il lupo di quel fioretto francescano?

Così come il lupo scorrazzava per la città, costringendo gli abitanti spaventati a stare chiusi in casa, allo stesso modo fa oggi il virus, costringendoci al lookdown.

La stessa paura che noi abbiano del virus avevano allora i cittadini di Gubbio.  Angosciati loro come oggi angosciati sono molti di noi.

Allora intervenne provvidenzialmente il Santo, oggi aspettiamo tutti trepidanti che intervenga il Vaccino.

Certo, noi non possiamo parlare al virus come Francesco fece col lupo, con queste parole. “Vieni qui frate lupo, io ti comando dalla parte di Cristo che tu non facci male né a me né a persona…Frate lupo, tu fai molti danni in queste parti, e hai fatti grandi malifici, guastando e uccidendo le creature di Dio sanza sua licenza…ma hai avuto ardire d’uccidere uomini fatti alla immagine di Dio; per la qual cosa tu se’ degno delle forche come ladro e omicida pessimo.” (Cronaca san Verecondo).

Purtroppo per noi la questione è più complicata. Abbiamo per fortuna un altro Francesco, uomo eminentissimo e Papa assai amato, che parla ai potenti delle terra, ma, sembrerebbe, con meno fortuna di Francesco col lupo.

A Gubbio, circa 800 anni fa, si saranno chiesti: ma perché è toccata a noi questa bestia feroce? Lo stesso facciamo oggi noi. Allora quella bestia spaventosa sarà apparsa il giusto castigo per i tanti peccati. Oggi per noi, uomini pratici, l’obiettivo è uno solo: scoprire il mandante, non potendo nemmeno vedere l’arma con cui colpisce l’esecutore.

Qui le cose si complicano, perché la ricerca del mandante ci porta, secondo parecchi scienziati, economisti, filosofi della scienza, a individuare a colpo sicuro il colpevole: noi stessi. Chi è causa del suo mal pianga se stesso, dice il proverbio. Il mercato del pesce di Wuhan è l’atto primigenio, la genesi di una storia che pare destinata a scrivere il secolo XXI.

La domanda allora diventa: se il vaccino ci libera e ci protegge, chi ci proteggerà da noi stessi?

Il documento profetico che anticipa questa storia potrebbe essere, a rigore, per analogia tematica e cronologica, l’enciclica “ecologica” di Papa Francesco Laudato si’, in cui, ispirato da San Francesco, il Papa denuncia i mali della terra.

Nell’enciclica, sulla quale finora poco si è riflettuto, il Papa fa un’analisi dettagliata dei mali della economia globalizzata, del consumismo, delle diseguaglianze, della cecità che ha portato l’uomo a credersi signore e padrone della terra per sfruttarla oltre il lecito e il possibile. Ma dà anche una serie di risposte, alcune prevedibili, altre che suscitano scetticismo e la cui realizzazione appare quanto meno problematica.

Nel 1950 don Primo Mazzolari, proprio prendendo spunto dal fioretto di San Francesco e il lupo di Gubbio, affermava: «Solo chi ama il lupo può parlare al lupo. Noi cristiani ci siamo dimenticati di una cosa: gli uomini si amano come sono, non come dovrebbero essere».

Forse la forza di San Francesco è stata semplicemente questa: amare tutte le cose, al di là della fratellanza, intesa come appartenenza alla stessa specie, perché solo così si potranno avere i giusti rapporti fra gli uomini e fra quest’ultimi e le cose del creato.

Clara, una monaca clarissa, ha scritto: Il “Fioretto” di Francesco è una perla di saggezza, di realismo, di umanità, di vangelo: esso ci mostra che la fecondità delle nostre relazioni dipende dalla nostra disponibilità a farci prossimi, dalla nostra apertura mentale e dalla nostra convinzione che l’altro, anche se diverso, è innanzitutto un fratello che mi appartiene e del quale io sono chiamato a renderne conto; parimenti anche le condizioni più pericolose e sofferte della vita possono trasformarsi, nel nome del Signore, in momenti di grande grazia e ciò che ci appariva cattivo può rivelarsi amico e sostegno nel cammino della vita”.   (tratto dal sito www.santalessandro.org)

Amare gli uomini e le cose così come sono non vuole dire rassegnata accettazione, anzi! San Francesco proprio perché accetta il lupo riesce ad ammansirlo, a cambiarlo, a farlo accettare degli eugubini, pur nella sua diversità.

