QUANTO M’E’ DOLCE L’UCRAINA

QUANTO M’E’ DOLCE L’UCRAINA

Il sole di Odessa, i castagni di Kyiv cari a Bulgakov “che per un moscovita erano esotici come palme”. Gli scrittori e l’eterno confronto tra la fredda Madre Russia e l’eccentrica terra affacciata sul Mar Nero

 

 

 

 

 

 

Anna Achmatova ritratta da Nathan Altman, 1914 (foto Olycom)

 

 

 

Com’è fortunata, lei che se ne va in Ucraina! A Kyiv ci sono le paste con la crema…”.

 

 

Mosca, autunno 1918. La scrittrice russa Nadežna Aleksandrovna Buinskaja, in arte Teffi, si ritrova da un giorno all’altro in braghe di tela: “La parola russa”, la rivista da un milione di copie di cui è collaboratrice, viene accusata di antibolscevismo e liquidata. Il clima si sta facendo irrespirabile e anche per lei, pur famosissima e molto letta – balocchi e profumi portavano il suo nome, era un’influencer ante litteram, ma per litteras – non era facile sbarcare il lunario.

 

 

 Aleksandrovna Buinskaja

 I caffè traboccavano di gente con i cappotti laceri e i giovani poeti vagano dall’uno all’altro ululando versi con voci affamate. Per strada, tra case buie e anfratti dove i passanti venivano soffocati e rapinati, sfilavano soldati dell’armata rossa che sospingevano gruppi di arrestati. Il cibo scarseggiava. Urgevano soluzioni.

“Un giorno si presenta Gus’kin”, scrive Teffi nel romanzo Da Mosca al Mar Nero, “un impresario strabico di Odessa che cerca di convincermi ad andare con lui in Ucraina per delle letture pubbliche. Mi dice: ‘Oggi ha mangiato la pagnotta? Bene, perché domani non sarà così. Non lo sa? Tutti quelli che possono vanno in Ucraina. Solo che nessuno può. Mentre lei la porterò io. Ho già prenotato la stanza migliore all’hotel Londra. Là splende il sole. Piglierà i soldi, si comprerà burro e prosciutto. Cos’ha da perdere?’”. Niente. Così Teffi si mette in viaggio. Arrivata a Kyiv, scriverà: “La gente va e viene da un negozio all’altro. I nuovi arrivati si ingozzano coscienziosamente. Tutti sono stracarichi di cibo. Vapore e fumo da tutte le porte. I negozi sono zeppi di prosciutti, salami, tacchini. Non è un sogno. E’ la vita vera”.

Cronaca di un’epoca sepolta, quel 1918 “ricco di sole d’estate e di neve d’inverno”, meteo-descrivendo il quale Michail Bulgakov dà avvio a La guardia bianca. Modello di riferimento per Pasternak, grande romanzo di Kyiv e di un mondo che tramontava mentre Dio “in volo nel cielo screpolato non dava risposte”, racconta le vicissitudini di quei giorni, della famiglia Turbin e di un’intera città che, indipendente dall’anno precedente, occupata prima dai tedeschi e poi dalle truppe del nazionalista Petljura, si preparava a fronteggiare la cupa bordata dei bolscevichi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Michail Bungakov

