LULA MERAVIGLIAO

LULA MERAVIGLIAO

 

ILPAESE DEI CORROTTI: LULA DA SILVA, LOTTA DI CLASSE O DECLINO DI UN MARIUOLO ? COSA  PUO’ INSEGNARCI LA VICENDA DELL’ARRESTO DELL’OPERAIO EX PRESIDENTE, AMATO DA META’ PAESE, DETESTATO DALL’ALTRA ? COSI’ LA PENSA GEPPETTO

 

Lula con Dilma Roussef, anch’ella ex capo dello stato

La notizia, Repubblica.it la dà dopo la morte per otite di una bambina a Brescia e quella di un giovane a Ladispoli travolto da un treno. Meglio fa il Corriere.it con un articolo di Rocco Cotroneo (qui), una bella pagina di folclore e una sintesi efficace delle ultime ore libere di Lula Da Silva, ma poca voglia di approfondire…. terre lontane, quelle dove si balla il carioca. Per trovare una analisi seria di quanto sta succedendo in Brasile bisogna andare a Linkiesta.it, più precisamente al blog di Diego Corrado, col pezzo dal titolo Avenida Brasil, che vi consiglio di leggere (qui).

Che il Brasile, in quanto a corruzione, mazzette e malaffare, non scherzi, è noto. Un Paese difficile da governare, grande e disperso come un continente, con una capitale, Brasilia, che è più che isolata, è un’estranea, posta com’è su un altipiano interno, che dista mille km e più da San Paolo o Rio de Janeiro o Salvador. 

Il divario sociale fra la popolazione, largamente povera e analfabeta e la classe dirigente, una ristretta élite conservatrice, è tale che ogni mediazione diviene impossibile, o percepita come tradimento.

Il braccio di ferro fra Lula, il suo partito del lavoratori e le masse più sindacalizzate, da una parte, e la reazione conservatrice dall’altra, sembrano rientrare appieno nei manuali della lotta di classe di stampo novecentesco.

Non entro nel merito dell’articolo di Corrado; certo, se anche la metà di quanto scritto corrisponde alla verità, forse faremo bene a trarne una lezione, anche qui in Italia. Sergio Moro, il giudice brasiliano alla testa di “mani pulite” di quel paese, è uno sfegatato fans di Antonio di Pietro e di Piercamillo Davigo. Sul profilo e le maniere di amministrare la giustizia da parte di Moro potete documentavi con questo articolo del Foglio (qui).

Lula con Fidel Castro

Ma qual’è la lezione che potremmo trarne?

Anche da noi, all’inizio degli anni novanta, abbiamo avuto imputati eccellenti alla sbarra, che immancabilmente si proclamavano innocenti e denunciavano la deriva giustizialista di Mani Pulite. Ma la similitudine mi pare si fermi qui, e cerco di spiegare perchè.

In Brasile si combatte una sanguinosa lotta di classe, una contrapposizione vera di interessi, spesso sporchi, una guerra non ideologica, ma per il potere e il denaro. Lula Da Silva, Dilma Rousseff, il sindacato rosso, il giudice Sergio Moro (lo Scarpia di turno), sono in fondo dei personaggi di un dramma ben più ampio e antico:fra chi ha troppo e chi niente.

Viceversa, in Italia, Tangentopoli non potè nemmeno essere la messinscena grottesca della lotta di classe. Il PCI si era camuffato cambiando nome, gli operai imborghesiti. Più semplicemente Mani Pulite fu l’epilogo di un sistema istituzionale che, esaurita ogni spinta propulsiva, finiva travolto dai suoi stessi errori, prima ancora che dalle sue nefandezze. Una sorta di giuoco grottesco fra guardie e ladri, in cui l’unica idea fu quella di salvare il culo.