Si apre, a questo punto, una dimensione che non è più solo ecologica o religiosa, ma politica.

Ha scritto Padre Pietro Maranesi, docente alla scuola superiore di religione in Assisi: “Se la fede non ha uno sguardo laico sui processi politici della polis, non ha molto significato. Se il nostro sguardo fosse esclusivamente rivolto a Dio, la fede non avrebbe molto senso. (corsivo mio). L’esperienza della fede ci deve permettere di diventare più umani, di fare progetti per la nostra società, per l’umanità, di avvicinarci. Dialogare, mediare, fare della fede uno strumento per il confronto è la base della crescita. Come dice Papa Francesco: dialogare con tutti è ciò che fa la differenza”.

Padre Pietro Maranesi

Circa la natura di tale antropologia relazionale è ancora la parola di Papa Francesco a illuminarci la strada, con ammirevole coerenza e semplicità.

Il cuore dell’ultima sua enciclica Fratelli tutti, sfrondata da tutti i richiami dottrinali, è questo: la coscienza della comune paternità in Dio. Se siamo suoi figli non possiamo che dirci e sentirci fratelli.

La fraternità, come atto di ri-conoscenza e reciproca accettazione è il primo atto politico. Le società, i modelli di governo, di economia e tutte le altre regole che disciplinano i rapporti fra Stato, cittadini e persone sono conseguenti e vengono dopo, come fatti meramente strumentali.

Il concetto di fraternità esposto da Papa Francesco è ricco di spunti per una “chiesa in uscita missionaria”, così come decritta nel suo decalogo. Ma “odorando [essa] di popolo e di strada” questo concetto apre prospettive per un dialogo vero, come mai forse la Chiesa ha fatto nella sua storia millenaria.

Come padre Gian Luigi Pasquale sottolinea nel suo commento a Fratelli tutti, (vitaconsacrata n. 1/2021) la fratellanza di Papa Francesco non è autarchica, autosufficiente. Essa si sostanzia nel dialogo alla pari con tutti “così come siamo”, che è anche ricerca non dogmatica per trovare nella nostra coscienza e come fratelli quella verità trascendente sulla quale si fonda la fratellanza stessa.

Padre Gian Luigi Pasquale

Come dice il Papa, senza la volontà politica di fratellanza la libertà della persona si svilisce; l’uguaglianza se affermata in astratto “fra i soci” non è mai tale, poiché essa va consapevolmente e deliberatamente coltivata.

Solo il comune riconoscimento di tale verità potrà consentire agli uomini “così come sono” di attuare nel mondo la giusta contemperanza fra libertà e uguaglianza, grazie all’equilibrio che il considerarsi fratelli potrà garantire.

Scrive il Papa nella sua enciclica (n. 180 di Fratelli tutti) che “riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie”. L’amore diventa così “amore politico”, dando vita a processi di fraternità e di giustizia, entrando “nel campo della più vasta carità, della carità politica”.. che è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune”.

Un altro pensatore, laico, Umberto Galimberti (1942), riflettendo sul nichilismo e i giovani (L’ospite inquietante, Feltrinelli 2009, pag. 30), rifiutando come Papa Francesco l’utopia modernista dell’onnipotenza umana, afferma che la visione ottimistica secondo la quale la storia dell’umanità sarebbe inevitabilmente una storia di progresso e quindi di salvezza è crollata. “Dio è davvero morto e i suoi eredi (scienza, utopia, rivoluzione) hanno mancato la promessa”. Conclude Galimberti: “ La strada da seguire è un’altra: quella della costruzione di legami affettivi e di solidarietà capaci di spingere le persone fuori dall’isolamento nella quale la società tende a rinchiuderle, in nome degli ideali individualistici”. E’ la fratellanza su cui richiama l’attenzione il Papa. 

Umberto Galimberti

Queste parole, se da un lato incoraggiano gli uomini di buona volontà, dall’altro ci danno la misura della decadenza dei tempi, dello scadere dell’etica pubblica, di quanto sia indifferibile ed urgente “pensare e generare un mondo aperto”, un mondo inedito.

C’è un libro che mi ha influenzato molto e che ancora rileggo volentieri, fra mille sottolineature: La terra del tramonto di Ernesto Balducci (1922-1992), padre scolopio che ebbi piacere di conoscere, amico di La Pira, Davide Maria Turoldo e don Milani.