“La città fu presa e persa dalle truppe più disparate,” rievoca Viktor Sklovskij, che lì si trovava con la quarta divisione corazzata, in Viaggio sentimentale. “Ma i caffé continuavano a lavorare. Nel teatro della città si esibiva Armand Duclos, indovino e chiaroveggente. Indovinava i nomi scritti su un foglietto, ma tutti si interessavano soprattutto alle sue profezie. Ricordo le domande. “Sarà intatta la mia mobilia a Pietroburgo?” E lui, barcollando a occhi bendati sul palcoscenico: “La vedo, sì, la vedo. E’ intatta!”. Una volta gli fu chiesto: “Verranno a Kyiv i bolscevichi?”. E lui promise di no, aggiungendo che i francesi avevano un raggio ultravioletto in grado di accecarli. Lo incontrai mesi dopo a Pietroburgo, lavorava nella sezione culturale di un reparto dell’armata rossa”. E ricordando quella primavera da arruolato: “Quando le donne vestono di leggero, con abiti graziosi, è dura andare per strada con vestiti sudici. A Kyiv era dura camminare tra quella gente elegante trasportando catene d’automobile sulle spalle. A Pietroburgo no, non era dura: a Pietroburgo porti un grosso sacco pieno di legna e senti solo l’orgoglio di essere forte”. Differenza non trascurabile. Differenza essenziale. Non l’unica: era una città vivace, Kyiv, nella quale vivevano etnie diverse – russi, ucraini, ebrei, tedeschi – in perenne zuffa interetnica; l’eterogeneità, insomma, non era un fattore d’ordine come in altre città della Russia. Tuttavia l’effervescenza non pregiudicava la fioritura: presso l’accademia di Teologia in cui insegnava il padre di Bulgakov proliferavano sì circoli impregnati di idee nazionaliste, eppure l’ateneo aveva fama, anche a Pietroburgo, di essere il più lucido e aperto dell’epoca. La città, spazzata da brezze cosmopolite, era ricca di fascino. Lo scrittore Il’ja Erenburg scriveva: “Kyiv aveva parchi enormi, bellissimi, adorni di castagni. Per un moscovita erano esotici come palme”. (Di quei castagni, Bulgakov sentirà la mancanza per tutta la vita. Per non parlare del cioccolato Gala Peter, con la sua punta d’amaro, e degli arcinoti Biscotti del Capitano, tondi, di pasta frolla, con sale e cumino). I bar all’aperto, affacciati su viale Krešatik, straripavano di clienti e la gente “sorrideva per strada”. Lo scrittore de Il Maestro e Margherita, che in gioventù era fissato col biliardo – frequentava gli otto tavoli del polacco Golombeck, annessa birreria – mai sarebbe riuscito a far pace con la “folla lugubre di Mosca”, città estranea al temperamento estroverso dei suoi concittadini, abituati a godersela e a riempire allegramente i teatri per assistere alla “Carmen”, a “Gli ugonotti”, o a un “Barbiere di Siviglia” “con cantanti italiani”. Poi irruppe la Storia, calando la sua mannaia. Improvvisamente, per strada e sui tramvai, si sentiva parlare solo di come scappare. Chi poteva, spediva via i bambini. In stazione la gente stava in fila anche per tre giorni. I binari, le sale d’attesa, i gradini dei sottopassaggi erano invasi da profughi. Bulgakov si ritrovò a prestar servizio nell’ospedale da campo che la Croce Rossa aveva allestito proprio a Kyiv. Poi venne trasferito in Ucraina occidentale. Infine a Cernovcy. “Gli facevo da infermiera”, racconterà la moglie. “Reggevo le gambe che lui amputava. La prima volta mi sono sentita male, poi è passato”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Victor Sklovskij

