CUBO DELLA SALVEZZA

CUBO DELLA SALVEZZA

Nella periferia orientale di Napoli c’è un luogo dedicato alla cura, alla bellezza e al sogno. Una scuola abbandonata fatta rivivere da chi non si arrende alla criminalità e alla miseria. I Maestri di strada, la pandemia e il nostro futuro

La struttura è stata aperta dai Maestri di strada e intitolata a Ciro Colonna, il ragazzo freddato per sbaglio nel circolo ricreativo di Ponticelli (foto Maestri di strada)

Il Cubo, acronimo un po’ sbilenco di Cura Bellezza Sogno, è a pochi chilometri da San Giorgio a Cremano, il paese di Massimo Troisi. E’ una struttura aperta dai Maestri di strada e intitolata a Ciro Colonna, il ragazzo freddato per sbaglio nel circolo ricreativo di Ponticelli dove Anna De Luca Bossa, regina di un clan di camorra condannata quest’anno all’ergastolo, aveva spedito i suoi sicari a sparare a un rivale. Siamo nella periferia est di Napoli, dove quasi tutto è fuori legge: l’edificio scolastico c’è ma non ci sono i documenti su come è stato costruito, la discarica è illegale, la cabina dell’energia elettrica ha la porta sfondata e i fili scoperti e sono abusivi parecchi inquilini.

Al Cubo si arriva in venti minuti dal centro con la famigerata ferrovia Vesuviana. A pensarci il Nulla o il Buco, come lo chiamano i ragazzi, è quasi dietro l’angolo: chi, come me, viene da Roma sa bene che in un giorno di pioggia la distanza temporale di Tor Bella Monaca diventa infinita. Nella galleria umida della stazione Bartolo Longo, a dare il benvenuto, spunta una creatura affabile e sarcastica: è il graffito di un topo gigante non so decidere se seduto su un libro o su una fetta di formaggio. Fuori, sotto un cielo bianco di foschia, ho attraversato un crocevia deserto bordato di sterpi e sacchi d’immondizia gettati dalle auto. Poco più in là, c’è un grande caseggiato recintato e sorvegliato come una fortezza.

Municipio di San Giorgio a Cremano

Il Cubo è dietro la fortezza: era una scuola abbandonata, quattromila metri quadrati fatiscenti svuotati dall’inverno demografico, ma ci sono un giardino, un anfiteatro, un portico. Il comune ha affittato l’intera struttura a basso costo ai Maestri di strada e loro hanno aperto un cantiere per ristrutturarla e rimetterla a posto ( servono lavori per quasi un milione di euro). L’andirivieni di imbianchini, fabbri, piastrellisti, muratori volontari e no, non è un gioco ma può anche sembrarlo. Fa parte del processo educativo, prima lezione: recuperare quello che c’è e, se vuoi stare in uno spazio, devi prendertene cura. Così cantiere edile e centro per l’innovazione sociale convivono, sono compagni di strada a volte affiatati e a volte litigiosi.

Il Cubo è rimasto sempre aperto. Lo è stato durante il lockdown e lo sarà anche in questa lunga estate afosa di Caporetto dell’istruzione. Con le scuole chiuse i Maestri di strada hanno seguito i ragazzi di 220 famiglie, il triplo di quello che facevano prima. Fuori ci sono i pulmini che hanno funzionato come ambulanze per “il pronto soccorso pedagogico” in zona rossa, talvolta scortati dalle forze dell’ordine. Il progetto detto i Coronauti è stato finanziato con 200 mila euro di soldi pubblici per distribuire libri, quaderni, tablet e interventi a domicilio sotto casa: una Dad fatta di incontri distanziati del primo (via cellulare), del secondo (via zoom) e del terzo tipo (per strada). Ma il problema più consistente non sono stati la mancanza di tablet e di connessione quanto le case: ragazzi in pigiama da mattina a sera, chiusi in stanze affollate a contendersi nel marasma lo strumento per la Dad.

Il cantiere del Cubo, con le sue 25 aule vuote, è servito anche come appoggio scolastico con rispetto di distanze per chi a casa non poteva proprio stare. Nell’emergenza, la Dad avrebbe potuto produrre innovazione didattica, capacità di sperimentare altri linguaggi e di comunicare con strumenti nuovi. In qualche caso lo ha anche fatto, la rete è piena di manufatti della Dad. Ma perlopiù ha distribuito alla meglio quello che c’era prima: lezioni frontali sconnesse svuotate della sostanza umana di qualsiasi apprendimento, la relazione.