Balducci teorizza la figura dell’uomo inedito, cioè di colui in cui si realizzeranno tutte le potenzialità nascoste, inespresse benché già presenti, nell’uomo d’oggi.

Padre Ernesto Balducci

“Il tempo dell’uomo inedito è il futuro, cioè quel momento in cui passeranno all’atto le possibilità fino a oggi rimaste escluse dal cerchio del possibile storico.  Il futuro dell’uomo inedito è il tempo che ci viene incontro portando con sé, come possibilità oggettive, nuovi modi di essere rispondenti alle possibilità soggettive latenti in noi.. Ci manca- ed è questo il nostro vero dramma- una mappa delle possibilità umane, perché siamo imprigionati in un’immagine univoca di uomo costruita e imposta, dalla cultura in cui siamo cresciuti” (o.c. edizioni ECP,p. 55).

Forse la mappa “delle possibilità umane” ora l’abbiamo, grazie a Papa Francesco; converrebbe tentare di costruire quest’uomo inedito, tutti insieme. L’avvento del regno di Dio, più che in cielo, dobbiamo cominciare a cercarlo dentro di noi.

IL FUTURO DELL’ECONOMIA SOSTENIBILE

IL FUTURO DELL’ECONOMIA SOSTENIBILE

SECONDO APPUNTAMENTO AD ASSISI VOLUTO DAL PAPA -Il summit era slittato per il Covid dallo scorso marzo. Arrivati nella città umbra duemila giovani economisti e imprenditori da 120 paesi. Relazioni anche di premi Nobel ed economisti di fama mondiale. Video messaggio del Papa.

(AFP)
(AFP)

Assisi è immersa nel silenzio mentre arriva l’invasione pacifica degli oltre duemila giovani economisti e imprenditori di tutto il mondo, mischiati a premi Nobel e accademici celebri. Convocati dal Papa per ridisegnare un futuro possibile dell’economia a misura di uomo e d’ambiente. Una sfida che sapora di utopia, ma che nel mezzo della tragedia della pandemia può essere un trampolino di idee possibili. Si è aperta il 19 novembre la prima della tre giorni di The Economy of Francesco, evento internazionale con al centro il Sacro Convento della città umbra, che avrebbe dovuto svolgersi in presenza e che si apre ora anche in streaming. Un summit che già da tempo è stato ribattezzato la “Davos francescana”, pensando sia al Santo che al Pontefice, e in particolare alle sue encicliche Laudato Si’ (2015) e Fratelli Tutti (2020).

Duemila giovani da 120 paesi, quasi la metà donne

Una chiamata alla quale hanno risposto da tutto il mondo. Dalla Guyana, dove c’è chi difende i diritti delle culture indigene sapendo che da lì passa il progresso, dai giovani del Sud Africa che guardano ai bisogni dei poveri perché è nella lotta alle disuguaglianze che si costruisce la fraternità, dall’Uganda dove, investendo nel microcredito, si conquista il diritto di far sentire la propria voce e di far crescere così una società più inclusiva e attenta alle donne.

C’è l’Argentina di Papa Francesco con una fabbrica di cioccolatini che guarda al bene degli operai più che al profitto. Tremila candidature sono arrivate da 120 Paesi: studenti, dottorandi, ricercatori, imprenditori di start-up, i cosiddetti “changemakers”, coloro che sono capaci di creare cambiamenti con un forte impatto sociale e quindi, in questo caso, promotori di attività economiche che mirano al bene comune. Un tessuto sociale attivo, entusiasta e ricco di proposte in ambiti diversi dalle nuove tecnologie, all’intelligenza artificiale, dal consumo responsabile alla tutela dell’ambiente. Duemila i giovani – : il 56% sono uomini e il 44% donne all’evento – ricorda Vatican News – organizzato con il contributo del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, della diocesi di Assisi, dell’Istituto Serafico, del comune di Assisi e con il supporto di Economia di Comunione.