Lula con Barak Obama

Un scontro sociale vero, come in Brasile, viceversa, dove gli interessi sono polarizzati e contrapposti in maniera insanabile, evita di assumere forme grottesce e deformate, anche quando gli attori in campo si travestono coi  panni più congeniali del populismo terzomondista o usano le armi del giustizialismo. Al netto di ogni trivialità, di ogni retorica populista, Lulu e il suo rapporto con almeno la metà del Brasile è innegabile, intrigante, suggestivo.

La foto che illustra l’articolo di Corrado- scatto di Francisco Proner- che ritrae Lula circondato dai suoi sostenitori nella sede del Sindicato dos Metalurgicos di S. Bernardo do Campo-, è straordinaria perchè riassume e dà corpo a un’idea: lo scontro fra il bene e il male. Da una parte lui, che ha dato ai poveri la possibilità di mangiare carne e di iscrivere i figli  a scuola; dall’altra Sergio Moro, il magistrato simbolo del potere perverso delle classi dominanti. Lula, da vero demiurgo, ne sembra consapevole. Non è spinto solo dalla ricerca di un bagno di folla, come un Salvini o Berlusconi qualsiasi, ma dall’idea di incarnare egli stesso ogni possibile riscatto, al punto da affermare: “le idee non muoiono e io sono l’idea”.

Come sempre quando si parla di violenza, non ci resta che aspettare gli esiti dello scontro: la violenza vincente, come ci insegna Emanuele Severino, si tramuterà allora in irreprensibile legalità, la verità processuale in verità storica.

 

 

MUGHINI, C’EST LA VIE..

MUGHINI, C’EST LA VIE..

PARADOSSALE, IPERBOLICO, ESAGERATO GIAMPIERO– IL SIMPATICO AUTORE DI MILLE LIBRI, LETTORE ONNIVORO, IRRIVERENTE ICONOCLASTA, DICE LA SUA SU POLITICA E CULTURA, CON SINCERITA’ E CIVETTERIA. 

 

GIAMPIERO MUGHINI

Giampiero Mughini, giornalista e scrittore

Mughini, cosa ci faceva a Parigi nel Maggio ’68?

«Avevo vinto una borsa di studio per specializzarmi in francese, lingua da me venerata. Facevo il lettore di italiano al liceo Hoche di Versailles: per me che venivo dalla provincia, era come passare dal Viterbo al Real Madrid».

Era nell’ aria la grande rivolta?

«Non sarebbe venuto in mente a nessuno che stava per scatenarsi un tale pandemonio. “La Francia si annoia” titolò un giornale. Altrove il casino era già cominciato; anche se le cose italiane facevano ridere al confronto».

Perché?

«Ricordo una foto della mitica battaglia di Valle Giulia: un poliziotto panciuto non riusciva ad afferrare un giovane Giuliano Ferrara, che pesava già almeno 120 chili. Noi a Parigi avevamo di fronte i reduci della guerra d’ Algeria».

Truppe addestrate alla guerra coloniale.

«Addestrate talmente bene che non hanno ammazzato nessuno».

UN GIOVANE GIAMPIERO MUGHINI CON UNA BELLA BIONDA

Un govanissimo Mughini, ai tempi parigini

Lei partecipò alla prima notte di battaglia.

«E ho tirato i pavé contro i poliziotti; ma non dall’ alto delle case, come altri».

Nel libro racconta di essersi nascosto al sesto piano, mentre dal quinto salivano i colpi dei flic e le urla degli studenti.

libro di giampiero mughini«I poliziotti avevano avuto 271 feriti gravi in una sola notte. Avevano visto i compagni con il cranio sfondato: cento di loro non tornarono mai in servizio, uno morì. È un miracolo che si siano limitati alle manganellate».

Fu una guerra?

«No; uno psicodramma. Fosse stata una vera guerra, loro avrebbero spazzato via tutte le barricate del Quartiere Latino in dieci minuti. Ma noi non eravamo insorti algerini; eravamo la più fortunata generazione del dopoguerra, quella che stava godendo della ripresa economica. Per una volta non eravamo al cinema o a teatro; il film, la rappresentazione teatrale eravamo noi. Uomini e donne pari erano».

