ALL’ALBERO PIU’ IN ALTO

ALL’ALBERO PIU’ IN ALTO

                                       Marcello De Vito, presidente pentastellato dell’assemblea del Campidoglio

Non è più nemmeno una questione di garantismo (partita persa e strapersa), ma di salute mentale. Ieri è finito dentro per corruzione Marcello De Vito, presidente a cinque stelle dell’ Assemblea capitolina, e il capo Luigi Di Maio l’ ha scaricato in dodici secondi: «Si difenderà ma lontano da noi».

A quelli del Pd non gli pareva vero, e in una mezza dozzina hanno assicurato di non essere giustizialisti, ma coi grillini, hanno detto, la corruzione è arrivata fin sul pennone del Campidoglio. Tutti mossi da altissima moralità, naturalmente, e si giocano la loro partitella del consenso sulla gola di un innocente secondo Costituzione (la presunzione d’ innocenza, che noia). Non poteva che andare così, quando si trasforma la lotta alla corruzione in una psicosi millenaristica.

Sono anni che si sentono stupidaggini secondo cui la corruzione è il cancro, la metastasi, la malattia mortale, e dovremmo essere sepolti da secoli, visto che già lo diceva Giovenale («il torrente di vizi… la follia del denaro… tutto ha un prezzo»). E così questo partito della scatoletta di tonno era venuto al mondo – parole dello stesso De Vito – proprio «per spazzare via la corruzione». Nemmeno gli viene in mente che il medesimo vasto programma albergava nella testa di Robespierre, e poi la testa gli finì staccata dal collo.

Non li viene in mente che la corruzione non è il cancro o la metastasi, è da millenni un effetto collaterale del potere, insomma un reato e come tale lo si dovrebbe affrontare, senza isterie. Fatti loro. Noi staremo qui a vederli impiccarsi l’ un l’ altro ad alberi sempre più alti, a maggior gloria della loro etica.

Articolo di Mattia Feltri per “la Stampa”

I RICORDI IN TASCA

I RICORDI IN TASCA

LA ROMA DI PAOLA PITAGORA DEGLI ANNI DI POVERI MA BELLI- LA VITA E GLI AMORI DISSENNATI, GLI ARTISTI DI PIAZZA DEL POPOLO, LA DIASPORA ALLA FINE DEL ’68- ANCORA ESISTE QUALCHE NICCHIA DOVE SI SOPRAVVIVE FRA RIMPIANTI E ORGOGLIO

 

 

paola pitagora

Paola Pitagora

Roma capoccia e dalle mille chiese. Roma tradita e impasticciata. Roma del Foro “che portava e porta ancora il nome di Mussolini”, scrisse Remo Remotti in “Mamma Roma addio”, inno rivolto a una metropoli “puttanona, borghese e fascistoide”. Tuttavia si distinguono, nella città, sostanziose “nicchie di sopravvivenza”, afferma l’ attrice Paola Pitagora, nata a Parma e romana d’ adozione.

Da tempo abitante a Monteverde, Paola considera il suo quartiere bello e protettivo, ossigenato dai parchi e illuminato dal piccolo faro di cultura del Teatro Vascello, nel cui spazio si svolge quest’ intervista: «Alla guida del Vascello c’ è Manuela Kustermann, bravissima, e il suo pubblico è folto e multigenerazionale», segnala Pitagora.

renato mambor paola pitagora

Paola Pitagora con Renato Mambor

«Non solo il teatro fa un’ intensa programmazione ed è il centro di svariate iniziative, ma rappresenta un vivace punto d’ incontro nella zona: si può venire a leggere i giornali, a lavorare al computer». Emersa platealmente negli anni Sessanta grazie al film-capolavoro “I pugni in tasca” di Bellocchio e allo sceneggiato televisivo “I Promessi Sposi” di Bolchi, oggi Paola è una signora d’ indomita bellezza.