Tra i relatori Jeffrey Sachs e il premio Nobel Yunus

Gli incontri online hanno visto la partecipazione di importanti relatori internazionali. Ad aprire le conferenze è stato l’economista Jeffrey Sachs, con “Perfecting Joy: three proposals to let life flourish”. Nel corso dell’evento è stata presentata la proposta di un Child Flourish Index, un indice per valutare il benessere dei bambini. Lo stesso prof. Sachs si è detto disponibile a collaborare al progetto: «Il Network per lo Sviluppo Sostenibile che dirigo ha elaborato diversi indici che riguardano la felicità, sulla base di dati e indicatori che riguardano anche il benessere infantile. Abbiamo bisogno di modalità pionieristiche e alcune di queste possono essere molto utili. Ci sono modalità nel mondo interconnesso che ci consentono di ottenere oggi queste informazioni da elaborare per poi proporre soluzioni agli operatori politici». La conclusione sabato con il messaggio di Papa Francesco. Previste conferenze con relatori tra cui il premio Nobel Muhammad Yunus e ancora, tra gli altri, economisti ed esperti quali Kate Raworth, Vandana Shiva, Stefano Zamagni, Mauro Magatti, Juan Camilo Cardenas, Jennifer Nedelsky, Sr. Cécile Renouard

Luigino Bruni: “Fino ad oggi siamo cresciuti distruggendo il pianeta”

Alla vigilia dell’incontro Luigino Bruni, professore alla Lumsa e responsabile scientifico dell’evento, ha rilasciato un’intervista a Vatican News. «La crescita è una delle parole chiave di quest’incontro, ma è anche una parola ambivalente, perché non tutte le crescite sono buone, come sappiamo. Anche i tumori possono crescere: ma non sono certo un fenomeno positivo» ha detto. Quindi «ci può essere una crescita che va bene: la crescita del benessere, dei beni relazionali, dei beni comuni… Ma non tutte le crescite sono buone in assoluto. Noi, ad esempio, siamo “cresciuti”, negli ultimi quarant’anni, distruggendo il pianeta, perché non mettevamo in conto gli effetti della crescita.

Eravamo tutti contenti di un PIL che cresceva del 3 o 4% l’anno. Peccato che mentre cresceva stavamo distruggendo l’ambiente naturale attorno a noi. Quindi certamente bisogna crescere, ma bisogna anche pensare allo sviluppo, a tante altre parole che non sono soltanto di tipo quantitativo. Perché quando si parla di crescita c’è sempre l’enorme problema che la si misura solo in numeri, in quantità, mentre tante dimensioni della vita umana si misurano in “qualità”. Un concetto che non rientra nelle contabilità nazionali ma che è essenziale».

Articolo di di Carlo Marroni per Il Sole 24 Ore

IL VIDEO MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO A CONCLUSIONI DEI LAVORI

L’economia di Francesco si è concluso ad Assisi con il video messaggio di papa Francesco al termine dei lavori dei gruppi dei giovani con le sessioni ‘Vocation and Profit Tool Box’, ‘Young enough to change the world’ e ‘We are all developing countries’, a cui hanno partecipato gli economisti Kate Raworth e John Perkins. Nel video messaggio il papa ha ringraziato i giovani per il lavoro svolto: “Non vi siete scoraggiati, anzi, ho conosciuto il livello di riflessione, la qualità, la serietà e la responsabilità con cui avete lavorato: non avete tralasciato nulla di ciò che vi dà gioia, vi preoccupa, vi indigna e vi spinge a cambiare”.

Poi ha spiegato l’idea originaria dell’incontro: “L’idea originaria era di incontrarci ad Assisi per ispirarci sulle orme di San Francesco. Dal Crocifisso di san Damiano e da tanti altri volti, come quello del lebbroso, il Signore gli è andato incontro, lo ha chiamato e gli ha affidato una missione; lo ha spogliato degli idoli che lo isolavano, delle perplessità che lo paralizzavano e lo chiudevano nella solita debolezza del ‘si è sempre fatto così’ (questa è una debolezza!) o della tristezza dolciastra e insoddisfatta di quelli che vivono solo per sé stessi e gli ha regalato la capacità di intonare un canto di lode, espressione di gioia, libertà e dono di sé. Perciò, questo incontro virtuale ad Assisi per me non è un punto di arrivo ma la spinta iniziale di un processo che siamo invitati a vivere come vocazione, come cultura e come patto”.

La vocazione del santo assisate è nata proprio da una sollecitudine a riparare: “Quando vi sentite chiamati, coinvolti e protagonisti della ‘normalità’ da costruire, voi sapete dire ‘sì’, e questo dà speranza. So che avete accettato immediatamente questa convocazione, perché siete in grado di vedere, analizzare e sperimentare che non possiamo andare avanti in questo modo: lo ha mostrato chiaramente il livello di adesione, di iscrizione e di partecipazione a questo patto, che è andato oltre le capacità”.