Lei racconta la vera storia della Marianne fotografata con la bandiera nordvietnamita.

giampiero mughini fulvio abbate

Mughini con Fulvio Abbate

«Era una modella di famiglia aristocratica. Stanca di marciare, salì sulle spalle di un compagno. Quando vide un reporter, fece il suo mestiere: si mise in posa. Il nonno la riconobbe e la diseredò».

Anche sua nonna materna era un’ aristocratica.

«Sì, ma decaduta. Conosco la situazione degli ultimi, perché da lì vengo. I miei genitori erano separati. L’unico lusso del nonno era un fiasco di vino la domenica. A casa non c’era nulla, né libri né quadri; avevamo una radio, si guastò, non avevamo i soldi per farla aggiustare. Andavo dagli amici a vedere in tv i Mondiali del 1958 e Mike Bongiorno. Non avevamo di che comprare un frigorifero, uno zio ci portava il ghiaccio. Avevo un unico paio di scarpe, per giocare a pallone e per passeggiare. Non sapevo cosa fossero le vacanze».

giampiero mughini (2)Quando comincia la politica?

«Ricordo il luglio 1960: uccisero un operaio edile vicino a casa, Salvatore Novembre. Tenni un comizio per il 25 aprile, in cui devo aver detto delle fesserie da vergognarmi. Ebbi un applauso come mai in vita mia».

Suo padre era fascista.

«Sì, a Catania era il numero 2 dopo il podestà. Ma non aveva nulla della retorica del regime, non diceva una parola più del necessario. Teneva una bellissima foto di Mussolini giovane dietro la scrivania. Combatté in Albania, poi raggiunse la famiglia a Firenze. Quando i partigiani entrarono in città si nascose. Tornammo a Catania, il viaggio in autobus durò un mese».

GIAMPIERO MUGHINI E I SUOI LIBRIE la politica di oggi?

«Non mi appassiona».

I 5 Stelle?

«Li considero il nulla, sotto forma di declamazione populistica. In Sicilia il reddito di cittadinanza c’è già: i forestali, le pensioni di invalidità, l’ Assemblea regionale».

mughini con bibiLei è siciliano.

«Non mi sento siciliano; mi sento italiano. Lo accetto perché erano siciliani Verga, Pirandello, Sciascia. Inutile fingere che esista l’Italia unica del sogno risorgimentale. C’è l’Italia del talento, della creatività, dei conti a posto; e poi c’ è il Comune di Roma».

Salvini?

«Non ci meritavamo un risultato elettorale che premiasse un personaggio di questa fatta. È triste stilisticamente e antropologicamente che sia lui a rappresentare la Lombardia, il cuore produttivo del Paese».

Berlusconi?

«Mi sta immensamente simpatico. È uno che ha creato un impero. Sono anni che lavoro a Mediaset e con la Rai non c’è confronto: vedi ragazzi assunti non dai partiti, ma perché hanno voglia di lavorare».

SALVINI - DI MAIO - BERLUSCONI - RENZIÈ andata così male il 4 marzo?

«Abbiamo vissuto due catastrofi nello stesso tempo: la sconfitta di Berlusconi e quella di Renzi. Io speravo al contrario che avrebbero governato insieme: centrosinistra, l’unica formula che in Italia abbia mai funzionato».

Renzi è finito?

«Niente affatto. La storia della politica è piena di resurrezioni: de Gaulle, Churchill, Fanfani».

Sono accostamenti molto generosi.

«Perché, il Pd chi ha? Martina? Franceschini? Renzi non è finito, anche se è difficile immaginare una sequela di passi falsi come quella in cui è incappato».

Lei perché ha diretto il giornale di Lotta continua?

