BANANE IN PARADISO

BANANE IN PARADISO

LUCIGNOLO SPIEGA CON SEMPLICI ESEMPI COME LE MULTINAZIONALI EVADONO IL FISCO E PERCHE’ POCHI FANNO I SOLDI MENTRE I POVERI AUMENTANO. 

L’esempio di scuola è quello delle banane.

Che giro fanno le banane?

Vengono raccolte in un paese, mettiamo centroamericano, vengono caricate su una nave ed arrivano in Europa o Nord America dove vengono vendute al supermercato. Tassare questa attività dovrebbe essere semplice: una parte di utile si dovrebbe generare nel paese di raccolta, e la restante nel paese di vendita.

Purtroppo le cose non sono così scontate. A questo percorso fisico se ne sovrappone un altro, giuridico e contabile.

La società A del paese centroamericano che ha curato la raccolta vende le banane al prezzo di costo 1, quindi senza generare utili, alla società B situata in un paradiso fiscale. La società B vende le banane a 10 (ricavando un utile di 9) alla società europea o nordamericana C, che le rivende a 10 ai supermercati, quindi nuovamente al prezzo di costo senza generare utili. Gli utili sono tutti in capo alla società B, che però trovandosi in un paradiso fiscale non è tassata per nulla.

È così che dove si produce e si vende non si pagano tasse e gli utili rimangono tutti tranquillamente parcheggiati in un paradiso fiscale.

Ovviamente tutte e tre le società A, B e C sono controllate dalla stessa multinazionale X, che intasca tutto al netto.

 Ci sono diverse e più sofisticate varianti al meccanismo sopradescritto.

Mettiamo che le società A e C facciano un piccolo utile. Possono però prendere in prestito (per le ragioni più varie) una somma dalla società B, situata in un paradiso fiscale. Su tale somma presa in prestito pagheranno gli interessi che abbatteranno l’utile, mentre gli interessi incassati dalla società B situata nel paradiso fiscale saranno esentasse.

Ecco un altro meccanismo con cui una multinazionale può legalmente trasferire gli utili tra le proprie controllate in modo da abbattere le tasse.

 Immaginiamo poi che la nostra multinazionale, invece di commerciare banane, produca smartphones in Asia, producendo in Cina e comprando componenti a Taiwan, in Corea, Giappone, Vietnam, Indonesia, Malesia, Europa, Usa etc, e venda poi in tutto il mondo. In questo caso è facile immaginare quanti percorsi contabili possano fare i prodotti e quanto possa essere ancora più multiforme l’abbattimento degli utili.

 Quella sopra descritta è una delle ragioni per cui le multinazionali sono più competitive delle altre imprese e diventano sempre più grandi. Possono fare arbitraggi fiscali in tutto il mondo. Il signor Brambilla certo non potrebbe mai permettersi i meccanismi sopra descritti.

 Tutto ciò, in termini economici, è profondamente inefficiente.

Nessuno ha prodotto né banane né smartphones migliori, ma semplicemente c’è stato un trasferimento di ricchezza.

Si distolgono tempo e risorse all’innovazione per concentrarle sull’elusione fiscale, generando un insieme di servizi parassitari (avvocati, commercialisti, fiscalisti) e trasferendo risorse dal basso verso l’alto, a favore dei ben inseriti e a danno dei più poveri.

Inutile dire che poi quando le cose vanno male, se gli utili erano rimasti privati, le perdite purtroppo vengono quasi sempre pubblicizzate, soprattutto nel caso di imprese troppo grandi per fallire.

 Altro effetto perverso dei paradisi è quello di innescare una competizione tra sistemi fiscali che, per evitare i fenomeni elusivi sopra descritti, cambiano continuamente, diventando più complessi. Ciò fa sì che i singoli cittadini siano sempre più  soffocati dagli adempimenti, mentre solo chi ha grandi mezzi ha la possibilità di permettersi professionisti e servizi che consentano di sfuggire all’accertamento.

Una delle poche buone ragioni dell’ultima riforma fiscale dell’amministrazione Trump è quella di evitare l’elusione ed agevolare il rimpatrio degli utili delle multinazionali americane. A titolo di esempio si stima che la sola Apple detenga, parcheggiati in giurisdizioni compiacenti, circa 250 miliardi di dollari.