“Anche una classe gonfia di conflitti è un luogo di relazione, nutre l’apprendimento”, dice Cesare Moreno, il presidente dei Maestri di strada. “Le buone relazioni a scuola sono il fondamento della buona istruzione. Le nozioni mancanti, la privazione cognitiva, si possono recuperare, il vuoto relazionale no. Ora che se ne sono accorti tutti speriamo che serva a rientrare in classe in modo consapevole”. E, mentre si litiga sull’obbligo vaccinale per tornare a scuola, viene spontaneo chiedere: ma ce la faremo a recuperare con i 30 alunni per classe di prima, ragazzi di cui a malapena l’insegnante riesce a imparare i nomi prima della fine dell’anno? Moreno rovescia provocatoriamente la domanda: “Gli insegnanti non mancano, sono utilizzati male. Conosco una scuola con 180 docenti e 240 insegnanti di sostegno: una frammentazione balcanica, praticamente ogni ragazzo ha il suo ‘ sindacalista’. Come può funzionare una classe in un contesto simile? Non sono quelle le condizioni per creare una comunità educativa dove si cresce insieme e non contro gli altri”.

Cesare Moreno, maestro di strada

La classe come configurazione sociale dell’apprendimento è il pallino di Cesare Moreno: “L’attività didattica è basata sulla relazione, se non c’è quella, con i suoi momenti di osservazione e di ascolto, nulla può funzionare. Una volta avevo in classe due ragazzini sordomuti che picchiavano tutti. Li ho inseriti in una terza elementare e con gli altri ragazzi abbiamo cominciato a inventare storie raccontate a gesti per coinvolgere anche loro. Dopo un po’ hanno smesso di essere violenti, quello era l’unico modo con cui sapevano comunicare; gli altri ragazzi l’hanno capito e hanno concluso: ora non picchiano perché parlano a gesti”.

Al Cubo sono capitata alla vigilia della parata estiva per le vie di Ponticelli e ho conosciuto una mamma sociale impegnata a fare la sarta. Cuciva l’abito della Grande Madre, costruita come altre fantasiose macchine con materiali di recupero. La figura da vestire era appoggiata a una parete: alta e snella, con la vita di vespa, i seni ben disegnati e i capelli di trucioli di legno biondo. Non la solita signora chiatta, primitiva e generosa dell’immaginario mediterraneo. “La vogliamo bellissima, una madre giovane”, stava dicendo Maria mentre tagliava striscioline di organza. Senza staccare gli occhi dal lavoro, si è messa a raccontare del suo bambino, promosso in seconda elementare con 35 giorni di scuola in presenza. In Campania anche i bambini piccoli si sono beccati la Dad e le elementari sono rimaste più a lungo chiuse. Maria si è accorta presto che suo figlio non aveva imparato a distinguere consonanti e vocali, che nessuno controllava i compiti, che non poteva farcela a imparare a leggere. Al Cubo ha trovato un metodo per aiutarlo, è venuta a imparare lei e a giugno il bambino sapeva scrivere sotto dettatura e in matematica “era diventato un genietto”.

Il Cubo non è assistenza creativa, ha un’ambizione smisurata: riparare il tessuto sociale e produrre eccellenza dove tutti vedono solo abbandono, criminalità, miseria. I ragazzi lo hanno detto componendo il e facendo così lezioni di metrica, di matematica e di musica. E poi hanno prodotto un documentario, nato da un’idea di Filomena Carrillo e con la regia di Flavio Ricci, presentato in giugno all’Ischia film festival. E’ intitolato questo è, così vanno le cose. Voi vedete tutto brutto e cattivo, noi no. Se qui sei nato qui devi trovare energia, forza e bellezza per uscire dal Buco. Come dice Woody Allen, puoi portare il ragazzo fuori dal ghetto, ma non puoi portare il ghetto fuori dal ragazzo. Loro lo sanno e imparano a utilizzare quello che c’è, a tradurre l’esperienza in linguaggio, forme, musica, immagini. E’ uno dei risultati del progetto educativo dei Coronauti, la ciurma salpata come Giasone e gli Argonauti alla ricerca di un rimedio per fronteggiare la peste.

