STAI FRESCO

STAI FRESCO

 

UNA BELLA STORIA DI LAVORO, DI SUCCESSO E DI AMORE INTRAMONTABILE- PAOLO FRESCO RACCONTA LA SUA VITA CON PACATA SERENITA’ E MODESTIA.- L’INFANZIA GENOVESE CON VILLAGGIO E FABER, LA PARENTESI IN USA, POI LA FIAT DI GIANNI AGNELLI, LE MANOVRE DI UMBERTO, L’AVVENTO DI MARCHIONNE, LE IMPROVVIDE CONFIDENZE CON LA STAMPA.

 

Avvocato Paolo Fresco, cosa provò quando Gianni Agnelli le chiese di prendere il suo posto?

«Da decenni ero in adorazione di Gianni Agnelli, e lo ero ancora negli anni Novanta, quando divenni il secondo manager più importante al mondo. Anzi, per alcuni mesi fui il più potente: Jack Welch, presidente di General Electric, dovette cedermi temporaneamente le redini per un intervento cardiaco. Ma Agnelli era inarrivabile: non erano i soldi, non era il potere, era la sua vita inimitabile. Mi fece contattare dai cacciatori di teste Egon Zehnder offrendomi una posizione di vertice in Fiat. Risposi di essere lusingato, però ero impegnato in progetti importanti. Dovevo inoltre aspettare di compiere 65 anni per incassare il “premio di fedeltà” dalla GE».

Quando l’ Avvocato compì settant’ anni nominò presidente Cesare Romiti…

Paolo Fresco con Gianni Agnelli

«Salvo tornare alla carica con me quando anche Romiti si avvicinò ai settanta. Mi richiamarono gli headhunters e io reagii con un po’ di strafottenza: l’ Avvocato mi conosce – dissi – se ha bisogno mi chiami pure. Lui capì, alzò la cornetta del telefono e io mi precipitai a Torino. Così cominciarono i guai».

Guai? Non era quello che desiderava?

«Amministratore delegato era Paolo Cantarella: avevamo le stesse deleghe. Lui immaginava di poter fare come Romiti. Io credevo di essere stato chiamato con il ruolo operativo che ha un presidente negli Usa. L’ atteggiamento di Cantarella mi turbava perché sembrava volermi isolare dal resto dell’ azienda. Se chiamavo un dirigente, lui imponeva che passasse prima e dopo dai suoi uffici per riferire. Andai dall’ Avvocato e gli chiesi di scegliere; mi disse di aspettare sei mesi. Alla fine mi concentrai su ciò che sapevo fare meglio e che aveva favorito la mia ascesa in General Electric».

Sviluppare il business, immagino?

Paolo Fresco con Paolo Villaggio

«Negoziare. Individuare azioni strategiche e poi trattare ottenendo il massimo dalla controparte. In America ero il migliore».

È così che trasformò General Electric in prima multinazionale del mondo? Negli anni Ottanta la chiamavano Mr Globalization.

«Si deve tutto a Jack Welch: favorì, nonostante l’ opposizione di molti, la mia idea. Gli americani erano provinciali, credevano si dovesse competere solo con l’ azienda della porta accanto. Io sostenevo che il mondo si era messo in moto: i nostri concorrenti erano Siemens, Rolls Royce. Erano loro a sottrarci quote di mercato. Quando Welch mi diede il via libera, da prima azienda americana ci trasformammo in leader mondiale».

Torniamo a Fiat: quale fu la sua strategia?

«Proposi all’ Avvocato di vendere Fiat Auto. “È la cosa giusta” disse “ma il nonno si rivolterebbe nella tomba. Lo faccia quando sarò morto”. Testuali parole: “Per ora cerchi un’ alternativa che sia progressiva”. Cominciai una trattativa con i tedeschi di Mercedes Benz: offrivano 10 miliardi di euro, noi ne chiedevamo 12. A quel punto portai il presidente di Daimler, Jürgen Schrempp, a New York dall’ Avvocato. Quando uscimmo, Schrempp disse: “Non ho superato la prova”. Agnelli non riusciva a entrare in sintonia con i tedeschi».

Quindi tutto da rifare?

