LE OSSESSIONI DI BASQUIAT

LE OSSESSIONI DI BASQUIAT

 

AL CHIOSTRO DEL BRAMANTE DI ROMA UNA MOSTRA DI BASQUIAT- CONTROVERSO E DISTURBANTE ESPONENTE DALL’AVAGUARDIA USA NEGLI ANNI ’80, ISPIRATO DALLA CULTURA  AFRO, DALLA MUSICA E DALLA SCRITTURA, SPESSO PRESENTE NELLE SUE OPERE DI ANGOSCIANTE RIBELLISMO

 

Spaziando di tecnica in tecnica, dall’olio all’acrilico, dal disegno alla serigrafia, arrivando fino alla ceramica, passando per alcune importanti collaborazioni con Andy Warhol, il percorso riunisce circa cento opere realizzate tra 1981 e 1987, provenienti dalla collezione di Yosef Mugrabi.

 

Jean-Michel Basquiat, morto a soli 27 anni per overdose

Ovvio che anche la morte prematura a soli 27 anni per un’ overdose abbia contribuito a far di lui, Jean-Michel Basquiat, una sorta di leggenda: l’ artista afroamericano maledetto tutto genio e sregolatezza, the king delle rutilanti notti newyorchesi anni Ottanta, il sodale di Andy Warhol e Madonna, futura star con cui l’ allora novello Caravaggio dell’ underground ebbe una fugace ma intensa love story.

Da antologia, per capire il clima del tempo, un articolo di qualche anno fa che Louise Veronica Ciccone affidò alle colonne del Guardian : «…Aveva la presenza fisica di una star del cinema ed ero pazza di lui. Aveva le tasche di quei suoi abiti Armani macchiate di vernice, piene di mucchi di soldi stropicciati.

L’ avere soldi lo faceva sentire in colpa. Non faceva altro che darli agli amici meno fortunati. Mi ricordo il tag di Jean-Michel, Samo, accompagnato da una piccola corona, e ricordo che pensavo fosse un genio. E lo era. Ma non ci si sentiva a proprio agio con lui.

Era il disegno il gioco di Jean-Michel Basquiat, quando era bambino. Incoraggiato dalla madre, schizzava su foglio i personaggi delle serie animate tivù, sognando di diventare, un giorno, un grande artista

Mi ricordo tutte quelle ragazze innamorate… una notte mi affacciai dalla finestra del suo loft e vidi una ragazza a cui aveva spezzato il cuore che bruciava i suoi quadri in un falò. Volevo fermarla, salvare i quadri, ma a lui sembrava non importare».

Ed ora a questo celebre, anzi celeberrimo James Dean dell’ arte secondo Novecento il Chiostro del Bramante dedica un’ ampia antologica, la stessa grossomodo vista a Milano pochi mesi fa, con più di un centinaio di opere provenienti dalla mastodontica collezione di Jose Mugrabi, imprenditore israelo-americano che possiede migliaia di opere, Warhol e lo stesso Basquiat in primis.

Dipinti, disegni, serigrafie, ceramiche, alcuni tra i famosi lavori realizzati a quattro mani con Andy (il sodalizio Basquiat-Warhol si spezzerà sfociando poi in una rottura mai sanata): la mostra romana, curata da Gianni Mercurio, descrive bene la veloce ma intensa parabola creativa di JMB, quasi tutta compresa nel breve volgere di un lustro abbondante, dal 1981 al 1987; una parabola turbolenta dove è impossibile scindere segno ed esistenza.

Basquiat usa le parole come elemento grafico per dare ritmo al lavoro. A ispirarlo, l’arte antica, greca e romana, ma soprattutto, la musica. Interessante la sezione dedicata alle ceramiche sulle quali realizza, con pochi segni veloci, i ritratti di amici e personaggi noti, da Keith Haring a Andy Warhol, da Cy Twombly a Walt Disney.

E sia del primo sia della seconda nel tempo s’ è detto tutto: il graffitismo originario, l’ elemento tribale, quello materico, l’ importanza della scrittura nei suoi lavori, il carattere drammatico e di denuncia della sua opera, il riuso di materiali di scarto, l’ altro sodalizio importante con Keith Haring, la divorante ambizione di un artista celebrato già a vent’ anni come una superstar.