«Per un motivo liberale. Lo avevano fatto Pannella, Pasolini, Piergiorgio Bellocchio. Venne Sofri a casa mia, mi chiese di fare il direttore responsabile. Pensavo che quel giornale dovesse uscire. Di più, pensavo che quelli di Lotta continua fossero i migliori della nostra generazione. Mi sono costati 28 processi e tre condanne» .

Lo pensa ancora?

«Sofri per caratura personale e intellettuale lo è senza alcun dubbio. Vuol mettere con quel che scrivono Gad Lerner o Mario Capanna?».

Sofri è condannato come mandante dell’ omicidio Calabresi.

«Non ne sono convinto. La mia personale idea è che il delitto sia stato organizzato dai servizi d’ ordine di Milano e Massa; Sofri allora stava a Napoli. Sapeva quel che stavano combinando, ma non credo sia il mandante. La prova non c’è. E comunque quando ha ricevuto l’ ordine di carcerazione si è presentato la mattina presto e si è fatto sei anni. Non ha mai voluto dire che lo sparatore fosse Bompressi, anzi ha detto che quelli che uccisero Calabresi sono i migliori della nostra generazione».

LUIGI CALABRESI

Il commissario Luigi Calabresi

Frase che lei non condivide, vero?

«Certo che no. È una frase però che lui ha pagato. Come non mi è piaciuto il libro patetico di Sofri su Pinelli: ci ha messo trent’ anni a realizzare che Calabresi non era in stanza quando l’ anarchico cadde».

Come sono andate le cose secondo lei?

«Come stabilì D’ Ambrosio, che in quattro anni di indagini non trovò nulla contro Calabresi; a cui 800 intellettuali avevano dato del torturatore. Una vergogna nazionale».

Non stima gli intellettuali italiani?

«Quando parlano di politica sono dei pagliacci, tranne rarissimi casi; tra cui purtroppo non c’è Pasolini. “Io so tutti i nomi ma non ho le prove”: sciocchezze micidiali. Ricordo un documentario in cui si confrontavano Guareschi e Pasolini: Guareschi lo dominava, se lo mangiava a colazione. Ucciso per il libro Petrolio? Pazzesco».

Com’ è morto Pasolini, secondo lei?

«I ragazzi di vita che lui aveva celebrato gli tesero un agguato. In tre o quattro l’ hanno ridotto in quel modo; e Pelosi non ha mai fatto i nomi».

Però lei stimava Craxi.

«Moltissimo. Nel 1974 lo invitai a presentare il mio primo libro con Cicchitto e due comunisti, Reichlin e Chiaromonte. Loro arrivarono in anticipo, con un pacco così di appunti. Craxi ci raggiunse con tre quarti d’ora di ritardo. Il libro non l’aveva neanche aperto. Disse solo: “Di cosa stiamo parlando, finché è in piedi il Muro di Berlino? Finché i comunisti opprimono mezza Europa?”. Me ne innamorai perdutamente».

luciano moggi giampiero mughiniNon è finito bene.

«Mani Pulite fu un regolamento di conti mafioso. Uccise il Psi, la Dc e gli altri partiti che avevano costruito la democrazia italiana; così vennero fuori l’Msi, la Lega e un partito costruito dagli impiegati di Publitalia. Il crollo culturale è evidente».

Lei fu anche tra i fondatori del Manifesto.

«Sì. Volevano uno diverso da loro, che non fosse un fuoriuscito dal Pci. Dopo tre mesi me ne andai».

Non li stimava?

«Tutt’altro. Erano un gruppo di fuoriclasse, Pintor su tutti; ma facevano un giornaletto a sinistra del partito comunista. Non si poteva sentire Luciana Castellina dire stupidaggini tipo che la scelta di Ingrao di restare nel Pci era segno di decadimento morale. Raccolsi una serie di pareri critici sul Manifesto e li pubblicai. Lucio Magri mi disse che avevo sbagliato. Presi la mia borsa e uscii. Solo la sua morte ha cancellato la mia ira; adesso lo considero un fratello».