«Qualche tempo prima mi avevano cercato da General Motors. Li richiamai e giocai il tutto per tutto: stiamo chiudendo a 12 miliardi con i tedeschi, firmiamo tra 15 giorni, avete qualcosa da proporci? Dissero che 12 miliardi andavano bene ma preferivano partire rilevando il 20%. Risposi che la proposta mi allettava, perché l’ Avvocato auspicava una soluzione graduale. Però dovevano darmi garanzie. Si rifiutarono, ma i tempi erano stretti e alla fine accettarono la fatidica clausola: a richiesta di Fiat, sarebbero stati obbligati a comprare il restante 80%».

Con quella «trappola», pardon, garanzia, lei ha salvato la Fiat…

Paolo Fresco con un giovane Matteo Renzi

«No, la Fiat l’ ha salvata Sergio Marchionne. Diciamo che io gli ho fornito uno strumento efficace. Quando la nostra posizione sul mercato si deteriorò, Marchionne negoziò la rinuncia alla clausola ottenendo in cambio una penale salatissima e la restituzione gratuita del 20% delle azioni. Avrei tentato di farlo anch’ io, ma l’ Avvocato era morto e avevo ritenuto opportuno dimettermi».

Perché precisa: «Opportuno»?

«Era giunto il tempo di Umberto Agnelli. Che non mi amava. Quando l’ Avvocato era già malato tentò un golpe: riuscii a sventarlo grazie a una manina gentile che fece pervenire alla stampa il piano architettato per farmi dimettere durante un Cda già convocato».

Qual era il piano? E la gentile manina?

«Sulla manina non avrà da me altre informazioni. Quanto al piano di Umberto, metteva in campo l’ uomo dei fallimenti, l’ Enrico Bondi che poi si sarebbe occupato di Parmalat. Ottimo professionista, ma con la fama di risanare le società facendone pagare i costi ai creditori. Il giorno del tentato golpe imparai due lezioni: a non fidarmi dei giornalisti e che, comunque, alla fine è meglio dire quello che si pensa».

Mi spieghi meglio.

«Mi chiamò Ezio Mauro, direttore di Repubblica . Solo per avere un background , garantì: non avrebbe scritto nulla di ciò che gli confidavo. Non mi trattenni. Il giorno dopo lessi tutto sul giornale. Il titolo era: “Io rispetto i diritti di tutti ma l’ arroganza m’ offende”. Chiuse l’ articolo con una mia battuta su Berlusconi, così anche Silvio mi tolse il saluto. Ma sa cosa le dico: alla fine Mauro mi ha fatto un favore, mi sono tolto tanti pesi dallo stomaco e quell’ articolo l’ ho incorniciato».

Ne ha fatta di strada il ragazzo di Genova che andava a scuola con Paolo Villaggio…

Paolo Fresco con Maura Albites e il figlio Piero Villaggio

«Sono nato a Milano, poi papà venne trasferito a Genova. Mi iscrissero al liceo classico Andrea Doria. Paolo Villaggio è stato mio compagno di classe per cinque anni; avevamo costituito una bella combriccola, quelli della “terza E”. Lì ho conosciuto Gino Paoli, Tenco lo frequentavamo poco, a volte si aggregava Umberto Bindi, quello di Arrivederci , uno sfigato. Più tardi – era più giovane – si aggiunse Fabrizio De André. Ci vedevamo soprattutto d’ estate in Sardegna. Era molto legato a Paolo, ma passavano il tempo a litigare. Due ego spropositati, soprattutto Fabrizio: bizzarro, aggressivo, iconoclasta.

Confesso di non averlo capito. Adesso quando sento le sue canzoni mi rendo conto del suo genio, ma allora era solo uno che suonava la chitarra, che dovevi pregarlo un quarto d’ ora perché cantasse e due ore perché smettesse. Si accapigliava con Villaggio perché erano uguali: avevano il demone di voler piacere al grande pubblico. Davanti alla bara di Faber, Paolo mi disse: “Se avessi la garanzia di avere anch’ io un funerale come quello di Fabrizio morirei subito”».

Mai tentato dalla carriera artistica?

«All’ esame di Diritto commerciale il prof mi diede 30 ma mi consigliò di fare il cantante.

Avevo però un altro fardello sulle spalle…».

Fardello?