E la peste, nelle aree di maggior disagio, ha cacciato da scuola un adolescente su tre. Anni e anni di lavoro per recuperare la dispersione scolastica nella media dell’obbligo e ora si precipita indietro. Ma qualcuno crede ancora nell’istruzione come possibilità per cambiare la propria condizione? “L’ascensore sociale è scassato da tempo. Del resto è un’ immagine obsoleta, che parla di una società rigida dove pochi possono salire da un piano all’altro, ma l’edificio resta immutabile. I bravi studenti cresciuti in ambienti deprivati, quelli a cui la scuola può ancora cambiare copione di vita, invece ci sono – risponde Cesare Moreno – e sono molto consapevoli. Quelli, in una situazione come questa, restano fregati. I ragazzi che hanno interiorizzato di non valere niente, quelli che sanno già dalle famiglie che non ce la faranno mai, odiano la scuola perché peggiora la loro vita, gliela rende più difficile. Ma per quelli che ancora ci credono, per quel tre per cento che pensa di uscire dal Buco con l’istruzione, per loro, quello che è successo è una vera tragedia”. Dove la scuola è l’ultimo argine, la crepa che si è aperta è una ferita infetta da curare subito, comporta un rischio sociale elevato.

Il Cubo ha i suoi campioni, io ho conosciuto Arianna, una ragazza vivace, morbida e riccia, che sta concludendo il triennio all’università con la laurea in Psicologia. Arianna a scuola era bravissima già da piccola, una capacità di apprendimento e una passione per gli studi fuori dal comune. Ma affermarla, puntare caparbiamente sull’istruzione, è stato tutt’altro che facile, certo non quello che potrebbe essere: un percorso protetto. Il bravo studente che viene da un ambiente deprivato porta la corona di spine, deve combattere per mantenere l’autostima: “Mai dite a un ragazzino: sei figlio di un criminale e qui devi restare perché questo è il tuo posto. Qui nella stessa classe si trovano il figlio dello spacciatore e del carabiniere”, racconta Arianna. “La scuola dovrebbe promuovere pacificazione, non odio. A me, che avevo un fratello in carcere, dicevano che mai ce l’avrei fatta, che tutt’al più dovevo andare a studiare all’alberghiero”.

San Giovanni a Teduccio, murale di Jorit

E qui spunta il profilo dell’insegnante che ti condanna a restare nel Buco. Ma non è anche questa un’immagine obsoleta? Leggiamo di docenti aggrediti dai genitori o disprezzati dai ragazzi, spogliati di qualunque autorità… “A San Giovanni a Teduccio ho avuto alunni figli di criminali in servizio effettivo”, racconta Cesare Moreno. “La madre di uno di loro , un ragazzino di 11 anni che disertava la scuola, si mordeva il dito e faceva ancora pipì a letto, diceva in giro che io picchiavo i ragazzi. Andai dal giudice a denunciami perché si aprisse un’inchiesta e, davanti al magistrato, la signora non confermò le accuse. Quindi conosco il problema e so che docenti e genitori hanno punti di vista diversi. Ma so anche di studenti dotati che non ce la fanno a sopportare il disprezzo dei loro insegnanti perché sono brutti sporchi e cattivi. Ho in mente una ragazza che si sentiva dallo sguardo della sua prof… L’insegnante che qui infligge il suo disprezzo è lo stesso che al Vomero lo subisce da genitori più titolati di lui. O le dai o le prendi: è il modello che è sbagliato, una relazione patogena”.

La scuola è un avamposto e gli insegnanti sopportano tensioni enormi, soprattutto dove il tessuto sociale è lacerato. Sono figure di cerniera: attraverso i ragazzi entrano in contatto con mondi carichi di aggressività. Sono capaci di governarla? “In classe si gioca una partita doppia: una riguarda i contenuti, l’altra le regole”, aggiunge Cesare Moreno. “La tendenza è considerare separatamente le due partite: al docente la comunicazione dei contenuti, allo studente il compito di presentarsi preparato e rispettare le regole. Ma poi succede che i ragazzi, per segnalare le loro difficoltà, rompono le regole e mettono a nudo le emozioni del momento, lasciando il docente in seria difficoltà. Gli insegnanti non sono preparati a comprendere e a fronteggiare questo scenario: per farlo, ci vuole formazione, una formazione permanente”.