 Intanto, settecento chilometri più a sud, Odessa: tramonti densi come marmellata, una vivacissima presenza ebraica e, nelle vetrine delle drogherie, rum della Giamaica, olio di Marsiglia, sardine Philippe et Canand, pepe della Caienna, sigari delle piantagioni di Peerpoint Morgan e arance di Gerusalemme. “Ecco che cosa porta sulla spiaggia la schiumosa risacca del mare di Odessa”, scriveva Babel’, canonizzandola per sempre nei suoi voluttuosi racconti e canonizzando anche, in un articolo del 1916, la sua irriducibile originalità. “L’odessita” – sosteneva – “è l’esatto opposto del pietroburghese. Ma Pietroburgo ha trionfato sul governatorato di Poltava”, miagolava rampognando a ritroso Gogol’, reo di abbandono della spensierata Ucraina in favore della spettrale città premeditata. E concludeva: “Odessa è l’unica città dove possa nascere quel Maupassant russo di cui abbiamo tanto bisogno”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Odessa viveva la sua gloria, celebrava la sua epica. Costruita sulle rovine di una fortezza turca, battezzata pensando a Omero e beneficiata da una primavera al profumo di acacia, le scene dei suoi teatri ardevano per Ja Kremer, famosissima cantante specializzata in un repertorio di “canzoni intime” che lei stessa componeva; nel 1916 era già un idolo in tutta la Russia ma nel 1919, via Costantinopoli, inevitabilmente fuggì, sbarcò a Broadway, fece carriera e si ritirò dalle scene negli anni 30, proprio mentre l’ucraina, sottoposta a una tremenda collettivizzazione forzata, registrava la morte per carestia di tre milioni di persone – Kremer romperà il silenzio canoro solo nel 1943, esibendosi alla conferenza di Teheran, alla presenza di Stalin, per il compleanno di Churchill. Ucraino odessita anche uno dei primi aviatori russi, S. I. Utokin: “impavido, elegante, con le braccia lunghe”, così lo raccontano gli articoli dell’epoca; vera rockstar, eroe amato per la spericolatezza delle sue imprese, ebbe un incidente precipitando nelle paludi di Novgorod e non si riprese mai più – curato con massicce dosi di cocaina e morfina, morì di polmonite in un ospedale psichiatrico. Ucraini di Odessa, infine, anche gli scrittori del gruppo “Kollektiv poetov”, stantuffo lirico di una città gaudente e libera, isola d’eccezione in un impero austero e autoritario. Città che, oltre a Isaac Babel’, regalò al mondo la fenomenale coppia di scrittori umoristici Il’f e Petrov, Semyon Gecht, Jurij Oleša, Valentin Kataev, Vera Inber, e il leggendario Eduard Bagrickij, il “François Villon di Odessa”, morto a trentotto anni. “Me lo ricordo da giovane,” scrisse Babel’. “Seppelliva i suoi interlocutori sotto una valanga di versi, indossava un camiciotto e un paio di calzoni alla zuava. Era chiassoso e somigliava solo a se stesso. Ci immaginavamo da vecchi, maliziosi e grassi, che già avevamo abbandonato le fredde città ed eravamo tornati a Odessa, sotto il sole, sul viale in riva al mare, ad accompagnare con uno sguardo insistente le donne che passavano…”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Isaac Babel

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Anche Aleksandr Puškin disse la sua, memorabilmente. Già nel 1831, parlando de Le veglie alla fattoria di Didanka di Nikolaj Gogol’ – opera straordinaria che esplorò le estreme possibilità della lingua russa, lavorando con una libertà “cui forse non era estranea la sua origine ucraina”(serenavitale)–contagiato dal lieto demonismo dei racconti, definì gli ucraini “una tribù che canta e balla”. Nei Viaggi di Onegin, ricordando una visita di qualche anno prima impreziosita da un audace amorazzo con la moglie del governatore, incoronò Odessa coi felicissimi versi: “Lì a lungo resta sereno il cielo / lì tutto respira d’europa / La lingua della dorata Italia risuona per l’elegante strada / dove passano lo slavo / il francese, lo spagnolo, l’armeno e il greco…”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Odessa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Strade, quelle ucraine, lungo le quali hanno camminato scrittori che paiono innegabilmente caratterizzati da un certo tratto indomito, di eccentrica irriducibilità. Quel tratto ce l’aveva Nikolaj Gogol’, genio debordante e piromane incontrollato, che non accettò le sue pagine e nemmeno se stesso, e fece di una crepitante disarmonia il codice armonioso di una bella lingua nuova. Ce l’aveva Michail Arcybašev, autore di Sanin, spigliato romanzone del 1905 accusato di offesa al pudore e con protagonista un uomo “del futuro”, cinico, istintivo, de-ideologizzato e disinvolto scopatore – “la vita non è che una sensazione”. Ce l’aveva Anna Achmatova, odessita di nascita e liceale a Kyiv, che a cinque anni parlava perfettamente il francese, espulsa nel 1946 dall’unione degli Scrittori Sovietici e accusata di estetismo e disimpegno, poi riabilitata ma pubblicata solo parzialmente in Urss. Ce l’aveva Michail Bulgakov, la cui massima opera fu pubblicata postuma e in vita dovette sopportare umiliazioni, interrogatori, perquisizioni e un espatrio che Stalin non gli concesse mai – gli concesse di lavorare al Teatro di Mosca ma non come drammaturgo. Ce l’aveva Jurij Oleša, che nel 1927 pubblicò L’invidia, coraggiosa satira, ambigua e anticipatrice, dello scontro tra mondo vecchio e mondo nuovo – troppo, per l’urss. Ce l’aveva Isaak Babel’, che inviato nel 1920 da Gor’kij al fronte polacco al seguito del generale Budënnyj, scrisse L’armata a cavallo, epopea di portatori di “libertà e sifilide” che conobbe un crescente apprezzamento letterario e una crescente serie di distinguo, fino all’accusa, per Babel’, da parte proprio di Budënnyj, “di appartenere alla vecchia, putrescente intelligencija” e di essere un degenerato calunniatore di eroi – il resto è storia nota, poco allegra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Iza Kremer