«Mio fratello maggiore morì in un incidente ferroviario nel ’43. Andava a Milano con papà per iscriversi all’ università. Il convoglio che li precedeva era stato mitragliato e si era fermato. Quando sopraggiunsero, andarono a sbattere e vi furono due morti. Da allora mi sentii dire che dovevo dare ai miei genitori anche le soddisfazioni che si aspettavano da Gigi. Per fortuna l’ ho presa come una missione. Cominciai a lavorare a Genova nello studio Lefebvre d’ Ovidio e poco dopo mi trasferii a Roma. Tornai a Genova nel 1962 come legale della CGE, una società controllata da General Electric e partecipata da Fiat. Lì cominciò il mio futuro».

Che effetto faceva la grande America al ragazzo di Genova?

«Facevo incontri importanti restando sempre un po’ ingenuo. La prima volta che vidi Bill Clinton sembrava fossimo amici di lunga data: sapeva tutto di me. Tornai da Welch, glielo dissi orgoglioso, e lui si mise a ridere: “Gli hanno letto il tuo curriculum e lui te l’ ha recitato”. La volta successiva, il Presidente mi chiese un parere. Prese nota: “Interessante”. Quando lo raccontai, altra risata: “Ha gettato nel cestino l’ appunto appena sei uscito”».

Un giovane Paolo Fresco con la moglie Marlene

Ma il più grande incontro, mi pare di capire, fu con Marlene, sua moglie…

«Perdoni, ma non riesco a parlarne senza commuovermi. L’ ho conosciuta a Roma, nel 1959, e ho avuto con lei una storia durata due giorni. Quando ci siamo rincontrati a New York nel 1965, né io né lei ci ricordavamo di quell’ avventura. A dire il vero io sì, perché mi era subito parsa la donna più bella del mondo. Però avevo capito male il suo nome: l’ amore fugace di Roma si chiamava Marlene, la ragazza di New York Jacqueline. La seconda volta che ci incontrammo precisò che il suo nome era Marlene, e allora mi tornò in mente tutto: non dissi nulla, giocai per un po’ e la feci sentire in colpa. Non ci siamo più lasciati fino a che l’ ho persa.

Quando mi dissero che aveva il parkinsonismo tirai un sospiro di sollievo. Ma il medico disse di non farmi illusioni: era un cugino del Parkinson persino più cattivo. Ora le sue ceneri sono lì, in quella torretta del giardino che da qui, Fiesole, domina Firenze. Quando riuscivamo ancora a parlare avevamo deciso di devolvere parte della nostra ricchezza agli altri: 25 milioni di dollari. Quei soldi ora servono a chi studia come combattere la malattia che me l’ ha portata via».

Articolo di Pier Luigi Vercesi per il Corriere della Sera

 

 

IL POTERE AL CINEMA

IL POTERE AL CINEMA

IL CINEMA QUARTO POTERE? – GIANNI CANOVA SCRIVE UN SAGGIO SUL POTERE VISTO DA DIETRO LA CINEPRESADA ROSSELLINI A FELLINI E PASOLINI, DA SCOLA  A MORETTI, FINO A SORRENTINO- PERCHE’ BEPPE GRILLO, CHE SUL SET NON CI SAPEVA FARE, SI SCOPRE PROFETA DELLA DEMOCRAZIA DIRETTA. COSI’ LA PENSA GEPPETTO.

 

Vedendo al cinema Darkest Hour (L’ora più buia) riflettevo sul fatto che gli autori stranieri hanno del potere un’idea diversa dalla nostra. Da una parte Churchill che impersona la politica come servizio e missione, dall’altro la maschera che Toni Servillo fa di Andreotti (prossimamente di Berlusconi, c’è da scommetterci): il ritratto archetipo dell’italianità triviale, melliflua, viscida addirittura.

Sul tema del potere, Gianni Canova ha di recente pubblicato il saggio Divi, duci, guitti, papi, caimani -L’immaginario del potere nel cinema italiano da Rossellini a The Young Pope. La tesi di fondo è che nel cinema italiano il potere non può essere buono, ma sempre misterioso, occulto, ingannevole, complottista. Sostiene Canova che si tratta oramai di una ideologia di fondo, una religione laica, una visione del mondo.