Rivolgendosi ai giovani ha chiesto loro l’impegno: “Voi manifestate una sensibilità e una preoccupazione speciali per identificare le questioni cruciali che ci interpellano. L’avete fatto da una prospettiva particolare: l’economia, che è il vostro ambito di ricerca, di studio e di lavoro. Sapete che urge una diversa narrazione economica, urge prendere atto responsabilmente del fatto che ‘l’attuale sistema mondiale è insostenibile da diversi punti di vista’ e colpisce nostra sorella terra, tanto gravemente maltrattata e spogliata, e insieme i più poveri e gli esclusi. Vanno insieme: tu spogli la terra e ci sono tanti poveri esclusi. Essi sono i primi danneggiati… e anche i primi dimenticati”.

L’impegno produce una cultura nuova, capace di cambiamento: “Abbiamo bisogno di un cambiamento, vogliamo un cambiamento, cerchiamo un cambiamento. Il problema nasce quando ci accorgiamo che, per molte delle difficoltà che ci assillano, non possediamo risposte adeguate e inclusive; anzi, risentiamo di una frammentazione nelle analisi e nelle diagnosi che finisce per bloccare ogni possibile soluzione”.

La cultura stimola nuove visioni: “In fondo, ci manca la cultura necessaria per consentire e stimolare l’apertura di visioni diverse, improntate a un tipo di pensiero, di politica, di programmi educativi, e anche di spiritualità che non si lasci rinchiudere da un’unica logica dominante. Se è urgente trovare risposte, è indispensabile far crescere e sostenere gruppi dirigenti capaci di elaborare cultura, avviare processi – non dimenticatevi questa parola: avviare processi – tracciare percorsi, allargare orizzonti, creare appartenenze”.

L’incontro sconfigge l’indifferenza: “Questo esercizio di incontrarsi al di là di tutte le legittime differenze è il passo fondamentale per qualsiasi trasformazione che aiuti a dar vita a una nuova mentalità culturale e, quindi, economica, politica e sociale; perché non sarà possibile impegnarsi in grandi cose solo secondo una prospettiva teorica o individuale senza uno spirito che vi animi, senza alcune motivazioni interiori che diano senso, senza un’appartenenza e un radicamento che diano respiro all’azione personale e comunitaria”.

Il futuro quindi può essere un tempo ‘speciale’: “No, non siamo costretti a continuare ad ammettere e tollerare in silenzio nei nostri comportamenti ‘che alcuni si sentano più umani di altri, come se fossero nati con maggiori diritti’ o privilegi per il godimento garantito di determinati beni o servizi essenziali.

Non basta neppure puntare sulla ricerca di palliativi nel terzo settore o in modelli filantropici. Benché la loro opera sia cruciale, non sempre sono capaci di affrontare strutturalmente gli attuali squilibri che colpiscono i più esclusi e, senza volerlo, perpetuano le ingiustizie che intendono contrastare. Infatti, non si tratta solo o esclusivamente di sovvenire alle necessità più essenziali dei nostri fratelli.

Occorre accettare strutturalmente che i poveri hanno la dignità sufficiente per sedersi ai nostri incontri, partecipare alle nostre discussioni e portare il pane alle loro case. E questo è molto più che assistenzialismo: stiamo parlando di una conversione e trasformazione delle nostre priorità e del posto dell’altro nelle nostre politiche e nell’ordine sociale”.

Per il papa il futuro è in ‘gestazione’: “Un futuro imprevedibile è già in gestazione; ciascuno di voi, a partire dal posto in cui opera e decide, può fare molto; non scegliete le scorciatoie, che seducono e vi impediscono di mescolarvi per essere lievito lì dove vi trovate.

Niente scorciatoie, lievito, sporcarsi le mani. Passata la crisi sanitaria che stiamo attraversando, la peggiore reazione sarebbe di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di autoprotezione egoistica. Non dimenticatevi, da una crisi mai si esce uguali: usciamo meglio o peggio”.

Il messaggio conclusivo è l’invito a dar vita ad una economia capace di visione: “Facciamo crescere ciò che è buono, cogliamo l’opportunità e mettiamoci tutti al servizio del bene comune. Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più ‘gli altri’, ma che impariamo a maturare uno stile di vita in cui sappiamo dire ‘noi’…

Non temete di coinvolgervi e di toccare l’anima delle città con lo sguardo di Gesù; non temete di abitare coraggiosamente i conflitti e i crocevia della storia per ungerli con l’aroma delle Beatitudini. Non temete, perché nessuno si salva da solo. Nessuno si salva da solo.