Bella come sanno esserlo, anche dopo i settanta, certe persone toste, coinvolte, battagliere e in prima linea nel dire, nel fare, nel ricordare e nell’ entusiasmarsi rammentando.

paola pitagora tito schipa

Paola Pitagora con Tito Schipa

Una memoria piena non è percorsa solo da nostalgia e rimpianti, ma può vibrare di un orgoglioso “io c’ ero”. È questo l’ atteggiamento di Paola, la quale ti scruta con uno sguardo limpido e profondo in grado di riflettere una vita colma di sperienze e passioni.

Tra quelle giovanili ci sono stati il suo amore rovente e dissennato (per gli innumerevoli alti e bassi) con Renato Mambor, e la sua frequentazione della Scuola di Piazza del Popolo, cioè dell’ insieme di artisti provocanti, geniali e trasgressivi che scatenarono a Roma «una libera e gratuita creatività durata fino ai primi segni di esagerazione del Sessantotto», racconta Pitagora.

paola pitagora lou castel

Paola Pitagora con Lou Castel

Al ciclo fosco, spassoso e incandescente dei Sessanta, Paola dedicò il libro “Fiato d’ artista”, uscito per Sellerio nel 2001. «Quel diario si è tradotto in uno spettacolo ideato e diretto da mia figlia Evita Ciri e da Nicola Campiotti», riferisce. «Debutta qui al Vascello il 29 novembre, e con me in scena ci saranno agli attori Giulia Vecchio, nella parte di Paola da giovane, e Francesco Villano nel ruolo di Mambor.

Io interpreterò una sorta di collante mnemonico che lega le situazioni da loro evocate. Avrà dieci repliche e sarà l’ appuntamento-chiave di un’ ampia rassegna intitolata “Fiato d’ artista”. In corso fino al 9 dicembre, vuole ridar fiato a quell’ epoca straordinaria».

paola pitagora incantesimoIn che modo?

«Il programma include documentari, conferenze, un laboratorio di scrittura e due letture sceniche: una sul libro “Il Gioco dell’ Arte” di Agata Boetti, figlia dell’ artista Alighiero, e l’ altra su “Addio a Roma” della scrittrice Sandra Petrignani, che ripercorre gli eroici furori di quella fase».

Chi erano gli spericolati che l’ animavano, oltre a Mambor e a Boetti?

Mario Schifano

«Schifano, Kounellis, Angeli, Tacchi, Festa, Ceroli. Personaggi esplosivi nel loro impegno verso la costruzione di un’ arte nuova. Le gallerie di Plinio de Martiis e di Fabio Sargentini erano fucine di scoperte. Alla Gnam Palma Bucarelli mostrava le tele di Picasso, dall’ America giungeva la Pop Art, Fellini e Pasolini giravano i loro film, nei cinema si proiettava Godard e il Living Theatre conquistava Roma.

Fra i pittori Pino Pascali era molto amato e fungeva da cuore del gruppo. La sua morte prematura, nel ‘ 68 per un incidente in moto, fu la fine di tutto, la diaspora. Ebbe l’ effetto di un trauma devastante. Ci fu chi smise di dipingere, chi scappò da Roma».

Ha fatto solo nomi di artisti maschi. Non c’ erano pittrici?

«No, tranne Giosetta Fioroni, che dovette proclamarsi pittore per ragioni di mercato. Un collezionista si era rifiutato di comprare un suo quadro dopo aver saputo che era lei l’ autrice: non compro opere di una donna, aveva detto.

paola pitagora gianni morandi

Paola Pitagora con Gianni Morandi

Nella cerchia giravano fidanzate o ragazze rimorchiate di fresco che non lesinavano consensi: quegli artisti erano tutti piuttosto belli. Schifano aveva sempre compagne stupende, Angeli e Ceroli furono amati da donne di forte immagine come Marina Lante della Rovere e Daria Nicolodi».