Gianni Canova

Scrive Andrea Minuz, commentando sul Foglio il saggio di Canova: “Bisogna partire dai registri narrativi principali con cui il cinema italiana ha messo in scena il potere: il grottesco da un lato, e la denuncia, l’indignazione dall’altro. In entrambi i casi, prende forma un’idea negativa del potere: il potere come colpa, o vergogna, o delitto, un’idea divorata da uno schematismo ideologico che appare indifferente alle trasformazioni sociali, culturali, politiche. Settant’anni di vita repubblicana non hanno minimamente scalfito un immaginario del potere ancora legato all’idea di malvagità, di cospirazione, con tutto il lessico dell’intrigo e della sopraffazione che ne deriva- “il Palazzo”, “le segrete stanze”, i “poteri occulti”, i “poteri forti”, la “casta”..

Scrive Canova; “ L’idea che il potere possa avere a che fare con la democrazia, cioè possa consistere prima di tutto nel governo delle istituzioni in vista del raggiungimento del bene comune, non ha avuto mai una grande presa su registi, sceneggiatori e produttori, che hanno preferito raccontare il potere come arbitrio, controllo, dominio, un potere che nasconde quasi sempre qualcosa, spietato feroce, malvagio, oppure viscido, mellifluo, felpato” appunto.

Il vate e profeta di questa lettura ripugnante del potere, per quanto attiene casa nostra, è stato Pier Paolo Pasolini di cui Canova cita gli scritti: “ nulla è più anarchico del potere”, “il potere fa quello che vuole e sfugge alle logiche razionali”, il potere “è completamente arbitrario e manipola i corpi in modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o Hitler”.

Scena da The Young Pope

Scrive ancora Minuz: “Il cinema italiano ha dato forma a questa cosmologia apocalittica del potere in tutte le possibili variazioni: l’impunibilità del potere (“Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”), la corruzione del potere ( “Il portaborse”, “Il caimano”), il trasformismo del potere (“Il gattopardo”, “I Vicerè”), l’oscenità del potere (“Salò o le 120 giornate di Sodoma”), la malvagità del potere (“Buongiorno notte”, l’arbitrarietà del potere ( “In nome del popolo italiano”).

Scrive Canova, commentando The Young Pope di Sorrentino che il punto di forza della serie: “ sta nell’avere intuito che per raccontare le strategie del potere, in Italia, bisogna rinunciare alle ambizioni dell’affabulazione per calarsi piuttosto nella dimensione del cerimoniale e della liturgia”. Il potere si mostra come affresco e rifugge lo storytelling; nel palcoscenico del paese funziona di più l’immaginario, il cerimoniale, la teatralità diffusa, la caricatura dello spettacolo, il “bagaglino”.

Toni Servillo sul set del film su Berlusconi di prossima uscita

Non ci interessa il potere ma la “scenografia del potere”, il film diventa una macchina processuale, sostituendosi alla giustizia incapace di arrivare alla Verità. “Grillo fa teatro, Santoro fa teatro, Travaglio fa teatro, Floris si aggira per lo studio a forma di teatro elisabettiano”.

Il cinema americano o inglese (si pensi a King’s speech, Il discorso del re) mette in scena il potere come fatto politico e etico, narrativo. Quello italiano proietta una immagine del potere come una entità astratta, invisibile e inafferrabile, poco esprimibile attraverso l’affabulazione. Per riuscire a raccontarlo bisogna corrispondere alla sua natura invisibile e misteriosa. Così come fece Fellini in Prova d’orchestra, potente apologo che in pieno ’68 mostra la deriva del disordine anarcoide e gli esiti del capovolgimento definitivo del mondo. La cultura del narcisismo, l’insofferenza delle regole e di ogni principio di competenza, a favore di una “democrazia diretta” stanno tutte in questo film, vero e proprio avvio della deriva che oggi chiamiamo populismo.

Beppe Grillo

.Non poteva, perciò, mancare nel saggio un capitolo dedicato alla deriva populista del nostro sistema dei media. Il personaggio analizzato è Beppe Grillo. Dalla coralità del gruppo si passa al monologo, adattissima forma per la “dittatura della semplificazione, l’invettiva, l’urlo anti casta, la lotta della piazza contro il Palazzo perché la verità apparterrebbe alla piazza, le menzogne solo al Palazzo.  