A voi giovani, provenienti da 115 Paesi, rivolgo l’invito a riconoscere che abbiamo bisogno gli uni degli altri per dar vita a questa cultura economica, capace di far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani, e ispiri ai giovani – a tutti i giovani, nessuno escluso – la visione di un futuro ricolmo della gioia del Vangelo”.

Francesco

Articolo di Simone Baroncia su Korazyn.org

CONTRO IL FONDAMENTALISMO DELLO SVILUPPO

CONTRO IL FONDAMENTALISMO DELLO SVILUPPO

 

QUANDO LO SVILUPPO DIVENTA INDEFINITO E FINE A SE STESSO, PRENDE IL SOPRAVVENTO SULL’UOMO E LO RENDE NEMICO DI SE’ E DELLA NATURA- RIEQUILIBRIO NELL’USO DELLE RISORSE E ECOLOGIA INTEGRALE SONO LE RISPOSTE AL DOMINIO DELLA TECNICA E ALL’IDEOLOGIA FONDAMENTALISTA DEL MERCATO

 

Ancora negli anni ’60 del secolo scorso, Aurelio Peccei, alla testa del Club di Roma, si pose la domanda sui limiti dello sviluppo fornendo un rapporto analitico e oggettivo che fece molto discutere. Già allora era evidente che l’idea di fondo che aveva mosso il mondo occidentale dall’avvento delle macchine ad allora, era sbagliata e pericolosa.

Aurelio Peccei

Aurelio Peccei

In un contesto limitato di risorse, i meccanismi di sfruttamento e di consumo non potevano che essere delimitati. L’idea delle “magnifiche sorti e progressive” è un poetico modo di dire, ma non funziona nella realtà. Oramai è chiaro che lo sviluppo dell’Occidente è stato possibile, certamente per un insieme di favorevoli condizioni, ma l’affermarsi incontrastato dell’idea di fondo della continua e illimitata crescita, ideologia e dogma del liberalismo, riassunto nell’iconico PIL, ha avuto il suo presupposto nell’insito meccanismo sperequante che lo ha alimentato: sottraggo di qua per alimentare di là. E quando il sottrarre non è stato più materialmente possibile o conveniente, secondo la logica imperante del mercato, allora entrava ed entra in scena la tecnica, questo deus ex machina che oggi ci domina incontrastato, che promette sempre nuove e mirabolanti scoperte, quasi a volere trasformare il vile metallo in oro lucente, rimarginare ogni ferita inferta alla natura dall’uomo, e da ultimo promettere all’uomo qualcosa vicino alla immortalità, o almeno alla sua ragionevole pretesa.

Modello ideale di Fabbrica

Oggi possiamo affermare, spento il fumo delle operose ciminiere e sottratti al fascino delle officine, tanto decantate dai futuristi, che lo sviluppo indeterminato è non solo un’utopia, ma un male. L’opinione pubblica è oggi meno disattenta di ieri, soprattutto i giovani, che si mobilitano per scuotere le coscienze dei potenti. Già si parla, in ambito cattolico, di inserire fra i peccati quello di “peccato ecologico”.

Nel documento preparatorio del recente sinodo sull’Amazzonia si legge che: “La cultura imperante del consumo e dello scarto trasforma il pianeta in una grande discarica. Il Papa denuncia questo modello di sviluppo come anonimo, asfissiante, senza madre; ossessionato soltanto dal consumo e dagli idoli del denaro e del potere”

L’alternativa non è il pauperismo. La verità è che nessuno di noi uomini evoluti è disposto a rinunciare ad abbondanza e comodità, a tirare, insomma, la cinghia, come di diceva una volta. Col risultato certo di fare avere meno a chi ha già avuto meno. Quello che serve è prendere atto che il futuro dell’uomo sulla terra potrà esserci a due perentorie condizioni: che l’uomo e la sua attività siano armonizzati con il creato e che le opportunità e la distribuzione delle risorse siano riequilibrate. Una nuova civiltà globale che rifiuta quello che sempre di più appare il fondamentalismo dello sviluppo.

Riequilibrio e ecologia integrale, cioè sviluppo sì, ma armonico, questo l’unico scenario compatibile. Ne saremo capaci?

 

 

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