 

«Come diventare Re? Prima di tutto crederci. È un requisito fondamentale per chi ha un obiettivo così ambizioso e il giovane Jean-Michel – scrive Mercurio nell’ azzeccato incipit del suo saggio – sembra avere già le idee chiare in proposito. A diciassette anni, al suo rientro in famiglia dopo l’ ennesima fuga da casa, dice al padre: Papà un giorno diventerò molto, molto famoso».

 

Opera di Baquiat comprata da Di Caprio

Profezia avverata, in un vorticoso mix di arte, colori urlanti, ribellismo, Tribeca, East Side, e notti selvagge che hanno valso a Basquiat il gallone di celebrità planetaria.

 

 

 

 

 

Articolo di Edoardo Sassi per il Corriere della Sera – Roma

RISOLVERE LA MORTE

RISOLVERE LA MORTE

 

“RISOLVERE” LA MORTE REGOLANDO L’OROLOGIO BIOLOGICO- L’IMMORTALITA’ A PORTATA DI MANO?- PER ALCUNI PUO’ APPARIRE UN SOGNO, PER ALTRI UN INCUBO- NEL FRATTEMPO SCIENZIATI CI LAVORANO E C’E’ CHI PENSA  AL COLOSSALE BUSINESS. 

 

Nel 2015 la casa editrice Bompiani ha pubblicato un libro dal titolo Da animali a dei, del saggista e storico Yuval N. Harari, in cui si poteva leggere: ” Per la prima volta nella storia sono più le vittime degli eccessi di cibo che quelle per denutrizione. Si muore di più per la vecchiaia che per le malattie infettive. Nelle società antiche una fine violenta toccava al 15 per cento delle persone, oggi siamo sotto l’1 per cento. In questo secolo punteremo all’immortalità. O meglio, tenderemo a vedere la morte come un banale problema tecnico. Del resto già nel 2013 Google ha lanciato la società Calico che ha la missione di combattere l’invecchiamento e – come dicono i fondatori – “risolvere la morte”».

Ebbene, chi ci sta lavorando sembra abbia ottenuto i primi risultati. In California, al Salk Institute di La Jolla, utilizzando le scoperte epigenetiche del premio Nobel 2012 per la medicina Shinya Yamanaka, sono riusciti a dimostrare che l’invecchiamento è un processo plastico che non avviene necessariamente in un’unica direzione. Sia sulle cellule in vitro che su topolini da laboratorio si è riusciti a riprogrammare i fattori che agiscono sull’invecchiamento delle cellule, recuperando la struttura e la funzione di epoche della vita precedenti, e i tessuti sono tornati vitali con un tempo e la vita dei topolini si è notevolmente allungata.

Tornare giovani, tornare sani, vivere più a lungo, quasi a proprio piacimento. E’ questo il nostro futuro?

E chi lo deciderà? Forse un algoritmo? Lo potranno fare solo i ricchi e non i poveri? Quando il mio genoma sarà in un computer, io collegato con dei sensori h24 e così le mie funzioni vitali, un “medico artificiale” potrà fare diagnosi istantanee e di una precisione impressionante. Cosa ne sarà del medico di base e degli ospedali?

Anche chi come noi fa prevenzione sarà costretto ad adottare nuovi paradigmi, mutare obiettivi e metodi, esplorare, in poche parole, un pianeta sconosciuto.

A me è venuto il mal di testa solo a pensarci, ma non mi sono sentito di fare una scettica alzata di spalle, perché non stiamo parlando di fantascienza, ma di cose che sono vicine, molto vicine. Gli enormi, repentini sviluppi della medicina e dell’intelligenza artificiale stanno lì a dimostrarlo. E’ meglio che ci prepariamo prima di esserne travolti.