Grillo, afferma Canova a conclusione del suo escursus, “ ha portato a forma di spettacolo assoluta e totalizzante il monologo.. Lui parla da solo, gestisce il flusso della comunicazione in modo verticale, diffondendo il Verbo dall’alto del suo assolutismo enunciatario…. L’idea che tutto ciò abbia a che fare con la “democrazia diretta”, qualsiasi cosa voglia dire, è la beffa più grande che poteva rifilarci”.

 

 

 

 

NANGA PARBAT

NANGA PARBAT

OLTRE OGNI LIMITE E AL SOPRA DEL CIELO, IN UN LUOGO SENZA REGOLE SE NON QUELLE CHE TI IMPONE L’ISTINTO DI SOPRAVVIVENZA- «Vado a cercare aiuto, vedrai che torniamo a prenderti. Non mollare!». Ma lei sapeva. Sapeva che non l’ avrebbe più rivisto vivo.” MORTE SUL NANGA PARBAT.

 

Ha lasciato il suo amico lì, a settemila metri di altitudine, in quella truna, piccola tenda appoggiata sul ghiaccio. Lui sdraiato dentro, sfinito, il gelo a irrigidire la barba rossa e la vista ormai azzerata, in quelle condizioni può essere conseguenza di un edema polmonare.

L’ ha messo comodo per quanto possibile, il necessario per la sopravvivenza a portata di mano, poi l’ ha salutato, «vado a cercare aiuto, vedrai che torniamo a prenderti. Non mollare!». Ma lei sapeva. Sapeva che non l’ avrebbe più rivisto vivo.

L’ ha salutato con la mano, si è allontanata nel bianco accecante delle nevi perenni. Non c’ era altra scelta, non poteva esserci. Intorno, l’ Himalaya imponente a soffiare dall’ alto.

ADDIO

Ci sono cose che uniscono fors’ anche più dell’ amore. La sofferenza condivisa, il sacrificio comune in vista dell’ obiettivo. Retorica? Ma per niente, provate a immaginare, e non c’ è bisogno d’ essere alpinisti.

Scalare una delle montagne più alte e pericolose del mondo. In due, una donna e un uomo. Soli. Insieme nella bufera, a quaranta gradi sotto lo zero e un’ altitudine che per respirare devi allargare a forza i polmoni, il fiato che ghiaccia uscendo dalla bocca. E la fatica, la fatica immane, questa sì inimmaginabile per chi non ha vissuto un’ esperienza del genere. La vita dell’ uno nelle mani dell’ altra, e viceversa. Alla fine arrivi in vetta, ce l’ hai fatta, «ce l’ abbiamo fatta!». Ma la discesa, da lassù, non è meno complicata. Può essere mortale. Lo è stata.

nanga parbat revolOLTRE I LIMITI

Élisabeth Revol ha 37 anni e la montagna nell’ anima. Francese della Drôme, terra di Alpi e Galli e gente che vive di roccia e pascoli.

GENTE DURA.

Ha scalato le vette più alte del Sudamerica e del Nepal, poi il Pakistan. Ma la sua sfida, la sua fissa è sempre stata quella vetta dell’ Himalaya. Il Nanga Parbat, la «montagna nuda», la nona cima più alta del mondo. Tristemente famosa per l’ estrema difficoltà delle sue vie, dalla prima ascensione del 1953 ci han lasciato la pelle più di sessanta alpinisti. «E allora perché correre questo rischio?». È la sfida, la voglia di andare oltre i limiti, di fare cose che nessuno ha mai fatto, e se non la capite non è il caso di sforzarsi, non ci arriverete mai.

nanga parbat revolLa sua idea era alpinisticamente eroica: raggiungere gli 8.125 metri della vetta in inverno. E come compagno d’ impresa ha scelto Tomek, quel polacco dal viso simpatico e il passato burrascoso, eroina e vita da tossico e poi due anni di rieducazione e sei in India ad aiutare i bimbi malati di lebbra. Tomek Mackiewicz, 42 anni, due figli da una moglie e due figli dall’ altra. Per lui la montagna aveva invece rappresentato l’ ascesa verso la redenzione, la rinascita, alla larga dai patentini delle “federazioni sportive” che l’ avevan sempre trattato come uno svitato, «un matto innocuo», così ne parlavano. Però di arrampicare era capace, eccome.

