DOMENICO, ESTETA SELETTIVO

DOMENICO, ESTETA SELETTIVO

Domenico Gnoli

La mia lunga residenza sul Pianeta Terra mi regala continue sorprese. Una di queste, accaduta alla Fondazione Prada di Milano, carezza la forma di una veggenza (ovvero, l’intuizione larga sul nostro presente) attraverso un artista che raccontava quanto di più normale ci fosse nella giornata di una famiglia borghese negli anni Sessanta.

Domenico Gnoli (Roma , 1933 – New York, 1970) era un pittore con uno spiccato feticismo per il dettaglio dentro lo sguardo, artefice quasi algebrico di un close-up metafisico che lo avvicinava ai pezzi facili, ma mai scontati, di una tipica abitazione italiana. L’artista, con modi da biologo cellulare, dipingeva l’identikit poetico dei corpi: uomini e donne, giovani o adulti, osservati con la chirurgica visuale di una lente che ingrandiva al parossismo i dettagli di abiti sartoriali, camicie e colletti, scarpe in cuoio, cravatte, soprabiti, asole e risvolti ma anche pettinature di foggia scolaresca e ben modellata.

La mostra (dal 27 ottobre 2021 al 27 febbraio 2022) si presenta come una retrospettiva che riunisce più di 100 opere realizzate da Domenico Gnoli (Roma, 1933 – New York, 1970) dal 1949 al 1969 e altrettanti disegni. Una sezione cronologica e documentaria con materiali storici, fotografie e altre testimonianze contribuisce a ricostruire il percorso biografico e artistico di Gnoli a più di cinquant’anni dalla sua scomparsa. La ricerca alla base del progetto concepito da Germano Celant è stata sviluppata in collaborazione con gli archivi dell’artista a Roma e Maiorca, custodi della storia personale e professionale di Gnoli. “Mi servo sempre di elementi dati e semplici, non voglio aggiungere o sottrarre nulla. Non ho neppure avuto mai voglia di deformare: io isolo e rappresento.” Domenico Gnoli

Poi, come un biologo appassionato di interior design, faceva il detective discreto sui complementi d’arredo: letti, divani, poltrone e tavoli, tovaglie, pavimenti e carte da parati, mantenendo il profilo lenticolare di una retina selettiva e gulliveriana, pronta ad ingrandire la natura domestica, creando l’idea fiabesca di un luogo dominato da oggetti incombenti e virali, come se la mela gigante di Magritte fosse uscita dalla camera per invadere le abitudini ritmiche di una società consumistica.

Durante gli anni Cinquanta il giovane Gnoli frequentò Parigi, Londra e New York, sperimentando la pittura tra contesti diversi, agganciandosi al teatro (costumi, scenografie, locandine, manifesti), giocando con gli esiti grafici dell’illustrazione, inventando storie oniriche e mondi con tracce fantasy. Fino al 1963 le pitture risentivano della cultura informale su cui si stava formando la generazione del Dopoguerra. Negli anni Cinquanta i soggetti erano aridi come deserti, sabbiosi e arcaici come archeologie del presente, giotteschi nella radice, drammaturgici nei colori di una terra che grondava il sangue dei morti. Poi arrivò il 1964, l’anno della Pop Art alla Biennale di Venezia, il momento in cui si stava disegnando un nuovo sguardo sul mondo. In quel frangente, mentre il colore ammorbidiva impasti e trame, le tele prendevano la luce calda degli interni domestici, una patina accogliente e familiare che accendeva l’occhio sulle piccole certezze di una borghesia lavoratrice e ottimista, segnata dalla violenza ma cicatrizzata per far crescere la pelle giovane del futuro.

La sua visione era archetipica e straniante, stella solitaria in un firmamento culturale che tendeva verso l’omologazione di generi e temi. Gnoli inventò la prima forma di un POP BORGHESE che mai si era visto finora.

Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia producevano le ragioni di una Pop Art detonante, proiettata verso la socialità del mondo esterno: le vetrine illuminate e le merci sugli scaffali (Andy Warhol e gli altri a New York), i feticci disintegrati della vita urbana (il Nouveau Réalisme in Francia), il feticismo erotico tra merci, corpi e mass media (Londra con la generazione di Richard Hamilton, Allen Jones, Peter Blake…), fino alla memoria artistica nel ciclo del presente (Roma con Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli…). In questo firmamento di stelle lisergiche spiccava Gnoli con le sue storie da interni familiari, con la sua morbidezza realistica e classicamente silenziosa, contraddizione risolta tra un dipingere nel solco della Storia e un approccio fotografico da outsider laterale.

Domenico Gnoli è vissuto troppo poco ma ha prodotto con un nitore selettivo da maestro di cerimonie estetiche, lasciando un patrimonio che indica molteplici direzioni dell’arte più attuale. Basti pensare al gigantesco serbatoio di opere digitali con tecnologia NFT, un ambito ancora oscillatorio in cui il feticismo ossessivo per i dettagli, sia organici che inorganici, incarna la natura di una generazione geneticamente sintetizzata. Gli autori digitali sembrano il prodotto binario di un genoma culturale che rende Gnoli il più veggente tra i pittori della sua generazione. Un visionario borghese che intuiva gli esiti del consumismo estremo, rifugiandosi nel caldo tepore di una casa accogliente, fuori dal caos militante, oltre le mode istantanee e le ideologie rivoluzionarie, nella morbida protezione di un divano davanti al camino. Possibilmente con un abito sartoriale addosso.

Articolo di Gianluca Marziani per Dagospia

IL CAPPOTTO

IL CAPPOTTO

Il racconto di Gogol’, i cimeli di Proust, il cinema. Quando un abito non ripara soltanto dal freddo, ma è la promessa di una rinascita

Quello verde mi è rimasto in mente più degli altri: lungo fino ai piedi, di una tonalità acida, quasi azzardata; di velluto ma effetto astrakan; da chiudere in vita e lasciare scivolare verso il basso con una svasatura piena di grazia. Tutti parlano dei cappotti di Nicole Kidman nella nuova serie Hbo The Undoing. Cappotti rossi e a quadri, sinuosi e abbondanti, cappotti ricamati da sera, alcuni argentati, alcuni creati cucendo pezzi di altri cappotti. Cappotti che dicono dell’umore di Grace, la psicologa che vive nell’Upper East Side e si ritrova coinvolta nelle indagini per l’omicidio di una donna, di cui suo marito Jonathan (Hugh Grant) sembra essere il principale indagato.

I cappotti sono molto di più di un capo di abbigliamento. Indossati ci ridisegnano, ci custodiscono; e infatti dei cappotti non ci dimentichiamo mai.

Gogol’, grandissimo autore russo, scrisse Il cappotto nel 1842: insieme ad altri quattro racconti (Il naso, Il ritratto, Le memorie di un pazzo e La Prospettiva Nevskij) fa parte dei Racconti di Pietroburgo. Akakij Akakièvic, il protagonista, non assomiglia affatto a Nicole Kidman, eppure sembra condividere una sua stessa passione. Akakièvic se ne sta seduto alla scrivania tutto il giorno a copiare documenti; compie ogni giorno, in modo sempre uguale le stesse azioni. E’ un eterno funzionario, scrive Gogol’, un povero diavolo che i colleghi notano appena, a stento gli rivolgono la parola. Ma Akakièvic non se ne cura, non gli interessa, a lui interessa solo il suo lavoro; non è un’abnegazione che ambisce a un futuro di successi, ricorda piuttosto un automatismo, un rituale nevrotico che lo definisce nel mondo. Fuori dal suo copiare, non esiste niente: quando torna a casa la sera dopo cena non legge, non riceve, non beve, ma si mette a copiare qualche documento. Quando si legge questo racconto la prima volta, si prova nei confronti del protagonista un moto di rifiuto, una specie di fastidio. E’ come se non ci fosse aria. Akakièvic è un personaggio noioso, grigio, da uno così non ti aspetti niente. Invece a un certo punto succede qualcosa di inaspettato. Un collega lo prende in giro per il suo vecchio cappotto: dice che se ne sta appeso senza vita, talmente liso da sembrare una vestaglia. Lo chiama proprio così: vestaglia. Akakièvic si decide allora ad andare dal sarto: l’inverno sta per arrivare, e l’inverno russo non è cosa da poco. Quello che ha non è neanche più un cappotto, dice il sarto, è destinato ad andare in pezzi: non c’è nulla da fare, bisogna farne uno nuovo, è irremovibile. Akakièvic non vorrebbe affrontare una spesa così impegnativa, forse si può rimediare con una toppa, una cucitura, un rammendo… ma poi accetta il consiglio del sarto e qualcosa in lui cambia radicalmente. Inizia a risparmiare, a fare ogni giorno piccoli sacrifici per mettere via la somma necessaria; inizia a coltivare un piccolo sogno. D’un tratto la sua esistenza si fa più piena, più vivace, è come se si fosse sposato: “Come se qualche altra persona vivesse con lui, come se non fosse più solo”. Il cappotto non è altro che un racconto sul desiderio. Il desiderio che muove la vita, che ci proietta fuori da noi stessi, che ci consente di alzare lo sguardo. E per Akakij Akakièvic quel desiderio è un cappotto nuovo.