  

Nel mondo esistono circa quattro grandi gruppi di paradisi fiscali.

Il presidente della Commissione europea Juncker. Il suo paese, il Lussemburgo, è stato criticato perchè offre condizioni assai vantaggiose ai detentori di capitale

Il primo è quello dei paradisi europei: Monaco, Lussemburgo, Svizzera etc….. che presero slancio durante la prima guerra mondiale quando i paesi inasprirono la tassazione per finanziare lo sforzo bellico.

Il secondo, e più importante, è quello che gravita sull’ex impero britannico: sui territori della corona (Jersey, Man etc), come sui territori d’oltremare (Isole Cayman, Bermuda, Gibilterra etc) e sulle ex colonie a vario titolo (Hong Kong, Singapore etc). Questo gruppo lavora circa un terzo degli attivi bancari mondiali, che una volta ripuliti convergono su Londra assicurandole il ruolo di capitale finanziaria mondiale. Nelle isole Cayman hanno sede decine di migliaia di società ed i tre quarti degli hedge fund di tutto il mondo.

Il terzo gruppo (secondo per importanza) è quello che ruota attorno agli Usa, incentrato sulle agevolazioni sia federali che dei singoli stati americani e sui territori esteri (Isole Marshall, Isole Vergini etc)

Il quarto gruppo è composto da paesi eterogenei (Uruguay, Liberia etc) che però non hanno avuto altrettanto successo. D’altra parte chi evade (o elude) si sente più a suo agio nell’ambito della common law anglosassone piuttosto che in un paese africano e del terzo mondo…..

 Come si vede, ed in modo del tutto inaspettato, i paradisi fiscali non ruotano intorno a paesi dittatoriali o illiberali, ma vivono in simbiosi con le democrazie occidentali liberali.

Dubai (Emirati arabi uniti) ripresa durante la festa di Capodanno 2017 in cui un grattacielo si è incendiato

Democrazie occidentali che dal canto loro si sono pur evolute: nell’ottocento convertivano l’India alle monocolture e ne esportavano l’oppio in Cina (spianando le rotte a cannonate) attraverso Hong Kong, oppure in virtù del “destino manifesto” occupavano California, Nevada, Texas etc o annettevano Porto Rico,  Filippine Hawaii etc. Ora che invece esportano la democrazia ed i diritti dell’uomo a buon titolo possono importare un po’ di capitali (ovviamente ripuliti sugli zerbini dei vari ingressi della casa padronale).

 

Tanto detto, chi scrive è restio ad unirsi al piagnisteo pauperistico secondo cui se non ci fosse l’evasione fiscale ci sarebbero più servizi per tutti.

Vista l’esperienza del nostro Paese dei Balocchi (qui), chi scrive è portato a credere che almeno in Italia (ma tutto il mondo è paese) al doppio delle imposte pagate non sarebbe corrisposto il doppio dei servizi, ma piuttosto il triplo degli sprechi (cattedrali nel deserto, politiche economiche, sociali, industriali e chi più ne ha più ne metta) .

Questo con l’aggravante che chi evade, bene o male, produce quello che evade, mentre il ceto politico che spreca non produce proprio nulla, piuttosto distrugge ed impedisce di produrre.

Ciò che invece offende chi scrive è che l’evasione internazionale delle imprese realizzi un gigantesco trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, dai poveri ai ricchi, il che è esattamente il contrario di quanto sarebbe auspicabile sia socialmente che dal punto di vista dell’efficienza economica.

Sarebbe ottimale, infatti, che quanto prodotto rimanesse il più possibile in tasca a chi l’ha prodotto, soprattutto ed assolutamente alla base della piramide sociale.

 

A COME AGRICOLTURA

A COME AGRICOLTURA

L’AGRICOLTURA REALE PER UN AGRICOLTORE REALE– UN’ESPERTA RACCONTA CHE COS’E’ OGGI PRODURRE I CIBI, I RISCHI E LE PROSPETTIVE DI UN’ AGRICOLTURA SOSTENIBILE CHE ABBISOGNA DI INNOVAZIONE, COMUNICAZIONE, CONDIVISIONE.