 

 

 

NANDA E I BEAT

NANDA E I BEAT

 

FERNANDA PIVANO, ALTO BORGHESE, LICEO D’AZEGLIO E CONSERVATORIO A TORINO, LAUREA IN LETTERE. POI UN MATRIMONIO TORMENTATO COL GIOVANE ETTORE SOTTSASS, SQUATTRINATO E BEN AL DI LA’ DI DIVENTARE ARCHISTAR- L’AMICIZIA CON PAVESE, SOPRATTUTTO, CALVINO E L’EDITORE EINAUDI LE APRONO LE PORTE DELL’AMERICA- DIVENTA SORELLA,MADRE, TUTRICE DI UNA GENERAZIONE GENIALE E DISSIPATA: LA BEAT GENERATION- NELL’ ARTICOLO CHE SEGUE SI RICORDANO LE SUE DOTI DI TRADUTTRICE E CRITICA LETTERARIA

 

 

Li chiamava «i miei eroi». Ma l’ eroe, l’ eroina, era lei, Fernanda Pivano. Lei ha capito quanto fosse importante, nella letteratura e nella società, il loro urlo trasgressivo. Senza Fernanda Pivano – la Nanda – in Italia non avremmo conosciuto la Beat Generation o l’ avremmo conosciuta in ritardo, magari filtrata da una critica letteraria accademica, paludata e schizzinosa; quando sarebbe stato forse troppo tardi.

Lei ha da subito convissuto con quella banda di mostriciattoli. Li ha capiti. Ha inseguito le loro utopie. E ha fatto diventare realtà i loro testi. Li ha tradotti. Li ha «imposti» a editori tentennanti. Li ha arricchiti di prefazioni illuminanti. E poi ha fatto venire, anche fisicamente, in Italia gli autori beat.

Li ha ospitati in casa sua a Milano sopportando e ridendo dei loro scherzi a volte infantili, a volte geniali, a volte osceni. Li ha accompagnati in giro per le città in rocambolesche tournée.

Come quella volta che, a Spoleto, Allen Ginsberg scatenò un putiferio tra il pubblico. Arrivò la forza pubblica. Volevano portare Ginsberg in guardina. Intervenne la Nanda: «Non potete arrestarlo, è un poeta!», disse. «Sì con quella faccia e quella barba», risposero le guardie dell’ ordine.

«Ora ve lo dimostro», sussurrò con dolcezza la Nanda. E aprì una pagina di Urlo ; e lesse quattro versi. E i gendarmi si arresero.

D’ altra parte Fernanda Pivano dei suoi amati beat è sempre stata sorella tollerante ma non complice e madre saggia ma non oppressiva. Parlando di uno di loro (Jack Kerouac?) ricordava: «Mi disse: non bevi, non fumi, non ti droghi, ma perché hai voluto conoscermi?».

IL VIAGGIO IN AMERICA

In America Fernanda Pivano arrivò la prima volta nel 1956, allo sbocciare dei fermenti beat. Con il tempo e con le frequentazioni dei suoi amici artisti, scoprì e fece sua una politica meno ideologica e più concreta, meno teorica e più reale di quella che aveva vissuto in Italia. Si trovò in mezzo, in America, a chi faceva un gran casino per portare in piazza e nei cervelli della gente le sue, le sue della Nanda, stesse idee. La Nanda era pacifista e i Beat erano pacifisti e contro la guerra in Vietnam.

Lei non concepiva l’ odio ed era piena d’ amore per tutti e i Beat predicavano amore senza confini di morale, religione, patria, partito, sesso, regole, soldi, potere.

Fernanda Pivano giovane. Nata nel 1917 a Genova è deceduta a Milano nel 2009

Poi persino gli Hippie con la loro amorosa rivoluzione dei fiori l’ hanno affascinata. Tanto che dopo l’ appassimento del Sessantotto si domandava: «Ma che fine hanno fatto i fiori?». Su questo, sugli Hippie, non andava tanto d’ accordo con l’ amato Kerouac che liquidava i figli dei fiori con un secco: «Quelli sono venuti dopo di noi». A proposito di Kerouac: nel 1966 la Nanda lo portò in tv, alla Rai, per un’ intervista. Lei bella, giovane, gentile, dolce. Tradiva solo un po’ di tensione perché maneggiava continuamente un paio di occhiali che poi non ha mai indossato.

Lui, gesticolante come un francese del Canada da cui veniva la sua famiglia, era già consumato da quintali di droghe ed ettolitri di alcol. Maneggiava sigarette e whisky.