Sic est. Buon nuovo inizio, sarà durissimo far ripartire la scuola, però è il campionato da vincere. Da queste parti, per ricominciare in sicurezza e con una didattica efficace, una delle scommesse è mettere in rete tutto quello che c’è: allargare spazi e collaborazioni. I Maestri di strada offrono alle diciotto scuole della periferia orientale di Napoli venticinque nuove aule e le competenze di 50 educatori. Riusciranno a condividerle? Il paradosso, a volte, è che accettare doni è più difficile che farli.

Annamaria Guadagni, il Foglio Quotidiano

In copertina: murale di Jorit a Scampia raffigurante P.P. Pasolini

CHIOCCIA,TIGRE,ELICOTTERO E SPAZZANEVE

CHIOCCIA,TIGRE,ELICOTTERO E SPAZZANEVE

I GENITORI INTRUSIVI, QUELLI SEMPRE PRESENTI E IPERPROTETTIVI SONO UN SERIO OSTACOLO PER LA CRESCITA DEI PROPRI FIGLI- LUIGI BALLERINI MEDICO PSICANALISTA CI RACCONTA LA SUA ESPERIENZA E CI DA’ BUONI CONSIGLI

La sala del teatro è gremita. Ci saranno almeno trecento ragazzi dell’ultimo anno delle superiori. Tra qualche mese dovranno vedersela con l’esame di maturità e con alcune scelte importanti.

Il gruppetto di adulti che sta sul palco in teoria è lì per offrire loro indicazioni utili per il futuro (questo è l’ambizioso obiettivo dell’incontro).

Ma in pratica non è così facile, per gli adulti, evitare di pavoneggiarsi, o di metterla giù troppo semplice. L’adolescenza, nel ricordo di chi l’ha superata da un pezzo, rischia sempre di sembrare più bella e facile di com’è davvero.

Tra gli adulti c’è Luigi Ballerini, medico, psicoanalista e scrittore di libri per ragazzi. Uno che incontra moltissimi studenti, anche in veste professionale. Riesce a parlare alla platea con semplicità e senza essere condiscendente, cosa che mi colpisce. Quindi, terminato l’incontro, mi do da fare per potergli rivolgere qualche domanda.

Quali sono oggi i maggiori motivi di disagio, per ragazzi come questi, secondo la sua esperienza?
Si parla spesso di genitori assenti, ma mi sentirei di dire che uno dei motivi di maggiore disagio è, paradossalmente, l’intrusività dei genitori. I ragazzi vanno a prendere informazioni ai banchetti negli open day universitari accompagnati da mamma e papà. Quando fanno i test di ingresso alle università, i genitori li seguono quasi fin dentro ai laboratori informatici, e poi restano fuori ad aspettare.

È successo al Politecnico di Torino e al Politecnico di Milano. A Catania e a Bologna per i test di medicina. Il comportamento è così diffuso che il Cosp, il centro per l’orientamento allo studio dell’Università Statale di Milano, organizza incontri con percorsi di sostegno alla scelta universitaria “per i genitori”.A monte di tutto ciò, c’è la propensione dei genitori a vedere i figli fragili, deboli e incapaci.E non solo: le agenzie per il lavoro dicono che sempre più spesso sono i genitori ad andare in sede per consegnare i curricula dei loro pargoli. Ma che cosa si può mai pensare di un ragazzo che non si dà una mossa neanche per venire a presentarsi? Ovviamente quei curricula finiscono ignorati.

Lei ha figli?
Sì, quattro, tra i 19 e i 27 anni. E non li ho mai accompagnati a fare i test.

Luigi Ballerini

Ma che male ci sarebbe, a dare una mano ai figli, quando si può?
A monte di tutto ciò, c’è la propensione dei genitori a vedere i figli fragili, deboli e incapaci. E il non riuscire a pensarli protagonisti della loro vita in relazione all’età che hanno. Ma se andiamo in profondità, possiamo vedere che c’è anche la voglia di dare un senso alla propria vita, occupandosi di quella dei figli.

Insomma: è un tentativo di sostituzione. Il desiderio inconsapevole di vivere la vita dei figli perché magari non si è soddisfatti di come va la propria, di vita. Se un adulto è appagato da quello che fa e che costruisce, si interessa dei figli ma non è così invadente. Oggi il comportamento intrusivo è equamente distribuito tra tutti i genitori, e non riguarda solo le madri.

Quali sono le conseguenze?
Alcuni ragazzi sono insofferenti. Altri finiscono per percepirsi e comportarsi effettivamente come fragili. Altri ancora sviluppano veri e propri sintomi.