Desiderio che ci accomuna in tanti. Circolava negli anni Cinquanta una storia su Luciano Bianciardi, lo scrittore grossetano che era venuto a Milano chiamato da Feltrinelli per partecipare alla nuova “grande impresa” della sua casa editrice. Bianciardi era burbero, coltissimo, poliglotta, anarchico. Viveva a Brera in una pensione e la sera andava sempre al bar Jamaica, tirava tardi con un bicchiere di grappa a buon mercato e le infinite risate con i suoi amici pittori e intellettuali. Enrico Vaime, Giancarlo Fusco, Carlo Ripa di Meana, raccontano che in una delle serate in piazza San Babila a casa dell’editore, dopo una lunga discussione politica, Bianciardi rubò, anzi espropriò, a Giangiacomo Feltrinelli il suo celebre cappotto cammello. Era un risarcimento egualitario, un piccolo anticipo sulla prossima rivoluzione: “Se allora sei comunista, il tuo cappotto è il mio”.

Il diavolo veste Prada

Per quanto mi riguarda, se c’è un cappotto cammello che ho sempre desiderato è quello di Max Mara. Un cappotto che oggi compie quarant’anni esatti. Nel 1981 Anna Maria Beretta ha trasformato per il brand nato da poco a Reggio Emilia un cappotto maschile in un cappotto da donna. Il suo nome è 101801. Ci vogliono settantatré operazioni di assemblaggio per realizzarlo. Ha maniche a kimono e chiusura a doppio petto, è di cachemire e lana, linee perfette e proporzioni assolute. E’ un cappotto diventato mito non solo in Italia ma anche a New York, dove avvolgersi in un cappotto caldo durante l’inverno è un rituale necessario. Lo hanno indossato Isabella Rossellini, Glenn Close e la Regina di Spagna, lo indossano oggi attrici e influencer come Bellamy Young e Claire Danes, lo indossano donne in carriera e madri di famiglia che possono permetterselo. Dal 1981 Max Mara non ha cambiato niente di questo cappotto: la cucitura visibile sull’intera orlatura del capospalla è ancora lì, esibisce l’eccezionale sartorialità. E’ elegante, è retro chic, funziona con le scarpe da ginnastica, con i tacchi e pure se non hai sotto niente.

Il cappotto veste e ti trasforma, non hai bisogno di toglierlo, è una corazza che ti racconta. Lo indosserei e poi chiuderei i due baveri con una mano sotto il mento come fa Miuccia Prada con i suoi di cappotti, come per difendersi dal mondo, come per tenere i propri pensieri e tutte le emozioni solo per sé.

E poi c’è Mickey Rourke che irrompe nella vita un po’ conformista di Kim Basinger, gallerista newyorkese, in quel film che ricordiamo tutti senza rammentare una sola battuta, ma solo spogliarelli e cubetti di ghiaccio: 9 settimane e mezzo. Ricordiamo solo la bellezza di Basinger e la carica erotica di Mickey Rourke prima delle plastiche, prima della devastazione, con la sua faccia normale ma furba, maliziosa, piena di guizzi e i suoi cappotti, uno grigio e uno nero, o forse erano di più? Cappotti da yuppie che lo disegnavano come un professionista dell’amore e della seduzione, uno che arriva nella tua vita e sa come fare della sensualità un gioco totalizzante. Il suo cappotto – a un certo punto – se lo mette a pelle nuda Kim Basinger, ed è come qualcuno che rinasce dentro la pelle di un altro.