Perché i Sessanta a Roma furono così frenetici e produttivi?

«Circolava l’ energia del dopoguerra. Un’ energia intellettuale, anche se adesso questo termine sembra dannato.

La nostra non era una élite di potere: eravamo poveri e matti, senza soldi né mercato».

Che ci faceva Paola in questa follia?

«Ero una pazza influenzata dai pazzi. Quel vortice mi attraeva come una calamita. Sono rimasta con Renato per un decennio. Quando lo conobbi avevo sedici anni. Ci siamo lasciati e ripresi un sacco di volte. Volevo far l’ attrice ma non mi aiutava il mio carattere tremendo, un misto di timidezza e aggressività.

paola pitagora 3Con quel mio modo di fare era difficile trovar lavoro. Nello spettacolo al Vascello ci sarà un momento in cui Giulia, l’ attrice che interpreta me da giovane, rifiuta di mettersi in bikini a un provino. Ero così: pudica, non disponibile, agguerrita. Una volta al Caffè Rosati incrocio il direttore della rivista Le Ore che mi avverte: stiamo impaginando un servizio che ti ritrae al mare, vuoi vederlo?

paola pitagora 2Vado in redazione con lui, e prima che possa fermarmi prendo le forbici e taglio in due la mia foto in costume da bagno, distruggendogli il servizio. Mi odiarono! Poi, per pura fortuna, Bellocchio mi scelse in un provino e mi lanciò».

Ha scritto nel suo libro che i centauri della Scuola Romana erano degli autodistruttivi totali.

«Vero: quegli artisti rincorrevano la morte. Mi sono salvata perché sono una donna e perché sono di Parma».

Com’ era da vedere Piazza del Popolo, in quel periodo?

«Troppo affollata di macchine.

Intorno all’ obelisco c’ era un enorme parcheggio. Automobili addossate l’ una all’ altra riempivano l’ intera area che ora è pedonale. Ogni tanto bisogna spezzare una lancia a favore dei cambiamenti positivi avvenuti nel nostro tempo!».

Si rendeva conto, la giovane Paola, di assistere a una rivoluzione dei linguaggi artistici?

«Non realmente. Bevevo nettare senza saperlo. Adesso capisco la forza di quella spinta. Tutto era fuori dagli schemi: le opere di Pascali erano visioni immense di mare e campi. Kounellis piazzò dodici cavalli vivi nella galleria L’ Attico.

 

Come facevo a immaginare che l’ arte fosse anche così? Eppure quella precarietà si basava su una poetica solida e preveggente: oggi guardo i ragazzi che camminano ipnotizzati dai cellulari e penso agli Uomini Statistici di Mambor».

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Articolo di Leonetta Bentivoglio per “la Repubblica – Roma”

ROMA CAPOCCIA

ROMA CAPOCCIA

E’ VERAMENTE INTATTO IL FASCINO DI ROMA?- A LEGGERE LA SERA A ROMA DI ENRICO VANZINA SI DIREBBE DI SI’- DIMENTICHIAMO SCIPPI, BUCHE E MONNEZZA PER LE STRADE, SE LA LUNA RISPUNTA AD ILLUMINARLA E SI SPECCHIA NEI FONTANONI, ANCHE NOI ABBANDONIAMOCI ALLA SUA AMBIGUA ATTRAZIONE 

 

«Quanto sei bella Roma quann’ è sera, quando la luna se specchia dentro ar fontanone e le coppiette se ne vanno via, quanto sei bella Roma quanno piove». La canzone di Antonello Venditti è del ’92: dunque sono trascorsi solo trentasei anni da quella appassionata dichiarazione d’ amore, fatta con lo stesso impeto che si riserverebbe alla donna che ci ha incendiato i sensi.

enrico vanzinaEppure già da allora Roma era bella e brutta insieme. Con lo splendore dei suoi monumenti, dei palazzi, dei ponti, del fiume, delle chiese, dei parchi, delle terrazze: insomma con quella «storia infinita» che Enrico Vanzina torna più volte ad evocare nel suo ultimo romanzo, cogliendone l’ intatta fascinazione (La sera a Roma, Mondadori, pp. I77, euro 18,50).