Spesso però accade, soprattutto nel caso dei più piccoli, che intervenendo sui genitori, anche proponendo piccoli cambiamenti e senza nemmeno coinvolgere il figlio, si possono modificare sostanzialmente le cose.

Leopardi nello Zibaldone scrive che non possiamo sapere tutto quello di cui sia capace, aiutata da circostanze favorevoli, la natura umana. Ecco: la sfida è capire quali per il genitore sono le circostanze che possono innescare un cambiamento, e favorirle. Un genitore che si dispone a correggersi e a rivedere come pensa al proprio figlio e come si comporta con lui consegue già un buon primo risultato.

Quali sono i comportamenti dei genitori che andrebbero evitati?
Per semplificare, prendiamo in considerazione quattro modelli di comportamento genitoriale: Chioccia, Tigre, Elicottero e Spazzaneve.

Il genitore Chioccia non riconosce che il figlio è cresciuto e tende a continuare ad accudirlo oltre ogni ragionevolezza.

Il genitore Tigre è autoritario e sovrastante. Il suo messaggio al figlio è “lo so io qual è il tuo bene, quindi tu devi far tutto quello che ti dico io”.

Il genitore Elicottero è fissato sul controllo, compreso il controllo digitale: deve monitorare il figlio in ogni momento e sapere tutto di lui.

Il genitore Spazzaneve è il modello più recente: è spaventato dalla fatica dei figli e pronto a tutto per spianare la loro strada. Se un figlio prende 4, non protesta con il figlio, ma con il professore. Presenta mozioni a scuola perché i compiti sono troppi o perché gli zaini sono troppo pesanti, e per qualsiasi altra questione, anche minima, che secondo lui può intralciare la strada al figlio.

 La soluzione non è adottare un ulteriore modello, ma che i genitori sappiano percepire il figlio come altro da sé

I modelli genitoriali ci aiutano a etichettare in modo semplice alcuni comportamenti non appropriati, ma non esistono allo stato puro, nella realtà delle famiglie. Spesso i problemi nascono da una combinazione di diversi comportamenti inadeguati.

La soluzione non è adottare un ulteriore modello, ma che i genitori sappiano percepire il figlio come altro da sé. Che sappiano averne stima e apprezzarlo come un soggetto pensante, che va accompagnato e sostenuto, ma al quale non bisogna sostituirsi. Un soggetto dotato della facoltà di pensare in proprio, più debole nell’esperienza per il fatto di essere più giovane, ma non per questo fragile e incapace.

Perché un ragazzo oggi va dallo psicoanalista?
I motivi possono essere diversi. Negli ultimi anni ho visto crescere una casistica particolare, una specie di epidemia sotterranea di cui si parla ancora poco. Ci sono ragazzi tra le medie e i primi tre anni delle superiori che la mattina non riescono più ad alzarsi per andare a scuola. È qualcosa di diverso dalla dispersione scolastica, contraddistinta da disinteresse, ostilità e rifiuto per la scuola.

Nei casi di cui sto parlando si tratta di quella che viene piuttosto definita fobia scolare, o fobia scolastica. Può succedere all’improvviso e può destabilizzare l’intera famiglia. Riguarda anche gli studenti bravi a scuola e affligge in uguale misura le ragazze e i ragazzi.

Questi ragazzi desiderano andare a scuola e ogni sera se lo ripromettono: magari fanno i compiti e preparano la cartella. Ma la mattina non ce la fanno: è più forte di loro, restano bloccati a letto o in casa. Se ne dispiacciono e si giudicano negativamente per questo.

I genitori le provano tutte. E tentano anche le mosse più disperate: minacciare il figlio o blandirlo, invocare l’arrivo della polizia o degli assistenti sociali. Ma non c’è verso: è come provare a spingere un elefante. E allora le famiglie decidono di cercare aiuto. Di tutto questo si parla troppo poco, ma se si interpellano gli insegnanti si può scoprire che il fenomeno è molto più diffuso di quanto si creda. Loro li vedono, questi ragazzi.

Qual è l’origine della fobia scolastica?
Mi sono fatto questa idea: quando un ragazzo si rifiuta di andare a scuola, secondo la mia esperienza in circa un terzo dei casi proprio a scuola è successo qualcosa di brutto, che l’ha spaventato e gli rende difficile tornarci. E allora è su quello che bisogna lavorare: atti di bullismo, difficoltà nei rapporti, comportamenti ostili di adulti e compagni. Ma negli altri due terzi dei casi è accaduto che la scuola sia stata investita e caricata di un significato che non dovrebbe avere. Non un posto dove si va per imparare, o per incontrare gli amici, o anche solo perché si è obbligati a frequentare, e lo si fa.