Carrie Bradhsaw in Sex and the city

Harrison Ford in Blade runner indossava un impermeabile, d’altronde se no la pioggia sporca lo avrebbe fatto ammalare; ma Ryan Goslin nella versione più recente (Blade runner 2049) ha un cappottone con il risvolto di pelliccia. Perché poi i cappotti, come nel caso della Kidman, sono soprattutto armature che ti proteggono dal collo fino alle caviglie. Che ti proteggono anche da te stesso. Quando mi immagino Madame Bovary, compongo una figura che in parte viene dal libro; altri dettagli arrivano dal film, altri da alcune rappresentazioni teatrali. E’ una donna magra, col viso affilato, è vestita di grigio e si muove con grande eleganza. La gonna spunta dal cappotto lungo. Hai capelliraccolti emani nervose–sì, per me Emma Bovary ha mani gelate e tremolanti, si slaccia e si allaccia continuamente il cappotto. Quello che nasconde a sé stessa e al mondo è la noia, una noia mortale. Non sarebbe dovuta diventare una moglie, neanche una madre; coltiva sogni impossibili e invidia chi li ha realizzati. E’ una donna mediocre e un personaggio straordinario. E’ questa la grandezza di Flaubert: farci amare una protagonista che non è affascinante, che non è intelligente, ma nelle sue debolezze è umana e commovente. Anche se non se ne rende conto, anche se nasconde tutta la sua insoddisfazione sotto le ampie falde del suo cappotto.

Anni fa ho letto un libro di un bravo scrittore italo-argentino, Adrian Bravi: s’intitola Restituiscimi il cappotto e racconta di un uomo che perde il suo cappotto azzurro polvere. La mancanza del cappotto gli impedisce di perseguire il suo intento di togliersi la vita. Come Emma Bovary, quell’uomo non può più nascondersi: può solo affrontare le intemperie della vita. Piero Chiara negli anni Settanta aveva scritto Il cappotto di astrakan, un romanzo in cui – per il provinciale protagonista del libro – la possibilità di una vita avventurosa viene inaugurata dal fatto di possedere un cappotto del tutto uguale a quello di un certo Maurice, criminale di lungo corso, un tempo compagno della sua nuova amante. Il cappotto accarezza i nostri movimenti nel mondo, nel cappotto si inscrivono le nostre vite. “E la famiglia a comprare il cappotto nuovo / E tutti intorno a dire come gli stava”, cantava Claudio Baglioni in Uomini persi. Da un cappotto nuovo inizia sempre qualcosa, una nuova avventura.

Dana Scully in X File

Marcel Proust aveva un cappotto amatissimo, pare che ci andasse anche a letto. Lorenza Foschini ha raccontato del ritrovamento di quel cimelio nel suo libro Il cappotto di Proust (Mondadori). Jacques Guérin, industriale dei profumi, collezionista e bibliofilo, lo aveva ritrovato quasi per caso. Ammalatosi di appendicite nel 1929, era stato operato d’urgenza da un chirurgo, il dottor Robert Proust: il fratello minore di Marcel. Di questo fratello non c’è traccia nella Recherche. Proust era morto da sette anni, ma era già un mito. Dopo la convalescenza Guérin va a casa del medico per pagarlo. L’uomo è affabile e generoso e mostra a Guérin gli oggetti e i mobili appartenuti al fratello, infine gli consente di sfogliare i quaderni originali della Recherche. Non mi è chiara quale sia la molla psicologica che mette in moto il collezionista, immagino che l’ossessione sia un elemento fondamentale. Da quel giorno Guérin inizia a cercare e a comprare tutto quello che era appartenuto a Marcel Proust. Dalla vedova di Robert, che vuole sbarazzarsene, riesce a recuperare libri, foglietti sparsi, lettere, ma una quantità incalcolabile di documenti è andata perduta.