Eppure, e già dai tempi della “Dolce vita”, sessant’ anni fa, Roma, l’ Urbe sacra e imperiale ti gettava in faccia le immagini di una disfatta opulenza, condita di ammiccante sensualità ma anche di torpido/torbido, sonnacchioso scetticismo. Magnifica e decadente, insieme, Roma. Un crescendo di decadenza, potremmo dire infierendo.

enrico vanzina

Enrico Vanzina

Roma, per Vanzina, è adesso «una città che non ha più ambizioni, non ricorda e non fa progetti (…), è una città che avanza verso il futuro senza più la consapevolezza del suo valore». Dunque, «rassegnata al presente», immersa in un colorito caos che fa pensare a un suk orientale, dove si vende e si svende. Ecco: nel romanzo di Enrico, figlio del grande Steno e, insieme al fratello Carlo, abile creatore della nuova “commedia all’ italiana”, in fondo è di questo che si parla: gente di rango, protagonisti della “Roma bene” che «si buttano via».

 

ORIGINE ARISTOCRATICA Si buttano via anche quando al rango – origine aristocratica o, comunque alto livello sociale, magari conquistato a colpi di quattrini, raccomandazioni e marchette- si richiamano, con un orgoglio stizzito e degno di miglior causa. Ma credono ancora a qualcosa? Innegabile che molti abbiano ancora uno “stile” e che rivendichino un ruolo, un’ immagine, vendicandosi di chi la mette in discussione e ne denuncia l’ ambiguità.

federica e enrico vanzina

Vanzina con la moglie Federica

Intendiamoci: una fastosa, ammaliante ambiguità. Ne è sedotto anche il protagonista del romanzo, uno sceneggiatore con molti film di successo alle spalle, che frequenta mostri sacri del cinema italiano (chiamati con nome e cognome), broker dell’ alta finanza, principesse (ed anche belle fisioterapiste brasiliane), nonché salotti, redazioni giornalistiche, trattorie storiche.

Un uomo che ha dei valori e degli affetti, e che, trovandosi a districare il maledetto imbroglio di un delitto (l’ uccisione di un giovane attore) in cui lui stesso si trova invischiato, deve cancellare ogni residuo incanto, facendo i conti con la realtà. Cioè con un groviglio di segreti, relazioni clandestine, passioni, risentimenti tenuti rinserrati nel cuore addirittura per decenni, poi improvvisamente dissepolti e confessati con un misto di struggimento e di insolenza. Perché nessuno vuol rinunciare al proprio potere, se non altro quello di un’ immagine consolidata nella buona società, tra artifici ed effetti speciali, proprio come al cinema.

INFINITE MASCHERE Ora, di fronte a un delitto maturato in ambienti dove si indossano infinite maschere, bisogna appunto capire che cosa è invenzione “cinematografica”, abile recitazione, messa in scena e quel che è invece maledettamente “reale”. E reale è il sesso, declinato in tutti i modi, dunque con ogni possibile “deriva” di perversione, odio e sangue.

vanzinaCon annessi e connessi “sospetti” che toccano tutti quelli che in vario modo hanno conosciuto la vittima (un giovane, prestante attore disposto a tutte le esperienze per raggiungere il traguardo del successo). Anche l’ io narrante ha incontrato il bellimbusto e rischia grosso. Ma, ostinato a indagare, sperimenta vittorioso un viaggio dentro la sua stessa coscienza: la risoluzione del delitto scioglie nodi interiori, conferma alcune certezze, altre ne illumina. In ogni caso è liberazione e crescita.

 

Articolo di MARIO BERNARDI GUARDI per Libero Quotidiano

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