Da 27 anni e più svolgo il mio lavoro ispettivo al Mipaf. Mi occupo di calamità naturali in agricoltura. Spesso giro tutta l’Italia agricola – sono circa 12 milioni di ettari – e incontro un sacco di agricoltori e imprenditori. Sarà anche per quel senso di fatalismo che caratterizza il mio lavoro – il motto è: siamo sotto al cielo – ma nell’agricoltura reale il pessimismo serpeggia. Le stesse facce dei contadini esprimono disagio. Si nota il contrasto tra la bellezza, o meglio la colorata fragranza di alcuni prodotti agricoli sopraffini e la stanchezza di chi li produce. Molti imprenditori agricoli sono anziani, stanchi, mani callose, rughe, l’artrite in agguato. Possiedono poco e niente, hanno case con mobili di legno spessi, enormi, voluminosi, fuori moda. E un parco macchine polveroso e vetusto. Sì, a volte è proprio il senso di fragilità dell’intero sistema che ti colpisce: baracche e immigrati, brandine sparse. Centinaia di lavoratori sotto pagati che in un attimo, come in un’apparizione, entrano nei campi, si chinano sulle piante e così passano la giornata, e l’attimo dopo, come in un miraggio, escono dal tuo raggio visivo, si disperdono, si nascondono, e solo perché qualcuno ha fatto un fischio: arriva la Finanza per un controllo. Se esaminiamo (dati Ismea alla mano) alcuni comparti, quelli tradizionalmente associati al made in Italy possiamo intravedere potenzialità e limiti. Questi ultimi sono sempre gli stessi, ma affrontati, mai superati: a) la difficoltà a fare squadra, cioè associarci in forme cooperativa: propendiamo per l’individualismo e siamo pochi inclini all’associazionismo; b) l’età media degli agricoltori è alta, quindi poca innovazione e minore flessibilità, c) frammentazione delle imprese agricole: le imprese in massima parte non hanno una dimensione economica tale da garantire un reddito sufficiente: alcune condotte part time, e insomma, nel complesso fanno numero ma non produzione (quest’ultima viene infatti soddisfatta da poche aziende medie/grandi). Tuttavia, e non solo sui media, il nostro paese agricolo appare sorridente, in buona salute: un esteso mulino bianco, innevato dalla farina e alimentato con chiare, fresche e dolci acque. Contadini vecchio stampo, carattere forte e barba lunga (e ben curata) che accarezzano i propri prodotti o si riposano sotto una quercia illuminati dalla luce rossa e violacea del tramonto. Sembrano dire: questa è la bellezza della natura, e noi prendiamo da lei quello che ci da, non spingiamo, non deformiamo e per questo siamo così, felici, soddisfatti, sotto questa quercia, sotto questa luce. Per parlare di agricoltura reale e dei suoi problemi nonché di alcune soluzioni, abbiamo chiacchierato con Deborah Piovan, agricoltore, agronoma.

Ciao, presentati

Sono un agricoltore. Mi sono laureata in Scienze Agrarie, con tesi in Miglioramento Genetico, all’Università di Pisa e alla Scuola Sant’Anna. Da allora gestisco con la mia famiglia la nostra azienda. Coltiviamo mais, frumento, soia, noci, girasole, ecc. Da tanti anni sono anche un dirigente di Confagricoltura. Mi occupo in particolare di questioni relative all’innovazione biotecnologica in agricoltura. In pratica, sono una di quegli imprenditori che chiede con forza alla politica che ci venga concesso di accedere alle innovazioni del miglioramento genetico. Cerco anche di raccontare alle persone che si occupano di altro che cos’è l’agricoltura e soprattutto cosa non è.

Ok, quali sono, secondo te, i problemi dell’agricoltura reale?

Primo: abbiamo bisogno di una politica agricola chiara e definita per un periodo congruo, l’incertezza non giova agli investimenti.
Secondo: alle imprese agricole italiane viene impedito l’accesso a una importante fetta di innovazione, quella legata alle biotecnologie. Mi spiego meglio. Al momento sembra che questo Paese abbia rinunciato a produrre derrate, dimenticando che sono alla base del famoso Made in Italy. Pensiamo per esempio al mais: è il mangime che sta alla base della filiera zootecnica che produce i nostri famosi prosciutti e formaggi, quelli che ci hanno resi famosi in tutto il mondo. Ebbene, fino a pochi anni fa eravamo autosufficienti per la produzione di mais; oggi importiamo quasi metà del nostro fabbisogno.