Riesce a comprare anche i mobili, e in un locale del suo appartamento ricompone la stanza dello scrittore: una sorta di museo privato. L’ossessione non si placa. Guérin va ai funerali degli ultimi parenti e amici di Proust. Viene a sapere che c’è un rigattiere che ha curato la vendita dei beni dello scrittore per conto della cognata. E così scopre che tra i beni invenduti è rimasto un vecchio cappotto liso, tarlato, impregnato di umidità. Lo compra: è l’ultimo cimelio che gli mancava. Quando ha freddo se lo arrotola intorno ai piedi.

Fanny Brice in Fanny Girl

I cappotti parlano di chi li ha indossati in modo ravvicinato, dicono della persona.

La bambina che tutti noi ricordiamo nel film di Spielberg, Schindler’s List, aveva un cappotto rosso. Cammina per le vie di Cracovia, indifferente a tutto quello che la circonda, unica macchia di colore in una storia in bianco e nero. Non ha un ruolo nella trama, ma ha il compito fondamentale di guidare la nostra attenzione: solo nel cappotto rosso riconosciamo l’umanità, possiamo evocare le vittime di una tragedia storica e sottrarle dalla dimenticanza.

Con The Undoing precipitiamo nel territorio dell’inquietudine, del disorientamento. Il mistero è da trovare soprattutto nella psicologia della protagonista: essere o non essere pronti ad accettare la verità, ad accettare che tutto il mondo, per come lo si è costruito fino a quel momento, cambi per sempre. Ma per accettare che la propria vita cambi per sempre bisogna ingaggiare un processo di trasformazione dentro di noi.

I colleghi di Akakij Akakièvic finalmente si accorgono di lui, iniziano a parlargli. E’ solo perché si sono accorti del suo cappotto nuovo? No, di certo. E’ lui stesso a essere cambiato, a essersi trasformato. Il desiderio di un cappotto si è mutato in desiderio degli altri, di un posto nel mondo, di una dignità più propriamente umana. Desiderio di farsi conoscere, di mettersi a nudo proprio grazie al cappotto. Il cappotto russo che ti stringe dal collo fino alle caviglie è l’immagine di un bozzolo. La crisalide diventerà farfalla. I cappotti non sono solo cappotti; non sono solo corazze che ci proteggono dal freddo e dal mondo. I cappotti ci scaldano per farci proiettare nel mondo senza paura e come non abbiamo mai fatto. A volte i cappotti possono essere la promessa di una rinascita.

Gaia Manzini per il Foglio Quotidiano

In copertina: illustrazione al Cappotto di Nikolaj Gogol’

SPIKE LIST

SPIKE LIST

ARIA FRAGILE E INDIFESA, VESTITO DA SPORTIVO, CATENE AL COLLO, IL REGISTA RIBELLE  SPIKE LEE ALLA MOSTRA SULLA IDENTITA’  AFRO AMERICANA IN CORSO ALLA FONDAZIONE PRADA DI MILANO– UNA LUNGA LISTA DI PERSONALITA’ LE CUI OPERE HANNO CONTATO NELLA VITA DEL BLACK PEOPLE AMERICANO

Dieci, venti, venticinque, trenta minuti aspettando Spike Lee che non arriva, che forse arriva e che alla fine arrivò. Un «tira e molla» scontato: perché ci sarà stato pure un buon motivo se mamma Jacquelyn aveva soprannominato Shelton Jackson Lee, nato ad Atlanta il 20 marzo 1957, proprio «Spike» e dunque «ribelle» (ma anche «magro», nomignolo altrettanto azzeccato considerata la corporatura ancora oggi esile).

La fama di personaggio difficile del regista di Lola Darling (1986) e Fa’ la cosa giusta (1989) di passaggio in Italia per il suo ultimo BlacKkKlansman sparisce però come d’ incanto davanti a questo piccolo uomo dalla pelle scura e l’ aria gracile quasi indifesa, cappelluccio blu, giubbettino grigio con scritte simil-murales, maglietta bianca, pantaloni scuri, sneaker, un grande anello e una maxi catena con tanto di croce al collo (il tutto più o meno rigorosamente firmato).