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ce l’ha, oggi, Serhij Žadan, lo scrittore ucraino più noto e tradotto. Un romanzo nell’anagrafe: classe 1974, infanzia sovietica nella regione ucraino-orientale del Luhans’k, ora residente a Charkiv. Il convitto e La strada del Donbas (Voland) sono due romanzi bellissimi, che galoppano, con una prosa che si srotola come un nastro, espressiva e ironica, e una rara capacità di raccontare un mondo attonito. Tra posti di blocco che modificano il tempo e asfalti sconquassati che modificano lo spazio, tra città assediate e vite traumatizzate, tra vagoni bruciati e fischi di granate, una speranza c’è, esiste sempre: per esempio un ex alunno che, pur diventato separatista, ti salva da un mercenario, proprio come accade a Paša, il professore de Il convitto .E improvvisamente, dopo tanta morte, la morte scompare. “A casa c’è odore di lenzuola appena lavate”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Marco Archetti per Il Foglio Quotidiano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

https://www.youtube.com/watch?v=DIfQk24ndcQ&ab_channel=mindworks

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA GUERRA LINEARE

LA GUERRA LINEARE

RUSSIA Vs UCRAINA. E’ di ieri la dichiarazione del ministro degli esteri russo Sergej Viktorovič Lavrov dal tono distensivo: “possibile un accordo, intensificare la trattativa”. Apertura reale o solo melina? La storia militare russa insegna che i russi, quando si muovono, preferiscono la sorpresa. Vedremo,intanto questa l’analisi di un fine analista politico, Luca Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes

Dopodomani, mercoledì 16 febbraio, la Russia invaderà l’Ucraina. L’attacco partirà con bombardamenti aeronavali di preparazione dai distretti militari occidentale e meridionale russo – Crimea e Sebastopoli in prima linea – coinvolgendo probabilmente la Bielorussia (Lukashenka tiene molto al grado di colonnello dell’Armata russa promessogli da Putin). Fra oggi e domani, intanto, i ribelli delle repubblichine di Luhans’k e Donec’k scateneranno l’inferno. Nel giro di una o due settimane Kiev crollerà ai piedi di Mosca.

Luca Caracciolo

Da venerdì 11 febbraio questo scenario di produzione americana, diversamente dettagliato a seconda dell’affidabilità del ricevente, è sui tavoli dei trenta leader Nato e di selezionati partner.

Washington avverte che Mosca la pagherà carissima, a cominciare da devastanti sanzioni finanziarie ed economiche, fino all’esclusione dalle transazioni Swift – nervatura mondiale dei pagamenti elettronici – oltre al boicottaggio delle esportazioni dei suoi idrocarburi verso l’Europa e molto altro. La Federazione Russa verrà declassata dall’Occidente a Stato canaglia. Prima iperpotenza nucleare espulsa dalla “comunità internazionale”.