Élisabeth e Tomek, una per l’ altro. Già ci avevano tentato fra il 2015 e il 2016, a salire in cima al Nanga Parbat. Quest’ anno ci hanno riprovato. E ci sono riusciti, cazzo, ci sono riusciti! Fino in vetta!

I problemi sono iniziati durante la discesa. Giovedì scorso Élisabeth ha chiamato con il telefono satellitare, ha gridato che Tomek stava male, molto male. Non vedeva quasi più, aveva i sintomi di un principio di assideramento, le energie ormai finite, ed erano ancora a 7.200 metri. E qui la scelta: restare con lui, aspettando dei soccorsi che fin lassù non sarebbero mai potuti arrivare. Oppure lasciare lì il compagno e proseguire, nella speranza di salvarsi.

SCELTA OBBLIGATA

Ha scelto la seconda. È arrivata al campo base a seimila metri, mentre la comunità mondiale degli alpinisti organizzava la missione di salvataggio. Gli elicotteri pakistani l’ hanno prelevata lassù, ora è in ospedale in Francia, rischia di perdere le dita del piede sinistro per il freddo patito. Arrivare fino a Tomek non è stato possibile.

Giusto qualche giorno fa, grazie agli studi classici da poco iniziati dal figliolo, chi scrive ha avuto l’ occasione di rileggere la frase di Eschilo: morire gloriosamente è meglio che salvarsi. Può esser vero, ma morire inutilmente o è un errore o una follia. La salvezza di Élisabeth è dovuta coincidere con la morte di Tomek. Lei lo penserà sempre, ammirando il cielo che, di un azzurro impareggiabile, domina anche le vette più alte. Come il segno di una resa invincibile.

nanga parbat revolnanga parbat revolArticolo di Andrea Scaglia per Libero Quotidiano

KNITTED CAMOUFLAGE| I Maglioni che si fondono con la Città

KNITTED CAMOUFLAGE| I Maglioni che si fondono con la Città

Knitted Camouflage, i lavori a maglia di Nina Dodd si trasformano in outfit camaleontici negli scatti di Joseph Ford.

Knitted Camouflage è un progetto del fotografo Joseph Ford che vede come protagonisti i lavori a maglia della designer Nina Dodd.

Se anche voi siete abituati a pensare che lo scopo di una fotografo sia esaltare un capo d’abbigliamento, resterete sorpresi guardando le fotografie del progetto Knitted Camouflage.

Negli scatti realizzati da Joseph Ford il risultato, infatti, è esattamente l’ opposto:

I capi realizzati a maglia da Nina si mimetizzano perfettamente con l’ambiente urbano circostante, fornendo un punto di vista del tutto insolito.

I capi realizzati per il progetto Knitted Camouflage sono stati accuratamente ideati con lo scopo di inserirsi nei vari ‘pattern’ urbani scelti dal fotografo.

Nina è riuscita a ricreare a maglia texture di ogni tipo: dai quadri mimetizzati su una parete piastrellata, al maglione perfettamente nascosto tra le sedute dell’autobus.

Tra i vari soggetti coinvolti in Knitted Camouflage, oltre ad un tenerissimo cagnolino camuffato da cespuglio, troviamo lo street artist francese Monsieur Chat.

Lo street artist ha infatti realizzato, per l’occasione, uno dei suoi famosi gattoni gialli sulla parete di una fabbrica dismessa, facendosi poi fotografare da Ford.

Ma il progetto Knitted Camouflage non è affatto la prima serie fotografica che vede Ford impegnato nello studio di texture e pattern.

La passione che il fotografo ha per le trame ha già dato vita ad un progetto dedicato alla nota casa di moda italiana Missoni.

Mescolando la moda alla natura, Ford ha creato una serie di sovrapposizioni fra la struttura dei pattern Missoni e quella di alcune vedute aeree.

In questo modo, il fotografo ci conduce ad un’osservazione attenta dei particolari, rivelando l’inaspettata bellezza delle cose quotidiane.