STEVIE WONDER E SPIKE LEE

Stevie Wonder con Spike Lee

Un piccolo uomo spesso scosso da una risata inarrestabile e contagiosa che durante questa conversazione con «la Lettura» risuonerà molto spesso nelle stanze della Fondazione Prada dove Spike Lee ha presentato The Black Image Corporation, il progetto concepito dall’ artista-attivista Theaster Gates per l’ Osservatorio della Fondazione, in Galleria Vittorio Emanuele II, che partendo dagli archivi della Johnson Publishing Company (oltre quattro milioni di immagini) ha voluto «ri-definire» i codici estetico-culturali dell’ identità afroamericana contemporanea.

Parte da qui, da questa idea di un nuovo «canone nero», l’ idea di una lista dei dieci personaggi della black culture che tutti, ma proprio tutti, dovrebbero conoscere. «Vuole una lista?» sono le prime parole di Spike Lee.

spike lee adam driver

Spike Lee con Adam Driver

Che subito afferra un foglio e una penna e inizia a scrivere, in silenzio, quasi sdraiato sul tavolo di questa stanza bianchissima e asettica dell’ Ala Nord dove nel 2017 era stata ospitata Uneasy Dancer, la prima grande mostra dedicata a Betye Saar (1926), artista da sempre impegnata nella rappresentazione dell’ identità afroamericana «al femminile». Il tempo scorre tra «I get one», «just anymore», risate.

Michael Jackson

E alla fine la lista arriva, anzi Spike Lee sfora il tetto dei dieci nomi e addirittura (più che) raddoppia. Per concludere, con un proclama da istrione, gridato nel microfono del registratore: «Come on ladies and gentlemen, boys and girls, I am Spike Lee and this is my list».

Tanti, tantissimi i cantanti e i musicisti, i classici (Miles Davis, Ella Fitzgerald, Louis Armstrong, John Coltrane, Prince con Michael Jackson, Marvin Gaye, Stevie Wonder, James Brown, Bob Marley, il baritono Paul Robeson) come le star dell’ ultima generazione rapper compresi (Jay-Z con Beyoncé, Snoop Dogg), quasi a voler ricordare una delle più grandi passioni di Spike Lee: la musica, appunto. E poi attori, registi, uomini di cinema: Harry Belafonte (a cui ha affidato nel suo ultimo film il ruolo di quel James Turner che racconta, di fronte a una platea di giovani militanti, la storia del vero linciaggio di Jesse Washington del 1916), Denzel Washington (il figlio, John David, è protagonista di BlacKkKlansman), Samuel L.Jackson.

SPIKE LEE

Poi gli artisti: Jean-Michel Basquiat («l’ ho conosciuto quando ho incontrato Andy Warhol»), la fotografa-pittrice-performer Carrie Mae Weems, Elizabeth Catlett (famosa per le sculture e le stampe realizzate negli anni Cinquanta e Sessanta sul tema dei diritti civili degli afroamericani), Romare Bearden (pittore, ma anche intellettuale e scrittore). Gli scrittori: James Baldwin e Toni Morrison più Ossie Davis (nata come attore ma poi affermatosi come poeta, sceneggiatore, nonché produttore). E gli sportivi: Michael Jordan e Mohammad Ali.

I BEATLES E MOHAMMED ALI

I Beatles con Mohammed Ali

Una lista, quella di Spike Lee, inevitabilmente sbilanciata verso gli amori del regista: «Nella lista ho messo le persone di cui ho letto i libri, ho ascoltato la musica e le canzoni, ho visto i quadri». D’ altra parte, tiene a ribadire: «L’ arte, come la musica o la scrittura devono riflettere quello che circonda ognuno di noi, devono raccontare e descrivere il nostro mondo senza stravolgerlo e senza nemmeno mostrarlo migliore». Perché il «canone nero» deve servire prima di tutto come esempio universale: «Non mi interessa il risultato artistico in sé, ma l’ intenzione che ha animato queste persone e gli effetti che hanno avuto per i diritti e la vita della black-people nella società».

SPIKE LEE 1Dunque, artisti, attori, scrittori, sportivi e musicisti, ma prima di tutto militanti. Perché Miles Davis è il primo della lista? «Non è una questione di valore, anzi cancelliamo i numeri, non ci deve essere un primo e nemmeno un ultimo, sono tutti importanti allo stesso modo» (detto fatto: una penna e i numeri spariscono).