La Russia non attaccherà l’Ucraina con carrarmati e bombardieri. Lo dice l’analista Marta Ottaviani, che ha studiato a lungo Putin e la sua strategia e ha appena pubblicato il libro “Brigate russe. La guerra occulta del Cremlino tra troll e hacker” (pubblicato da Ledizioni, 213 pagine, 14,90 euro). Il che non significa che gli ucraini possano stare tranquilli. Le truppe schierate a ridosso del confine sono uno strumento di pressione integrato in una strategia più sofisticata rispetto all’aggressione nuda e cruda, che (oltretutto) non prometterebbe buoni risultati. Ottaviani racconta l’impianto teorico e le applicazioni che ha già avuto la cosiddetta “dottina Gerasimov”, dal nome del generale russo a cui viene attribuita, che ha cambiato il modo di fare la guerra: si tratta di «una strategia di guerra non lineare, che consiste proprio nel non attaccare direttamente un Paese, ma nel metterlo nella maggior difficoltà possibile, in modo tale da gettarlo nell’instabilità». Un grande ruolo ha l’utilizzo di Internet, delle nuove tecnologie e dei social network per manipolare l’opinione pubblica, usando l’informazione come arma. In questo libro Marta Ottaviani illustra come Mosca sia già riuscita a «influenzare alcuni grandi conflitti e appuntamenti internazionali attraverso attacchi hacker ai danni di molti Paesi europei e legioni di troll al soldo del Cremlino», che operano per accrescere la popolarità di Putin e screditare gli oppositori. L’obiettivo è quello di far filtrare la versione dei fatti russa.

Mosca nega di voler invadere il vicino. O meglio sé stessa, giusta la tesi di Putin per cui russi e ucraini – più bielorussi – sono il medesimo popolo. Russo. Intanto continua ad ammassare truppe e armi in prossimità della frontiera ucraina (russa).

Fra poche ore sapremo se l’intelligence americana avrà fatto il colpo del secolo, datando l’aggressione di Mosca, oppure no. Il problema, per Washington, è che sarà Putin a deciderlo. Biden gli ha alzato la palla, a lui schiacciarla dove meglio crede.

I casi sono due.

L’autocrate del Cremlino è un pazzo suicida e quindi marcerà su Kiev. Così si scaverà la fossa. Non solo l’Armata russa s’esporrà bersaglio perfetto alla guerriglia nazionalista ucraina, sostenuta ed equipaggiata da americani, britannici, polacchi e baltici.

Soprattutto, l’opinione pubblica russa non apprezzerà l’aggressione a un popolo comunque intimo, se non fratello. Un russo su tre ha parenti ucraini. Sommando questi fattori alla rappresaglia atlantica, il rischio per Putin è di aprire la crisi finale sua e del suo regime. Morire per Kiev?

Oppure il presidente russo conserva l’uso della ragione. Dunque manterrà la pressione sull’Ucraina finché non sarà sicuro di aver raggiunto lo scopo: riportare quella strategica marca nella sfera d’influenza del suo impero. Putin non vuole passare alla storia come lo zar che perse l’Ucraina. Ma sa che per recuperare Kiev deve prima neutralizzarla, inchiodandola nella terra di nessuno fra sé e la Nato.

Per poi riassorbirla, almeno in parte, una volta che gli ucraini si saranno resi conto che l’Occidente non intende morire per loro. Nel frattempo, Mosca vorrà approfondire le faglie nello schieramento atlantico, insanabili perché determinate dalle differenze di interessi e di memorie storiche dei suoi soci. Senza sparare un colpo, o quasi.

La prima opzione non si può escludere a priori. Anche i leader più scaltri commettono errori fatali, sotto pressione. Oppure qualcuno nelle Forze armate disobbedirà agli ordini o cadrà in una provocazione scatenando un incidente che obbligherà Putin all’offensiva. Contrariamente al cliché, l’autocrate non è onnipotente. Il suo Stato profondo può giocargli brutti scherzi. E’ lui stesso a confessare che l’80 per cento dei suoi ordini non viene eseguito.

La seconda ipotesi è invece svolgimento logico del piano russo. Putin vuole portare la Russia in un nuovo concerto europeo fondato sull’equilibrio delle potenze, sovvertendo il primato americano codificato nella Nato.