Come mai?

Il nostro prodotto non è appetito dall’industria mangimistica come quello importato, perché è meno sicuro. Infatti il mais coltivato nel sud Europa, a causa di un insetto che si chiama piralide ma anche per contingenze climatiche, è più facilmente ricco di tossine. In Spagna si difendono seminando un mais che si protegge da solo dalla piralide, con grande soddisfazione. A noi invece non è concesso, così per ottenere un prodotto sano siamo costretti a difendere il mais con insettcidi. Si produce comunque di meno e il prodotto è a rischio tossine. Ecco perché i mangimisti preferiscono affidarsi a mais di importazione, ogm o meno.

Aspetta, mi fai capire meglio questo punto? Tu coltivi mais, bene, quali sono le operazioni colturali che devi fare, quelle che sei costretta a fare e quali potresti evitare con le biotecnologie?

Per prima cosa per garantire che al consumatore giunga un prodotto sicuro dobbiamo difendere il mais con insetticidi. Per esempio: la piralide, un lepidottero minatore, scava gallerie nella pannocchia aprendo così la strada a vari funghi. I funghi producono tossine (che possono causare vari e seri problemi) e quest’ultime passano intatte nei 4 stomaci dei bovini e finiscano nel latte. Ora, con il mais ogm (bt) alcune pratiche agronomiche rimangono uguali – per esempio devo comunque diserbare – ma perlomeno risparmio il/i trattamento/i insetticida anti piralide. Che non è poco almeno sia in termini di costi per l’agricoltore. Un trattamento anti piralide costa circa 60 euro all’ettaro. Parliamo di una superficie di circa 700.000 ettari che viene trattata con più di 80.000 litri di insetticida, per un giro d’affari per le multinazionali della chimica di circa 40 milioni di Euro. Ma c’è anche un vantaggio anche in termini ambientali. Secondo voi dove c’è maggiore biodiversità: in un campo di mais tradizionale appena trattato con l’insetticida o in uno di mais bt che ricordiamo si protegge da solo contro la piralide? Nel primo ho ucciso tutti gli insetti. Il secondo è un brulicare di vita, manca solo l’insetto dannoso per la coltura».

Oltre alla suddette difficoltà vedi altri problemi nell’agricoltura reale?

Sì, l’agricoltura italiana ha un grosso problema di comunicazione con il pubblico, che si è fatto un’idea distorta di cosa essa sia. Abbiamo l’agricoltura più sicura al mondo e contemporaneamente i consumatori più spaventati al mondo: c’è qualcosa che non va.

Perché vince l’agricoltura non reale?

Credo che sia anche colpa di noi agricoltori: siamo rimasti chiusi nelle nostre aziende a lavorare, occupandoci di garantire un prodotto ottimo, seguendo le tante norme di sicurezza ambientale e tutela del consumatore che ci sono state date. Anche i prodotti chimici a disposizione per proteggere le colture da insetti, piante infestanti e malattie fungine sono sempre di meno: i processi di autorizzazione e di revisione che si è data l’UE sono severissimi. Ecco perché dico che abbiamo l’agricoltura e il cibo più sicuri al mondo. E tuttavia abbiamo lasciato che la comunicazione venisse fatta da qualcun altro. Così i programmi televisivi si sono riempiti di immagini bucoliche e accattivanti, che raccontavano un’agricoltura che non esiste più da tanto tempo. L’agricoltura e il cibo sono argomenti che attirano, si sposano perfettamente a un dilagante salutismo malato, a una strana voglia di trovare complotti ovunque. Pertanto nell’orgia comunicativa ci si sono tuffati in molti, in cerca di visibilità. Ma se vuoi visibilità, se vuoi fidelizzare l’ascoltatore, il cliente, l’associato, devi spaventarlo. Non mi sta affatto bene che si arrivi a demonizzare i prodotti altrui per poter vendere i propri. È molto facile distruggere l’immagine di un settore, ma anche irresponsabile. E il danno fatto è evidente: quando ci siamo accorti dello scollamento tra immaginario collettivo e realtà aziendale era tardi.

Allora cos’è l’agricoltura reale?