Un posto, invece, dove è imperativo dimostrare di essere bravi: o bravi figli, o bravi studenti. E se uno non ce la fa, ecco che inizia a pensare come evitarla, la scuola.

Tutto questo accade a ragazzi che devono attestare di essere all’altezza, in famiglie che fanno pressione sulla bontà delle prestazioni. E che parlano solo di quello.

Ma non bisogna ridurre la vita dei ragazzi alla scuola, e la scuola al risultato. In questo modo la scuola, da luogo di appuntamento e di apprendimento, si trasforma in un luogo pieno di rischi, di insidie e di agguati.

Che si fa in casi come questi?
Bisogna allentare la preoccupazione riguardante la scuola. Quando un genitore domanda al figlio “come è andata oggi?” deve anche chiedersi se gli sta domandando davvero com’è andata la sua giornata oppure “hai preso un buon voto, conforme alle mie attese e ai tuoi doveri?”.

E il genitore deve capire che non può essere una bella giornata se uno ha preso otto ma è stato umiliato durante l’intervallo. E che, viceversa, può essere una bellissima giornata se uno ha preso un pessimo voto, ma durante l’intervallo si è accesa la scintilla di un amore. Occorre allagare l’orizzonte. Aiutare i ragazzi a trovare le loro proprie buone ragioni per tornare a occuparsi di sé, anche mentre imparano.

Quanto incidono bullismo e ciberbullismo sulle vite dei ragazzi?
Le dinamiche bullistiche sono le stesse. Ma il ciberbullismo – la persecuzione in rete – è più pervasivo, ubiquitario e permanente.

A scuola i casi di bullismo si verificano soprattutto in tre momenti: prima di entrare e all’uscita, al cambio d’ora, nell’intervallo. Ma c’è sempre la speranza che qualche adulto passi di lì e interrompa la persecuzione, e comunque quando si torna a casa si è al sicuro e si può tirare il fiato.

Il ciberbullismo invece non dà tregua: può verificarsi giorno e notte, non c’è nessun posto dove scappare e mettersi al riparo, e accade in luoghi dove non ci sono gli adulti, perché la persecuzione avviene in gruppi amministrati da ragazzi e protetti da password.

Che cosa si può fare, allora?
Bisogna sottolineare che il bullismo e il ciberbullismo prosperano in una condizione di disimpegno morale. Se c’è la coppia bullo-vittima, c’è anche, tutta attorno, una corte di spettatori che resta silente per paura o, peggio, che è plaudente per ammirazione e consenso.

Ecco perché nei casi di ciberbullismo c’è sempre omertà da parte degli altri componenti del gruppo, che si limitano ad assistere (spaventati essi stessi, o indifferenti). O che, compiaciuti e affascinati dalla prepotenza, la amplificano, per esempio condividendo foto e messaggi.

Dunque, oltre che sulla coppia bullo-vittima, è anche sull’intero gruppo che bisogna lavorare, spiegando ai ragazzi che il silenzio è sempre connivente.

Nei gruppi è ancora diffusa l’idea che chi spiffera quel che succede è un infame. E invece no, bisogna far capire che chi contrasta e denuncia un caso di bullismo è il più figo della classe. E certo, poi servono anche adulti all’altezza, attenti e capaci di raccogliere la segnalazione, competenti nell’affrontare la situazione e nel gestirla.

Articolo di Anna Maria Testa per Internazionale.it

SQUOLA

SQUOLA

SCUOLA DEI DIRITTI O SCUOLA DEI DOVERI?- PROMUOVERE GLI ASINI PER PRODURRE I BULLI?

Gli episodi di violenza nella scuola pubblica sono sempre più numerosi, e ad esserne vittime sono ormai frequentemente anche i professori: insultati dagli studenti, aggrediti e picchiati dai loro genitori. L’episodio dell’Itc Carrara di Lucca ha ricevuto una particolare attenzione da parte dei media, e ha visto intervenire anche la ministra Fedeli, che ha auspicato una giusta severità. Un intervento non scontato, in un’istituzione come la scuola, nella quale è stato demonizzato da molto tempo anche il più sensato degli interventi disciplinari. Tuttavia – e questa è la tesi che vorrei sostenere – è del tutto inutile bocciare i peggiori tra i bulli quando la scuola li produce costantemente e ne incentiva la crescita.