Congresso di Vienna 2.0. Il suo modello è Alessandro I. La neutralizzazione dell’Ucraina e l’assorbimento della Bielorussia ne sono precondizione, non fini in sé. Minsk è già tornata a casa. Successo tutt’altro che secondario. Per Kiev, ammesso sia possibile, ci vorrà molto più tempo, ma Mosca non è disposta a rinunciarvi. Né ha tanta fretta da imbarcarsi in un’offensiva controproducente.

L’attacco vecchio stile con bombardamenti, carri armati e stragi di civili porterebbe forse a un provvisorio successo militare, cui seguirebbe certamente la sconfitta strategica. La Nato spingerebbe basi e missili alla frontiera con l’Ucraina russa. Europei e americani metterebbero da parte le differenze, per un periodo. Svedesi e finlandesi, più antirussi di quasi tutti gli atlantici, entrerebbero di corsa nell’Alleanza e chiuderebbero a nord la morsa del più colossale cordone sanitario che storia ricordi. E chissà se Pechino, a quel punto, muoverebbe un dito per Mosca.

Putin ha sicuramente letto Sun Tzu. Sa che la vittoria vera si ottiene senza combattere. Semmai usando mezzi ambigui, oggi battezzati ibridi. La guerra attuale si fa alle società, non agli Stati.

Per esempio con attacchi cyber, capaci di infliggere danni strutturali al nemico senza che nulla si palesi prima, salvo constatarne poi i drammatici effetti. Quando è troppo tardi.

Con queste ed altre azioni coperte, tra cui disinformazione e guerra psicologica, è possibile rendere infernale la vita agli abitanti di Kiev e delle principali città ucraine. Costringendo magari il governo a trasferirsi a Leopoli, epicentro già polacco e asburgico dell’Ucraina russofoba. E impiantando un proprio governo civetta, per esempio a Kharkiv, capitale dell’Ucraina sovietica dal 1919 al 1934.

Finora Putin ha potuto contare su un alleato certo involontario, non inatteso: Biden. Gaffe a parte, colpisce come l’approccio del leader americano e dei suoi apparati alla crisi, sempre reattivo, spesso contraddittorio, abbia contribuito alla destabilizzazione dell’Ucraina.

Cioè allo scopo di Putin. Sono mesi che Zelensky segnala a Washington come l’enfasi sulla minaccia russa finisca per seminare panico in casa, spingere capitali e capitalisti (oligarchi) alla fuga, convincere i presunti amici a non impegnarsi troppo nel sostenere la causa ucraina. Salvo, al massimo, l’invio di armi non formidabili. Armatevi e combattete per noi. Non quel che ci si attende dagli amici. Ma in guerra, classica o ibrida, è già tanto poter contare su sé stessi.

Articolo di Luca Caracciolo, La Stampa

L’Ucraina di Mikhailov

L’Ucraina di Mikhailov

UNA STREPITOSA MOSTRA INAUGURA A TORINO IL NUOVO CENTRO ITALIANO PER LA FOTOGRAFIA CAMERA – QUARANTA ANNI DI FOTO DI BORIS MIKHAILOV- DAL REGIME SOVIETICO AL CROLLO DEL MURO DI BERLINO, DALLE EFFIMERE PRIMAVERE VERSO NUOVE EMARGINAZIONI.

 

La sede di Camera a Torino

La sede di Camera a Torino

Si è appena chiusa a Torino la grande mostra del fotografo ucraino Boris Mikhailov, allestita  presso i locali della più antica scuola cittadina di via Delle Rosine (che reca ancora in alto all’ingresso la scritta regia opera mendicità istruita) a cura di Camera-Centro italiano per la fotografia. Con il patrocinio del Mibac, della Regione Piemonte  e della Città di Torino, grazie a importanti partner sostenitori, Camera, con i sui mille metri di spazi espositivi e tre grandi eventi  annuali,  è destinato a completare l’offerta culturale dell’area Nord-ovest italiana, con l’ambizione di unificare tutti gli archivi fotografici italiani attraverso una rete digitale su piattaforma informatica condivisa.