L’agricoltura è tecnologia, è meccanizzazione, è chimica responsabile, è professionalità. Io credo che si debba ricominciare da capo: coinvolgere la società nelle problematiche che l’agricoltura deve risolvere e responsabilizzarla nei processi decisionali. Altrimenti si finisce con l’impedire all’agricoltura italiana di produrre e ci si affida totalmente all’importazione. È una scelta lecita, ma io chiedo: sicuri di voler delegare all’estero una grossa fetta del nostro approvvigionamento alimentare? A me sembra rischioso.

E l’agricoltura sostenibile? Per la quale tu ti batti?

Ogni processo produttivo deve essere sostenibile da tre punti di vista: quello ambientale, quello sociale e quello economico. È così anche per l’agricoltura. Deve essere sostenibile per l’ambiente; deve esserlo per la società, che deve conoscere i nostri metodi produttivi ed essere messa in grado di condividerli con gli agricoltori; deve esserlo economicamente, altrimenti l’impresa crolla e con essa i posti di lavoro e la produzione di alimenti e mangimi italiani. Non può mancare nessuno di questi tre requisiti.

Tu come pensi di muoverti per promuoverla?

L’agricoltura sostenibile si ottiene con l’innovazione, la comunicazione, la condivisione. Ci troviamo in una situazione in cui la popolazione mondiale sta crescendo a gran ritmo: dobbiamo produrre di più senza aumentare la pressione sull’ambiente. Per farlo ci serve ogni strumento disponibile nella “cassetta degli attrezzi” che l’innovazione ci mette a disposizione: dalla meccanica, alla chimica, alla biologia molecolare. È proprio da quest’ultima che vengono le innovazioni più importanti: le biotecnologie applicate al miglioramento genetico ci possono dare piante che tollerino la carenza idrica, la salinità, le sommersioni. In questo modo potremo ottenere di più anche dai terreni marginali, poco fertili. Il cambiamento climatico è un fatto e noi dobbiamo lavorare per prepararci ad affrontarlo. Oppure dalle biotecnologie possiamo ricavare piante resistenti ai patogeni fungini, per esempio, così non dovremo più trattare con fungicidi per difendere il raccolto. Ci sono già degli interessanti studi su cereali. Insomma, se lasciamo che agricoltori e ricercatori lavorino insieme possiamo ridurre la chimica in agricoltura, l’utilizzo di acqua, il consumo di suolo.

Tu ha partecipato a un Ted, quindi il video c’è già.

 

Intervista di Antonio Pascale blog, novembre 2017 su Post

 

LA VERSIONE DI ANDREA

LA VERSIONE DI ANDREA

 

Andrea Mercenaro

Quattro notizie, tre delle quali stranote. Prima notizia. Il Consiglio di Stato ha bocciato il programma del Politecnico di Milano sull’istituzione di corsi di laurea in inglese, con la convinta approvazione dell’Accademia della Crusca.

Seconda notizia. Il Consiglio di Stato, dopo 16 decisioni del TAR e 6 dello stesso Consiglio di Stato, a volte in un senso a volte nell’altro, ha infine deciso che i direttori dei musei italiani non possano essere stranieri. Solo italiani. Pare, però, proprio ieri, che abbia stabilito di ridecidere un’altra volta. Prossimamete. Non ha detto quando.

Andrea Mercenato secondo Vincino

Terza notizia. La terza notizia non c’è. Però c’è. Cioè: Amazon ancora non ha deciso nulla su eventuali braccialetti per il personale, al momento solo in fase di brevetto e la cui funzione, forse positiva, poi chi lo sa, magari no, ancora non è chiara. Eppure il dibattito, che verte sul nulla, già ferve accanito. Solo in un senso.

Quarta notizia, questa inedita. La stessa Amazzon sta attrezzandosi in maniera specifica, sul mercato italiano, a fronte di una tumultuosa domanda per anelli da naso e sveglie da collo.

Dalla rubrica Andrea’s version Il Foglio.it 3 febbr. 2018

IL SILENZIO DELLE SIRENE

IL SILENZIO DELLE SIRENE

PIU’ CHE IL CANTO POTE’ IL SILENZIO-STREPITOSA INTERPRETAZIONE DI KAFKA DEL MITO OMERICO: L’EROE DI ITACA SAPEVA CHE LE SIRENE TACEVANO, MA CON ASTUZIA APPRONTO’ LO STRATAGEMMA CHE GLI FECE DIMENTICARE QUALUNQUE CANTO. E SE ULISSE FOSSE STATO SORDO? 