Foto: http://josephford.net/project/knitted-camouflage/3144

Pubblicato in collaborazione con Neomag (qui) magazine specializzato nelle ultime tendenze e focalizzato sulle mode e gli stili dei giovani.

I CONTI DI LUCA

I CONTI DI LUCA

MENO TASSE PER TUTTI, RICOMINCIA IL TORMENTONE PRELETTORALE: E’ LA VOLTA DELLA FLAT TAX- CHE COS’E’ E COME POTREBBE FUNZIONARE NELLE SEMPLICI PAROLE DI LUCA RICOLFI  

la strada senza tasseFlat tax. È una parola quasi nuova nel lessico della politica italiana, anche se qualche precedente non manca: Berlusconi e l’economista Antonio Martino la proposero nel 1994, anche se poi non se ne fece nulla; Marco Pannella la ripropose nel 2005, con un’aliquota del 20%, più o meno a metà strada fra le aliquote oggi proposte dalla Lega (15%) e da Forza Italia (23%).

Prima di ragionare su questa proposta, forse non è inutile illustrare il principio della flat tax con un esempio. Supponiamo, per fissare le idee, che la flat tax venga applicata solo ai redditi delle persone fisiche e che l’aliquota sia del 20%, con una no tax area (nessuna imposta) da zero a 10 mila euro. Supponiamo anche che, come spesso accade, la proposta sia affiancata da un’imposta negativa del 50% (imposta negativa significa: se guadagni meno di 10 mila euro, lo Stato ti dà la metà di quel che ti manca per arrivare a 10.000 euro).

Antonio Martino

Antonio Martino, economista, fondatore di Forza Italia

Risultato: chi guadagna 5000 euro, anziché pagare le tasse, riceve un regalo fiscale di 2.500 euro. Chi guadagna 10 mila euro non paga nulla. Chi guadagna 20 mila euro paga zero tasse sui primi 10 mila euro, e 2000 euro (il 20% di 10 mila) sui successivi 10 mila, il che significa che per lui l’aliquota media è del 10%. Chi guadagna 30 mila euro paga anch’egli zero tasse sui primi 10 mila euro.

Ma poi pagherà 4000 euro (il 20% di 20 mila) sui 20 mila successivi, il che significa che per lui l’aliquota è del 14,3%. Chi guadagna 50 mila euro ne paga 8000, e dunque ha un’aliquota media del 16%. Nessuno arriva a pagare il 20% (perché i primi 10 mila euro sono esentasse), ma chi è molto ricco si avvicina notevolmente all’aliquota piena, ovvero a pagare il 20% del suo reddito. Un Paperon de Paperoni che guadagnasse 1 milione di euro trasferirebbe il 19.8% del suo reddito al fisco, ossia quasi il 20%.

Dunque ricapitolando: i poveri riceverebbero soldi, i ceti bassi pagherebbero solo il 10%, il ceto medio intorno al 15%, i molto ricchi quasi il 20%. Scusate l’esempio terra-terra, ma serve a sgombrare il campo dalla più sciocca fra le obiezioni che vengono rivolte alla flat tax, quella secondo cui sarebbe un sistema non progressivo e quindi incostituzionale (in quanto violerebbe l’articolo 53, sui criteri di progressività che dovrebbero informare il sistema tributario).

Matteo Salvini, segretario Lega, colto in una curiosa espressione

Chi fa questa obiezione o, peggio ancora, parla di un sistema che toglie ai poveri per dare ai ricchi, una sorta di “Robin Hood al contrario”, semplicemente non ha capito come funziona la flat tax. Dunque lasciamo perdere e passiamo oltre.

Dal nostro esempio possiamo dedurre che la proposta del centrodestra di introdurre la flat tax sui redditi personali, ed eventualmente su quelli di impresa, è una buona proposta?

SILVIO BERLUSCONI E DIETRO LA SCRITTA TASSE jpeg

Silvio Berlusconi

Per certi versi lo è senz’altro, perché ha un enorme, inestimabile pregio: quello di essere un sistema semplicissimo che, se accompagnato dalla soppressione integrale delle innumerevoli norme e disposizioni particolari che infestano le nostre dichiarazioni dei redditi, sarebbe alla portata di un bambino di quinta elementare.