Ma rispose a tutte le domande. Tranne una: «Perché non sei felice?». Silenzio e un gesto: rotondo e malinconico come può essere un gesto senza voce.

L’ILLUSIONE DELLA FELICITA’

Ma era felice, la Nanda? «Ho provato l’ illusione di esserlo – diceva – quando mi sono immaginata che quegli ideali, proprio quelli della Beat Generation potessero appiccicarsi alla realtà del mondo. Ovvio che mi sono sbagliata. Ho capito che sono stata felice solo quando ero bambina con un papà e una mamma meravigliosi».

Fernanda con Ettore Sottsass

A volte si dice: l’ educazione dei figli. Con un babbo miliardario (in lire) e una mamma bellissima e di gran classe si sarebbe potuta perdere nei labirinti in cui sono caduti tanti figli di papà (quando ancora piccola si trasferì a Torino per andare a scuola faceva la stessa strada di Giovanni Agnelli). No, neanche quei diavoli di Kerouac, Ginsberg, Corso, Ferlinghetti, Burroughs l’ hanno fatta sballare.

Eppure lei voleva capire a tutti i costi che cosa significasse il loro «cercare nuovi stati di coscienza». Fino a cantare, a recitare, accanto a Ginsberg, facendo tintinnare un triangolo musicale: «Use Dope, Don’ t Smoke» (non fumare, drògati); lei che non aveva mai sfiorato nemmeno un fungo messicano.

È arrivata ad amare talmente le persone del mondo che, sposando la deriva triste e delusa dei suoi «eroi beat», nei momenti di serena rassegnazione alla sconfitta della sua utopia e del suo corpo malato, diceva: «La morte è la mia amica; aspetto che venga a trovarmi; almeno mi libererà da quel po’ po’ di roba che c’ è nel mondo: guerre, armi, fame, sfruttamento, schiavitù, consumismo, ingiustizia, odio. Basta!

Lo sai perché ho amato On The Road ? Perché là dentro c’ era la verità. Anzi la Verità».

NANDA CRITICA  E TRADUTTRICE

Non sarebbe giusto ricordare il contributo di Fernanda Pivano alla conoscenza dei Beat senza dar conto del suo spessore critico, anche se lei lo ha sempre negato. E invece saper decifrare, come ha fatto lei, come ha scritto lei, quel mondo dei suoi amici è stato fondamentale. Sembra scritto oggi; è l’ introduzione del 1964 a Jukebox all’ idrogeno di Ginsberg:

«Il piccolo borghese americano ha quell’ automobile frigorifero lavatrice televisione alloggio per cui è indebitato fino al collo lavora inebetito finché va a letto estenuato, annoiato, immeschinito, smidollato, rintronato dalla martellante propaganda televisiva verso nuovi sogni rateali, nuove schiavitù, nuove miserie camuffate. Ma convinto che il suo sia il migliore dei mondi possibili». (Il prossimo 18 luglio Fernanda Pivano compirà cent’ anni).

Articolo di Francesco Cevasco per “La Lettura – Corriere della Sera”

 

MICROBIOMA, PREDICE IL FUTURO?

MICROBIOMA, PREDICE IL FUTURO?

IL NOSTRO DESTINO È SCRITTO NEL NOSTRO INTESTINO, O MEGLIO, NEI MILIARDI DI BATTERI, FUNGHI E VIRUS CHE COSTITUISCONO IL ‘MICROBIOMA’- UN TERMINE CHE SARÀ SEMPRE PIÙ USATO NELLA MEDICINA E CHE GLI SCIENZIATI CONSIDERANO ADDIRITTURA UN ORGANO A SE STANTE –

 

Il nostro destino è scritto nel nostro intestino. O meglio, nei miliardi di batteri, funghi e virus presenti al suo interno, quelli che costituiscono il ‘microbioma’.

Vale a dire: un buon chilo e mezzo di microrganismi che pesano non solo quando ci pesiamo ma soprattutto sulla nostra salute. Il “microbioma” funziona infatti da barriera contro i germi patogeni; regolando l’assorbimento dei cibi e della produzione di vitamine e di energia, sostiene il nostro sistema immunitario. Importantissimo: una volta che il “sistema” crolla, il nostro corpo viene assalito dal male.