Ho letto parecchi commenti all’episodio di Lucca, divenuto l’emblema di un disagio ormai insostenibile. Il Leitmotiv prevalente è la rottura di un patto generazionale, che riguarda anzitutto i rapporti tra gli studenti e le loro famiglie, e che si ripercuote nei rapporti tra le famiglie e gli insegnanti. Il patto educativo che esisteva un tempo, ha scritto per esempio Antonio Scurati su “La stampa”, si è dissolto e per ragioni misteriose non è stato sostituito da nient’altro. Per ragioni misteriose: servirsi di questa espressione non equivale ad ammettere l’impossibilità, o meglio l’impotenza, di ogni diagnosi? È questa sensazione di impotenza intellettuale che domina le riflessioni sulla scuola, in tutti gli articoli che mi è capitato di leggere, anche in quelli in cui permane la passione per l’insegnamento e la volontà di non arrendersi. Ma davvero una diagnosi è impossibile?

Torniamo al punto di partenza, cioè al progetto di una scuola democratica, che si era affermato alla fine degli anni Sessanta nel secolo scorso. Un progetto ampiamente condiviso, ma che bisogna valutare soprattutto per come è stato voluto dalla sinistra, perché è la sinistra che vi ha imposto il suo marchio. E sin dall’inizio alle luci si sono mescolate le ombre: l’ideologia è diventata subito la componente più aggressiva, e distruttiva. Ma, almeno per un certo periodo, gli aspetti positivi hanno prevalso: una selezione basata ampiamente sul ceto era stata sconfitta, un autoritarismo ingiustificato e sterile era stato spazzato via. E solo dopo parecchio tempo i primi dubbi sono emersi: affermando il diritto all’istruzione fino a 14 anni, la scuola democratica deve anche garantire un percorso eguale per tutti? Deve promuovere comunque, fino al compimento della terza media? Bocciare uno studente che non ha assimilato quasi nulla nelle diverse discipline è un atto punitivo? La scuola dei diritti non dovrebbe essere in pari misura una scuola dei doveri, dell’impegno nello studio e del rispetto nei riguardi non solo degli insegnanti ma anche degli altri compagni? Uno studente che con il suo comportamento indisciplinato ostacola lo svolgimento delle lezioni, non danneggia forse chi va a scuola per avere una formazione?

  

 

Non era facile porre queste domande perché, in base all’ideologia egualitaria, parole come disciplina o bocciatura appartenevano al linguaggio poliziesco e della reazione. Non si aveva il coraggio, e non lo si ha neppure oggi, di andare alla radice del problema. Vorrei provare a farlo, rapidamente.

L’egualitarismo non è la giustizia, ma la sua caricatura. Una deformazione che si è affermata già nell’Ottocento – benché Marx ed Engels mettessero in guardia dalla rozza tendenza a tutto eguagliare” (“eine rohe Gleichmacherei”Manifesto del 1848, cap. 3) – e che ha trovato la sua realizzazione nel socialismo reale dell’Unione Sovietica e di altri paesi comunisti. L’egualitarismo comunista era ipocrita (come lo è ogni egualitarismo) in quanto consentiva il dominio di una minoranza privilegiata, il Partito. Tuttavia garantiva alla massa un livello di uniformità, che non poteva venire spezzato verso l’altro, ma neanche verso il basso. Tutti egualmente poveri, in una società fallimentare dal punto di vista economico, e tutti egualmente mediocri. Ora, il punto sempre trascurato è questo: la società capitalista, pur basandosi su principi economici e culturali del tutto diversi, ha scelto di (o ha dovuto) scendere a un compromesso con il socialismo reale. Ha accettato che in alcuni settori si stabilisse, in misura più o meno completa, il principio egualitario, cioè il garantismo. E il settore in cui il garantismo è arrivato a dominare del tutto incontrastato è la scuola.

Se non si comprende il dato di fatto (forse l’inevitabilità storica) di questa mostruosa ibridazione tra individualismo ed egualitarismo, ogni diagnosi dei mali di cui soffre attualmente la scuola diventa impossibile. L’egualitarismo ha determinato la sospensione di ogni nozione di “dovere” e di “responsabilità”. Ha garantito la promozione di qualunque asino, con assoluta certezza durante la scuola dell’obbligo, e con un altissimo tasso di probabilità negli anni successivi. Com’è noto a chiunque conosca almeno un po’ il mondo della scuola, i più strenui rappresentanti della promozione a oltranza sono stati i Presidi (oggi i Dirigenti scolastici), preoccupati di “non perdere classi”.