Perché?

GIAMPIERO MUGHINI CHEF«Perché anch’io l’ anno scorso ho vissuto la depressione. Quattro mesi in cui la vita non mi parlava più. In cui non riuscivo a leggere un libro: come restare senz’ aria. Lucio Magri è andato in Svizzera una prima volta, ed è tornato indietro. È andato una seconda volta, e di nuovo è ritornato. La terza volta è stata l’ultima».

Le manca non aver avuto figli?

«Non sarei stato all’altezza di fare il padre. E non ho mai pensato di sposarmi. La storia con Michela è una scelta che si rinnova ogni giorno. Sono sensibile a tutto ciò che negli uomini è tenebra, solitudine, dolore. Montanelli mi raccontò di aver vissuto sette depressioni. Momenti in cui il cielo gli appariva nero».

 

Intervista di Aldo Cazzullo per “il Corriere della Sera”

L’opera riprodotta in copertina è un murale di Luigi Armanni

 

 

 

GUN SHOW

GUN SHOW

Nella pancia dell’America per capireTrump. Suprematismo bianco, dove le armi sono un’identità; Old South, dove le statue confederate ancora vegliano sulle piazze-Louisiana, Mississipi, Alabama, dove 18 famiglie su cento lottano ogni giorno per la sussistenza, 48 studenti su cento non sanno dove procurarsi il prossimo pasto- La carità cristiana al posto della rete sociale pubblica.

“Choose me, not guns”, invocano i liceali d’America urlando il loro no alle armi. La National Rifle Association li sbeffeggia, i politici insorgono. E il resto della storia va in scena senza clamore nella pancia profonda del Paese, dove le armi sono nel Dna e i Gun Show un’attrazione come una volta il circo. Vivo in Louisiana da cinque anni e non ne avevo mai visto uno. Domenica ho rimediato.

Ci si va a comprare pistole, fucili, memorabilia nazi, coltelli, tasers. Il biglietto a pagamento scoraggia ragazzini e perditempo, ma la sala del centro convegni trabocca. I tavoli carichi di armi si perdono a vista d’occhio. Il clima è allegro, le foto proibite. Basta la patente e porti a casa un arsenale. È uno di quei momenti in cui sbatti contro una realtà così altra da fare male.

Al banco delle t-shirt l’anima politica esplode sfacciata. “Black Guns matter”, strilla una maglietta facendo il verso al Black Lives Matter del movimento antirazzista. Mi guardo intorno. I neri si contano sulle dita di una mano come del resto le donne. “Il problema non sono le armi”, proclama un’altra t-shirt. “Sono cuori senza Dio, case senza disciplina, scuole senza preghiera, tribunali senza giustizia”. La gente ride e compra.

 

 

Benvenuti nel Deep South, nel cuore di quell’America che si è schierata compatta con Trump. Dritto nel cuore della Bible Belt, dove a ogni svolta c’è una chiesa, il Big Bang è un’opinione e il suprematismo bianco non smette di fare proseliti. Qui le armi sono identità. Si trasmettono di padre in figlio, insieme alla passione per la caccia e alla retorica da maschio alfa.

Sembra un incubo e a tratti lo è. Di sicuro viverci è difficile. Dietro le facciate da cartolina le ombre sono in agguato. Chiassose, cupe, disturbanti. “C’è un sottofondo buio, infestato di spettri, nella vita del Sud e benché pulsi attraverso molte interazioni, ci vuole parecchio per percepirlo e ancora di più per capirlo”, scrive Paul Theroux in Deep South, appassionante resoconto di un viaggio lungo quattro stagioni fuori nelle zone più povere di South Carolina, Alabama, Mississippi e Arkansas. Un Gun Show non spiega tutto ma è un buon punto di partenza

In superficie il Sud è una festa. Il cibo è una delizia – pollo fritto, cornbread, hushpuppies, gumbo, jambalaya. Sapori d’Africa, Francia, Caraibi… Un esotico che sa di famiglia. Soul food. La musica è ovunque – dal blues del Delta al jazz di New Orleans. Ma l’asso pigliatutto è l’illusione del mondo di ieri. Le piantagioni con le dimore padronali ombreggiate dalle querce. Le cittadine decotte dal sole raccolte attorno a Main Street ormai deserte. Le stravaganti mansion costruite sulle fortune del cotone e dello zucchero. Snapshot da Via col vento, moltiplicati per dieci, cento, mille.