E il nostro DNA non basta a salvarci. Lo spiega Alessio Fasano, direttore del Dipartimento di gastroenterologia e nutrizione pediatrica del Massachusset General Hospital for Children di Boston: «Fino a poco tempo fa eravamo convinti che la sola predisposizione genetica accoppiata all’esposizione a un fattore ambientale scatenante, fosse necessaria e sufficiente a sviluppare malattie immuno-mediate, incluse quelle allergiche, autoimmunitarie e tumorali – spiega -. Con il completamento del progetto genoma umano ci siamo resi conto che il paradigma ‘un gene – una malattia’ non è vero».

microbioma

Il termine microbioma sarà sempre più usato nella medicina del futuro. Alcuni scienziati lo considerano addirittura un organo a se stante alla cui alterazione vengono correlate numerose patologie dell’apparato digerente ma anche della pelle e del sangue.

ALLA BASE DELLA VITA

Potremmo paragonare il nostro corpo a un terreno che se, fertile e ricco, permette la crescita di piante vigorose e sane. Un terreno produce solo se ricco di microorganismi che digeriscono la materia organica e la trasformano in cibo per le piante che a loro volta sono l’alimento principe dei ruminanti. Lo stomaco di bovini, pecore etc. è ricchissimo di microrganismi che vengono rimessi in circolo con le deiezioni degli animali in un incredibilmente complesso circolo virtuoso di cui funghi, virus e batteri sono i protagonisti primari.

microbioma

Queste forme di vita piccolissime e invisibili ai nostri occhi sono alla base della vita e del funzionamento di tutti gli esseri viventi più complessi. Forse sono state le prime forme di vita presenti sulla terra. Senza di loro non potremmo sopravvivere ed è sufficiente uno sbilanciamento della popolazione di uno questi microrganismi per scatenare malattie gravi e perfino letali.

La sola genetica non basta a spiegare alcuni fenomeni come per esempio l’attuale “epidemia” di malattie autoimmunitarie e allergiche nei Paesi industrializzati. Fasano ha formulato l’ipotesi che noi siamo il prodotto di due genomi: “quello umano, che ereditiamo dai nostri genitori, che a volte ha dei difetti genetici che ci predispongono a una pletora di malattie, e il microbioma, molto più dinamico, che cambia da individuo a individuo e nello stesso individuo nel tempo”.

Ormai abbiamo solide informazioni, conclude Fasano, che suggeriscono che la composizione del microbioma, soprattutto nei primi tre anni di vita, ha una forte influenza sulla maturazione del nostro sistema immunitario al punto di influenzare il nostro futuro clini, anche a distanza di anni. Ecco dunque che lo sviluppo di alcune comuni malattie potrebbe essere letto sotto questa prospettiva.

microbioma

COS’E’ IL MICROBIOMA ?

Il microbioma può a ragione essere considerato un organo a sé, le cui alterazioni sono state correlate a diverse condizioni e malattie, come obesità, fegato grasso, allergie e malattie che hanno origine da un cedimento del sistema immunitario.

Va da sé che questo renda il microbioma un campo di estremo interesse per tutta la medicina, perché a differenza di alcuni fattori che non sono modificabili e che incidono sull’insorgenza di malattie – come l’età e la genetica – si sta studiando come modificarlo.

INTESTINO

L’unica pratica riguardo il microbioma utilizzata da tempo è quella dei trapianti fecali, in cui i batteri prelevati dalle feci di un donatore sano sono trasferiti nell’intestino di un paziente, per esempio colpito da infezioni di ‘Clostridium difficile’. Per il resto si tratta, per lo più, di studi in corso.

microbioma

MALATTIE E MICROBIOMA

La rivista “Science” ha dedicato uno speciale proprio al microbioma, cercando di rispondere alla domanda: che cos’è che plasma e influenza l’esercito di batteri, funghi e virus che  portiamo dentro di noi?

Dall’analisi è così emerso che i fattori che influenzano la composizione e la diversità della flora intestinale sono moltissimi e sono riferibili all’età e al sesso, l’assunzione o meno di farmaci, gli stili di vita (includendo in questo anche la presenza di animali in casa o vizi quali il fumo e l’alcol), e ovviamente l’alimentazione.