Boris Mikhailov nato in Ucraina nel 1938 ha al suo attivo oltre quarantanni di fotografia. Nato ingegnere, licenziato dal regime sovietico con l’infamante accusa di pornografia (in realtà innocenti nudi della compagna)  si reinventa artista in grado di unire arti diverse, dalla scrittura, al teatro, alla pittura e scultura, con alcuni temi ricorrenti e presenti in altri artisti anti regime: l’occhiuta presenza del partito comunista e del KGB, l’oppressione burocratica, la dilagante corruzione.

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Foto della serie Superimposition

Mikhailov è un innovatore anche nella tecnica. Nel lontano 1968 applica la sovrapposizione di più diapositive, accostando oggetti, figure o immagini eterogenee e disparate. Nasce la serie Superimposition, con risultati spiazzanti, inverosimili, prospettive instabili, colori astratti, immagini in dissolvenza che trasudano di cultura figurativa e che evocano quelle di film d’autore.

 

 

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Foto serie Supereimposition

 

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Foto serie Superimposition

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Foto serie Superimposition

 

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Foto della serie Superimposition

 

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Foto della serie Superimposition

 

 

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Foto della serie Superimposition

 

Foto della serie Superesposition

Foto della serie Superimposition

 

 

 

Foto della serie superesposition

Foto della serie superimposition

 

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Foto della serie superimposition

 

Foto della serie superimposition

Foto della serie superimposition

 

 

La critica ironica al periodo sovietico è alla base della serie di lavori risalenti agli anni ’70 dal titolo Red Series e Luriki. Fotografie virate color seppia o colorate in cui il benessere della neo borghesia che scopre gli ozi balneari, le prime automobili, i primi oggetti consumistici, viene illustrato attraverso una effimera parodia .

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Foto serie Red series e Luriki

 

 

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Foto serie Red series e Luriki

Il Crollo del Muro di Berlino rappresenta per Mikhailov, non solo la dissoluzione e la decomposizione dell’URSS, ma la fine e l’inizio di una nuova nazione, la bellezza del sacrificio, la dimensione religiosa e spirituale, ma tutto ciò in pieno trapasso doloroso, in una città non bella, sporca, piena di poveri e senza tetto. Nasce la serie di Case History in cui il degrado postcomunista raggiunge la punta più acuta. Grandi manifesti, che nell’allestimento di Camera scandiscono come in una Via Crucis il grande corridoio centrale, ritraggono persone posta ai margini, reietti che hanno raggiunto il punto più basso della scala sociale, gente senza più speranza.

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Foto della serie Case History

 

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Foto della serie Case History

 

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Foto della serie Case History

 

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Foto della serie Case History

 

Foto della serie Case History

Foto della serie Case History

 

 

E per finire, la svolta drammatica del 2013, con i carri armati russi che invadono il paese dopo avere annesso la Crimea, le immagini della rivoluzione di piazza Majdan a Kiev contro il corrotto presidente post comunista Yanukovich. Immagini nella serie The Theater of War questa volte belle anche esteticamente, dai toni epici, pur nella calma glaciale delle piazze( è l’implacabile inverno ucraino), sventola  un’iconografia dimessa, gruppi di ragazzi si stringono e baciano, giocando a fare la rivoluzione, ma terribilmente seri. Accanto ai fascisti dell’estrema destra xenofoba,  operai e disoccupati senza rabbia, fermi contro i padroni dei Ming e dei carri armati.

 

Foto della serie The Theatre war

Foto della serie The Theatre war

 

 

 

 

Foto della serie The Theatre war

Foto della serie The Theatre war

 

Ha scritto Domenico Quirico, che conosce quel paese: “Ho visto passare autocarri carichi di uomini. Rotolavano con un rombo di tuono… autocarri scuri di fango, scuri anche gli uomini, i soldati, i volontari, sessantenni e ragazzi arraffati sui banchi di scuola o nell’ora in cui tornavano dai campi con le braccia appesantite per il lavoro e il sudore della giornata… l’Ucraina è un paese immenso, instancabile. Vi si trovano i più disperati difetti, ma ha un grande merito; la fede e il dolore vi sono amati”.

 

 

 

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