Perché nessun politico? «Crede forse che per me la politica non sia importante? Ha visto i miei film? Certo che è importante, ma quello che questi uomini e queste donne hanno fatto è altrettanto politico e altrettanto importante». Obama? «Non è stato perfetto, ma le attese per il suo mandato erano troppo alte».

OBAMA MOHAMMED ALI

Mohammed Ali con Obama

Mentre parla, Spike Lee mostra, in sequenza dallo schermo del suo iPhone, una foto che mette insieme Martin Luther King e Malcolm X: «Sbaglia chi dice che non avessero gli stessi obiettivi, io penso di sì»; una di Malcolm X con Muhammad Ali: «Testimoni della verità, non bisogna dimenticarli»; una copertina che recita «Barack Obama dove sei?» e poi tanti altri della lista e anche tutta una serie di variazioni sul tema del presidente Trump, che Lee aveva definito un «figlio di puttana» per essersi rifiutato di condannare i suprematisti bianchi che avevano dato il via alle violenze di Charlottesville, in Virginia.

Ma BlacKkKlansman, ribadisce, non è un film contro Trump: «È un film contro la deriva a destra che sta prendendo il nostro mondo». Come mai non ha messo nell’ elenco il protagonista del suo nuovo film, quel Ron Stallworth, il poliziotto afro-americano che alla fine degli anni Settanta riuscì a infiltrarsi nel Ku Klux Klan: «Perché è un poliziotto». Ma, prendendo spunto dalla lista, Spike Lee aggiunge un altro dei buoni motivi per vedere il film: «Ascoltare Prince che nel finale canta uno spiritual negro, Mary Don’ t You Weep».

A chi dovrebbe servire questa lista? Alle nuove generazioni o alle vecchie? Ai bianchi o ai neri? «A tutti. Perché tutti, dopo averla letta, potranno magari andare su Google e scoprire che James Brown non è stato solo un grande musicista ma che nel 1968 aveva inciso una canzone I’ m Black and I’ m Proud che è una dichiarazione di orgoglio di essere nero.

james brown

Iames Brown

Scoprirlo sarà un passo in avanti». E ai giovani cosa consiglia? «Wake up. Svegliatevi. State attenti. Non cedete agli imbrogli, ai sotterfugi, non cercateli. Non pensate che si può essere colpiti dalla fortuna se non ci si è fatti un culo così.

Dovete lavorare sodo. Uno degli insegnamenti peggiori che vengono trasmessi oggi ai giovani è che le cose possono succedere per caso. Il successo non avviene per caso».

Spike Lee potrebbe finire in questa lista? «Di sicuro i miei film hanno avuto un’ influenza sulla cultura in generale. Le persone mi dicono ancora che non sarebbero mai andati a una scuola di tradizione black, se non avessero visto Aule turbolente (School Daze).

Quello che faccio vivrà a lungo, anche dopo che me ne sarò andato. In fondo è tutto ciò che di meglio puoi sperare: che la tua vita sia servita a qualcosa» (non a caso, nella collezione permanente del Nmaahc, il National Museum of African American History and Culture di Washington, compaiono una mazza da baseball, una maglietta, il Boombox stereo e la locandina di Fa’ la cosa giusta). Dell’ Italia cosa ama? «Il neorealismo, Rossellini e Fellini, uno dei miei maestri, ho tre suoi manifesti autografati nel mio studio, la bella esperienza del Miracolo di Sant’ Anna».

Cosa vuol dire classico per Spike Lee? «Hannibal» dice sicuro. Non il Dottor Hannibal Lecter, protagonista del Silenzio degli innocenti, ma Annibale, «il più grande generale dell’ antichità» secondo Theodor Mommsen, il condottiero cartaginese che attraversò le Alpi con gli elefanti e che sconfisse i romani nella battaglia di Canne. Perché proprio lui? «Ha visto il colore della mia pelle? It’ s black». Nera, appunto, come avrebbe potuto essere quella di Annibale, nato a Cartagine, Nord Africa.

Articolo di Stefano Bucci per “la Lettura – Corriere della Sera”

 

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