Rovesciando il poema omerico Kafka immagina un Ulisse senza coraggio, non solo legato all’albero maestro, ma al pari dei compagni con le orecchie sigillate. Immagina al posto di un canto ammaliante  e mortale un silenzio altrettanto inquietante. Nella reinterpretazione del mito le Sirene hanno una nuova arma: il silenzio, una finzione di morte e di debolezza. Si tratta di mancanza di eroismo, devozione verso gli dei o totale ignoranza? Kafka non dà una risposta precisa, e resta il dubbio se il silenzio delle Sirene sia un preludio all’annullamento della morte o sia Ulisse a non volerle più ascoltare, rivelando la distanza dell’uomo nei confronti del divino.

“Una dimostrazione che anche risorse insufficienti e persino puerili possono servire come mezzi di salvezza: per salvarsi dalle sirene, Ulisse si tappò le orecchie con della cera e si fece incatenare all’albero maestro. Qualcosa di simile, certo, avrebbero potuto fare da sempre tutti i viaggiatori, tranne quelli che già da lontano erano sedotti dalle sirene; ma si sapeva in tutto il mondo che era impossibile che questi rimedi funzionassero.

Il canto delle sirene penetrava tutto, e la passione dei sedotti avrebbe spezzato impedimenti ben più forti di catene e alberi. Ulisse, anche se forse lo sapeva, non ci pensò. Confidò pienamente nel suo pugno di cera, nel suo mazzo di catene, e con gioia innocente, contentissimo delle sue piccole astuzie, navigò incontro alle sirene.

 

Nel frammento che risale al III sec. a.c. alcuni versi del XIV libro dell’Odissea di recente ritrovati

Ma accade che le sirene dispongano di un’arma più terribile ancora del loro canto. Si tratta del silenzio. Forse era immaginabile- anche se, certamente, neppure questo era accaduto- che qualcuno scappasse al loro canto; ma senza alcun dubbio nessuno poteva salvarsi dal loro silenzio. Non v’è nulla di terreno che possa resistere alla sensazione di averle vinte con le proprie forze, e alla conseguente infatuazione che tutto travolge.

In effetti, all’approssimarsi di Ulisse, le formidabili cantatrici non cantarono, sia perché ritennero che un simile avversario potevaa essere affrontato solo col silenzio, sia perché quella visione di beatitudine sul volto di Ulisse, che pensava solo a cera e a catene, fece loro dimenticare qualunque canto.

Ma Ulisse, per così dire, non udì il loro silenzio; credeva che cantassero, e che egli solo fosse libero d’ascoltarle. Vide prima, fugacemente, gli occhi colmi di lacrime, la bocca semiaperta, e credette che tutto questo facesse parte delle arie che, senza essere ascoltate, risuonavano e si perdevano attorno a lui.

Gustav Klimt: Ulisse e il canto delle sirene

Ma presto tutte le cose rimbalzarono sul suo sguardo astratto; era come se le sirene scomparissero di fronte alla sua decisione, e proprio quando fu più vicino a loro, non seppe più nulla della loro presenza. Ed esse- più belle che mai-si stiravano e si contorcevano, protendevano gli artigli aperti sulla roccia, e le orrende capigliature ondeggiavano libere al vento. Ora non pretendevano più di sedurre: desideravano solo cogliere, finché fosse possibile, il riflesso dei due grandi occhi di Ulisse.

Se le sirene avessero una coscienza, sarebbero state distrutte in quell’occasione. Ma così sopravvissero, e solo Ulisse sfuggi loro. Del resto la tradizione riferisce anche un episodio al riguardo. Ulisse, così narrano, fu tanto volpe, tanto ricco di astuzia, che neppure la dea del destino riuscì a penetrare nell’intimo della sua coscienza. Forse-anche se questo la ragione umana non può concepirlo-avvertì in realtà che le sirene tacevano, e solo a mo’ di scudo, per così dire, oppose ad esse e agli dei quella commedia.”

Il brano di Fraz Kafka è tratto da Racconti brevi e straordinari di Jose Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, edizione Franco Maria Ricci, 1973.  

 

 

 

   

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