BERLUSCONIMa per altri versi la flat tax è invece una proposta estremamente velleitaria, perché aprirebbe una voragine nel gettito che, per ora, nessuno ci ha ancora spiegato in modo persuasivo come potrebbe essere coperta. Le due idee principali in circolazione, ossia varare una super-rottamazione delle cartelle esattoriali e puntare su una drastica riduzione dell’evasione fiscale, sono entrambe fragilissime, anche se per ragioni diverse. L’idea di fare cassa con l’ennesima sanatoria fiscale (maxi-sconto agli evasori) è debole perché si tratta di una misura una tantum, che anche se andasse in porto potrebbe compensare il mancato gettito per uno o due anni, non certo in modo permanente.

L’idea che aliquote più basse ridurrebbero drasticamente l’evasione fiscale è quantomeno ingenua (sempre che non si voglia instaurare un regime di terrore fiscale): l’elevata evasione fiscale che caratterizza l’Italia non dipende solo da aliquote troppo alte, ma dalla natura del nostro tessuto produttivo, in cui lavoro autonomo, piccole imprese, economia sommersa hanno un peso abnorme (un’anomalia che è aggravata dalla scarsità dei controlli, specie nel mezzogiorno e nelle realtà periferiche). Ve lo vedete l’idraulico emettere fattura solo perché, ferma restando l’Iva, la sua aliquota marginale è del 15% anziché del 27%?

marco pannella

Marco Pannella in una foto giovanile. Pannella è morto nel maggio del 2016.

Qualcuno pensa che gli insegnanti, che attualmente evadono massicciamente il fisco con le lezioni private, improvvisamente si metterebbero in regola, rilasciando regolare ricevuta ai loro studenti? Per non parlare del mondo delle piccole e piccolissime imprese, dove sottofatturazione e salari in nero sono piuttosto diffusi.

Insomma, è perfettamente ragionevole pensare che aliquote più basse ridurrebbero l’entità dell’evasione, ma è irragionevole pensare che lo farebbero in modo così massiccio da rendere sostenibile una flat tax al 15%, o anche al 23%.

È un’idea da buttar via, dunque? Forse no. Probabilmente la strada giusta è quella di una introduzione graduale (magari prevedendo all’inizio due aliquote, di cui una destinata a scomparire), eliminando però fin da subito la giungla delle agevolazioni e tutti i bizantinismi della dichiarazione dei redditi (salvo il meccanismo delle deduzioni, con il quale è possibile imprimere ulteriore progressività al sistema). Un sistema fiscale semplice, in cui chiunque potesse raccapezzarsi senza un commercialista, sarebbe già, di per sé, una grande conquista.

Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia

Alternativamente, si potrebbe iniziare, come di recente ha suggerito Giorgia Meloni, da una introduzione immediata dell’aliquota secca del 15% non su tutto il reddito, ma sui suoi incrementi, una scelta che sarebbe perfettamente sostenibile e fornirebbe un forte incentivo a lavorare di più.

Quale che sia la strada prescelta, il punto resta il medesimo. Se si vuole criticare la flat tax, è inutile accanirsi contro la non progressività, perché la flat tax è progressiva, e per certi versi lo è più del sistema attuale, che nulla riconosce ai cosiddetti incapienti, ossia a chi non guadagna abbastanza da dover pagare le tasse; che la flat tax non sia il demonio, del resto, lo ha riconosciuto lo stesso ministro dell’Economia, che in una recente intervista al Corriere della Sera, dando prova di notevole onestà intellettuale ha dichiarato: «Una riforma fiscale che preveda la semplificazione delle aliquote sino a una sola, meglio due, la esplorerei». In breve: se si vuole criticare la flat tax, l’argomento principe è la sostenibilità, non certo la presunta “ingiustizia”, o addirittura la incostituzionalità, dell’aliquota unica.

Simmetricamente, se la flat tax la si vuole difendere, la via maestra è delineare un credibile percorso di introduzione graduale, lasciando perdere le narrazioni semplicistiche e miracolistiche, che anziché convincerci non fanno che aumentare il nostro scetticismo.

Articolo di Luca Ricolfi apparso su www.fondazionehume.it  e sul Messaggero

 

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