 

 

Non è solo marketing per turisti: la nostalgia è nell’aria, nei discorsi della gente, nelle abitudini. Per chi come me arriva da Trieste sa di casa. È una dimensione dell’anima, prima che storica. L’inclinazione a guardare indietro anziché avanti, la chiusura in difesa, l’assenza di speranza. Un’identità sognata. Lì la Mitteleuropa, Maria Teresa d’Austria e il porto dell’impero. Qui il Vecchio Sud, le case adorne di candide colonne, l’ospitalità, gli schiavi leali, le donne fragili e forti. È facile accomodarsi in quest’abbraccio. È romantico. Soprattutto, è comodo.

 

Il mito contiene infatti il suo veleno. Quello dell’Old South è il peccato originale dello schiavismo, la crudeltà della segregazione, la fiamma mai spenta della supremazia bianca. “Il passato non muore mai. Non è nemmeno passato”, scrive William Faulkner in Requiem per una monaca. È una citazione abusata, per illustrare questa parte di mondo, ma conserva un’attualità che non è mai stata così stretta.

Basta chiedere. Razzismo e privilegio bianco restano argomenti tabù, soprattutto se se sei straniero. Basta guardarsi intorno. In Louisiana la percentuale di afroamericani è fra le più alte d’America (32 per cento). L’integrazione è piena, nelle scuole come nei luoghi di lavoro. Eppure si vive separati. Neri con neri, bianchi con bianchi. Nei locali, a teatro, al cinema. È stata la sorpresa più grande.

In Open City lo scrittore Teju Cole descrive la malinconia di trovarsi a un concerto di musica classica, ancora una volta unico afroamericano in una platea bianca. “Ci sono abituato ormai, ma mi sorprende sempre quanto è facile lasciare il meticciato della città per entrare in spazi di soli bianchi, la cui omogeneità, a quanto sembra, non causa alcun disagio ai bianchi stessi”. “Ricevo delle occhiate che mi fanno sentire come Ota Benga, il pigmeo che era stato messo in mostra nella gabbia della scimmia allo zoo del Bronx nel 1906”. Succede a New York, figuriamoci quaggiù.

 

 

Il riflesso politico è clamoroso. Malgrado le polemiche, le statue confederate ancora vegliano sulle piazze e le bandiere con la croce blu continuano a sventolare. A Shreveport, Louisiana, isola democratica in uno stato repubblicano, tiene banco da più di un anno la controversia per rimuovere dal giardino del tribunale un monumento che combina i busti di quattro generali sudisti. Il caso ha messo a nudo tutti i nervi. La municipalità ha votato per rimuoverla, in linea con la comunità afroamericana per cui la statua incarna la memoria dello schiavismo.

 

Le United Daughters of the Confederacy – così devote alla causa perduta del Sud da essere tacciate di suprematismo bianco – si sono opposte. A dare loro man forte, sono arrivati i membri del Gulf Coast Patriot Network. Pick up coperti di fango, berretti da baseball e bandieroni confederati al vento, il classico pubblico da Gun Show. Il caso ha fatto così scalpore da finire in video sul New York Times.