Mettiamoci ora per un attimo dal punto di vista dello studente di 16 o 17 anni, a cui è stata sempre regalata la promozione: ha davvero tutti i torti a infuriarsi – con l’istituzione, non si dice con il singolo docente – quando prende brutti voti? Potrebbe dire: “che cosa ho imparato a scuola? che anche ignorando le tabelline e in possesso di un lessico limitatissimo, si può essere promossi in matematica e italiano. Non mi è stato mai insegnato a studiare, a concentrarmi su un libro, e a ripetere un esercizio che non sapevo fare. Ora si pretende che io legga Dante e risolva delle equazioni. Non è giusto”. Bisogna ammettere che questa argomentazione avrebbe una certa plausibilità.

Don Milani e i ragazzi di Barbiana. Alle sue idee pedagogiche e del ruolo sociale della scuola alcuni critici fanno risalire polemicamente la perdita di autorità dell’insegnamento.

Una scuola che tollera l’ignoranza, che non sa esortare alla responsabilità individuale, è una scuola diseducativa. Ed è anche una scuola antidemocratica, cioè il rovescio di quella scuola per cui la mia generazione si era battuta: ma noi volevano una scuola di qualità per tutti, non una scuola per tutti gli asini. 

Quanto ai bulli, non intendo certo dimenticare le violenze fisiche nei confronti di altri studenti e le aggressioni egualmente odiose agli insegnanti, ma non vorrei limitarmi ai casi estremi: c’è un bullismo “diffuso”, quotidiano, che danneggia la maggioranza degli studenti. Le classi cosiddette “problematiche” dai dirigenti scolastici, che nel buonismo e nel calcolo pragmatico trovano la loro fonte di ispirazione, sono classi in cui è semplicemente impossibile fare lezione: nelle quali cioè ogni studente serio viene danneggiato nei suoi diritti. D’altronde, la maggiore incentivazione al bullismo è la sensazione di impunità. Così la scuola che voleva essere democratica è diventata il rovescio del suo progetto iniziale. 

Le responsabilità per questa situazione sono di molti, ma in particolare della sinistra, incapace di contrastare le devastazioni prodotte dall’ideologia. Eppure dovrebbero essere le forze politiche di sinistra a impegnarsi maggiormente per una scuola pubblica di qualità: la crescita culturale della maggior parte delle persone, e la diffusione di capacità critiche, sono tra i valori della sinistra (e non necessariamente della destra). Sarebbe necessario un dibattito di ampio respiro perché molte cose sono cambiate rispetto a mezzo secolo fa. Se si considerano le proposte della sinistra negli scorsi decenni, e sino a quell’obbrobrio che è stato “la buona scuola” di Renzi, colpisce la totale inadeguatezza ad affrontare i problemi di quella che è probabilmente la più complessa delle istituzioni sociali: più ancora della sanità e della sicurezza, il campo dell’istruzione esige molteplici punti di vista, flessibilità, intelligenza. E, in generale, una trasformazione di mentalità rispetto agli stereotipi tuttora dominanti.

Le società tradizionali erano caratterizzati dai “riti di passaggio”, come li ha chiamati Van Gennep. Si trattava di soglie, percepite come tali e grazie a cui l’individuo entrava in una nuova fase della sua vita. Sino ad alcuni decenni fa, la scuola era la forma di passaggio o di iniziazione più importante, in quanto socialmente la più estesa. Esistevano riti ansiogeni, gli esami: prove anche troppo severe, di cui gli esami attuali sono la caricatura, dal punto di vista della difficoltà e del tasso di selezione. Nessuno rimpiange le prove della vecchia scuola, i capricci e le bizzarrie di certi insegnanti: ma che andare a scuola debba essere un mettersi alla prova, in un clima sereno ma improntato a serietà, con insegnanti che sanno aiutare ma valutano in base al merito; che bocciano gli asini per due motivi: perché è una cosa giusta, e perché non vogliono incentivare l’irresponsabilità e l’arroganza di chi si sente comunque garantito – tutto questo non è forse auspicabile? 

 
 

 

Articolo di Giovanni Bottiroli per Doppiozero.com 

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