Dall’analisi della flora intestinale dei partecipanti alla ricerca era possibile identificare anche i consumi di birra e le preferenze in fatto di cioccolato: per esempio, negli amanti del gusto fondente si osservava un’abbondanza dei batteri appartenenti alla famiglia delle Lachnospiraceae.

microbioma

D’altra parte però anche i medicinali influenzano pesantemente la composizione della flora intestinale e non solo gli antibiotici. Tra quelli degni di nota, spiegano gli scienziati, ci sono anche gli ormoni assunti attraverso gli anticoncezionali o usati per alleviare i sintomi della menopausa.

A sorpresa, invece, due delle variabili spesso correlate al microbioma, come le modalità di nascita (naturale o per taglio cesareo) e l’essere stati o meno allattati al seno, non sembrano influenzare la composizione della flora intestinale.

intestino

E per le malattie? L’analisi ha mostrato che alcuni microbi sembrano associarsi a condizioni patologiche come la colite ulcerosa o il cancro al colon.  Da ultimo: alcuni fattori sembrano favorire la diversità del microbioma, come caffè, tè, yogurt e vino rosso, mentre altri la compromettono, come l’alimentazione tipicamente occidentale, con elevato introito di calorie.

Questo significa esattamente che esiste una buona correlazione tra l’alimentazione e lo stato di salute: una grande diversità è sempre da preferirsi.

Articolo di Anna Fedefici perhttp://www.agricolaboccea.it/blog-agricoltura-biologica-e-biodinamica-roma/ 

 

NON E’ UN PAESE

NON E’ UN PAESE

NON E’ UN PAESE PER GIOVANI – L’INCREDIBILE STORIA DELLA CATANESE SABINA BERRETTA: DOPO LA LAUREA IN NEUROLOGIA PROVÒ A ENTRARE IN UNIVERSITÀ COME CUSTODE MA NON FU ASSUNTA – POI, A 29 ANNI, HA VINTO UNA BORSA PER IL MIT DI BOSTON, HA SALUTATO L’ITALIA E NON È PIÙ TORNATA INDIETRO

SABINA BERRETTA

«Qualcuno dice che il mio laboratorio somiglia a quello di Frankenstein. Naturalmente non è così, ma, certo, abbiamo 3 mila cervelli nei container. Pochi per le esigenze di una ricerca scientifica che ormai conta su strumenti, quelli sì, fantascientifici». Sognava di fare la scienziata in Italia, Sabina Berretta. Ma dopo anni di ricerche non pagate, l’ unica via per mantenersi agli studi sembrava un posto da bidella. Fallita anche quella prospettiva, è partita per l’ America: e non è più tornata.

Oggi Berretta, che ha 56 anni, è la scienziata italiana che dirige l’ Harvard Brain tissue resource center del McLean Hospital di Boston, la più grande banca dei cervelli del mondo. Qui la “materia grigia” viene catalogata, sezionata, conservata: i campioni inviati in tutti i laboratori del mondo per essere studiati. Qualche giorno fa ha lanciato un appello per fare nuove donazioni, essenziali alla ricerca: «Abbiamo bisogno di cervelli.

Solo studiandone sempre di più potremo sconfiggere malattie considerate inguaribili. O nemmeno considerate malattie». Ma com’ è arrivata Sabina Berretta, cervello in fuga – è proprio il caso di dirlo – a dirigere uno dei più prestigiosi laboratori del mondo? La sua è una storia che intreccia caso e passione: e mette in luce le carenze abissali del sistema universitario italiano.

Da dove è partita?

«Sono siciliana, vengo da Catania. Dopo il liceo volevo studiare filosofia, ma sapevo che non mi avrebbe permesso di sopravvivere: e siccome ero una sportiva mi iscrissi all’ Isef. Insegnando ginnastica, pensai, avrò tempo per studiare filosofia, prendere una seconda laurea. Fu preparando la tesi dell’ ultimo anno che scoprii la mia vocazione. Il professore che insegnava fisiologia all’ Isef era un docente di medicina.

Altro caso clamoroso, quello di Ilaria Capua, virologa di fama mondiale, costretta a lasciare l’Italia (vedi infra: Certe ferite non se ne vanno)

Entrai nel suo laboratorio dove facevano studi sul cervelletto. Capii subito che era quello che m’ interessava davvero. Misi da parte lo sport e cominciai a studiare medicina a Catania». Come andò? «Benissimo, continuai a fare ricerca in quel laboratorio e mi laureai con lode in neurologia. Solo che le ricerche nessuno me le pagava: ero una volontaria. E anche da laureata non c’ era posto per me. In quell’ istituto si liberava però un posto da bidello: pensai che poteva essere un modo per guadagnare dei soldi continuando a studiare. Dopo aver spazzato i pavimenti, insomma, potevo andare in laboratorio e proseguire le ricerche con uno stipendio su cui contare. Non vinsi nemmeno quel posto: eravamo troppi a farne richiesta».

SABINA BERRETTA

La persona che lo vinse era laureata come lei?

«Certo, adesso è una stimata ricercatrice, ma ha cominciato con un posto da bidella. Io invece ebbi fortuna. Vinsi una borsa del Cnr per studiare un anno all’ estero. Scelsi il Mit di Boston. Andò bene: scaduta la borsa, ero stimata e mi tennero. Era il 1990 e da allora non sono più tornata».

Lei dunque partì con una borsa di formazione italiana: ma fu l’ America a darle la possibilità di continuare i suoi studi

«Succede continuamente. Gli studenti approdano in America da tutta Europa per fare quei lavori di laboratorio che in America non vengono pagati. I più bravi vengono assunti: e siccome a casa non hanno prospettive, molti fanno come me e restano».

Cosa ha fatto in America?

«Proposi il mio lavoro ad Harvard: studiavo gli effetti della schizofrenia sul cervello e lì c’ era la banca dati più importante del mondo. Avevo bisogno di lavorare sul tessuto umano per far progredire le mie ricerche perché fino ad allora avevo analizzato solo modelli animali. Prima ho lavorato con la direttrice del centro, poi sono diventata una ricercatrice indipendente, con budget e staff.

Quando la direttrice è andata in pensione, ero quella che conosceva meglio l’ archivio dei cervelli: darmi il suo posto fu la scelta più ovvia».

SABINA BERRETTA

Quante persone dirige?

«Sette nel mio laboratorio, dieci nella banca dei cervelli. Staff di media grandezza, ce ne sono di più ampi. Studiamo la schizofrenia e i disturbi bipolari».

Sono malattie che lasciano un segno sulla materia grigia?

«Certo, tutte le malattie segnano il cervello. I malati di Alzheimer, per esempio, hanno la corteccia atrofizzata. D’ altronde a marcare il cervello non sono solo le malattie: ogni esperienza lascia il segno, così come il tempo che passa. Il cervello muta ad ogni nuova informazione. Certo, qualcosa è visibile a occhio nudo, qualcosa solo al microscopio. Come la depressione: difficile da vedere, ma lascia il segno».

Per eseguire questo genere di ricerche è essenziale conoscere prima la patologia?

SABINA BERRETTA

«No, anzi, lavorare su materiale non malato ci aiuta a fare comparazioni. Di solito intervistiamo i donatori e le loro famiglie, ma sono interviste mediche, non parliamo, insomma, di sentimenti. Lo faremo: stiamo studiando come gestire la privacy di queste persone. Solo che chi non è malato è meno motivato a donare.

Pensa che non serva: e d’ altronde perfino la medicina parla ancora di malattia fisica e malattia mentale. Ma anche la mentale è fisica. Per questo è così importante avere nuove donazioni».

Quante ne ricevete ogni anno?

«Circa centocinquanta. Troppo poche per gli strumenti incredibili che abbiamo. Ora possiamo fare cose davvero straordinarie come catalogare le cellule una ad una. Grazie ai nuovi strumenti e ai nostri studi sconfiggeremo nuove malattie. Ma abbiamo poco tessuto per gli esperimenti. Aiutateci: ce ne serve di più». Donate il vostro cervello alla scienza, insomma: anche se non siete un cervello in fuga.

Articolo di Anna Lombardi, per la Republica.it

Immagine in evidenza: Henry Matisse, colllezione Shchukin

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