È un circuito fra passato e presente che sfoga la rabbia di un’America rimasta indietro. Negli stati del Sud i poveri sono il venti per cento (nel resto del paese è il 16) e il gap tra chi ha e chi non ha si allarga a vista d’occhio. I sobborghi middle class vengono su come funghi, sull’autostrada sfrecciano Porsche Cayenne e il fantasma della povertà danza il suo valzer sgangherato nella pubblica via. Volteggia fra case di legno che stanno insieme con lo sputo, cortili che straripano di masserizie e trailer park pronti a inabissarsi alle prime piogge di primavera. Se guardi meglio, vedi il volto disperato della fame.

 

 

Gli stati più affamati d’America sono tutti nel Deep South: Louisiana, Mississipi, Alabama. Diciotto famiglie su cento lottano ogni giorno per la sussistenza, 48 studenti su cento non sanno dove procurarsi il prossimo pasto. I food stamps valgono poco più di un dollaro e mezzo a pasto, frutta e verdura sono un lusso che pochi possono permettersi. Ogni Natale la radio locale lancia una campagna perché i bambini ricevano tre zainetti di cibo per le vacanze. I supermercati rigurgitano di roba, le code ai fast food sono chilometriche, ma un bambino su quattro se non mangia a scuola patisce la fame.

Il bisogno, che falcidia la comunità afroamericana e quella ispanica, non risparmia i bianchi: la working class impoverita e quelli che al Sud marchiano come white trash, i figli bianchi di una certa realtà rurale e provinciale considerati pigri, poco produttivi, inetti ad arrampicarsi sulla scala sociale.

Nancy Isenberg, storica dell’Università della Louisiana li ha descritti in modo magistrale in White Trash: The 400-Year Untold History of Class in America (2015), che fin dal titolo ha fatto molto discutere. Trump li ha conquistati rinfocolandone le ansie – l’insofferenza verso gli afroamericani che rivendicano i propri diritti, gli immigrati, Obamacare, l’ingerenza dello stato, il mondo che cambia.

Intanto la rete sociale si sfonda come la sfiori. Davanti all’unico ospedale pubblico le panchine si affollano ogni mattina di un’umanità così fragile e dolente che si stringe il cuore. Ma l’equità sociale è un discorso che stona. Trionfano la beneficenza, il volontariato, le donazioni: la carità cristiana. Non per caso siamo nella Bible Belt, dove il cuore della comunità sono le chiese. In Louisiana ce n’è una ogni 42 abitanti, un record. Organizzano cene, concerti, gruppi di studio, attività per bambini, corsi d’inglese per immigrati. Le più ricche hanno teatri, scuole, asili.

 

 

Gli enormi parcheggi sono sempre pieni e la religione dilaga sfrontata sulla scena pubblica. Si prega nelle classi, alle cerimonie, al rodeo. L’evoluzionismo è un’opzione, l’aborto una colpa innominabile. Dichiararsi atei è una scelta socialmente rischiosa e God bless you un saluto come gli altri. Vista da qui, la polemica italiana sui crocefissi in classe sembra acqua di rose.

Nelle chiese s’incanala una pulsione di socialità che non ha altri sfoghi. Non piazze, bar, mercati, librerie. Fuori dei rari centri urbani, le strade corrono per miglia in un blob di fast food, shopping center e banche. L’imperativo è consumare, tutto il resto è commento. Il clima dal canto suo non aiuta. L’estate è lunga e crudele, l’aria condizionata una necessità. Ma ciò che ha salvato tante vite, ha spezzato i legami e le pratiche di buon vicinato. Ci si chiude in casa, si sta dietro uno schermo.

 

 

Vivere nella pancia dell’America è complicato, spiazzante, appassionante. È una fatica che stinge le giornate e al tempo stesso le accende di un’interrogazione costante. Il viaggiatore, scrive V.S. Naipaul in A Turn to South è “un uomo che definisce se stesso contro uno sfondo straniero”. Quando lo sfondo s’immobilizza nella routine, il gioco di rimandi diventa frenetico. È facile scivolare nel confronto costante fra noi e loro, ancora più facile chiudersi nella presunzione di una superiorità. Ma, come domanda un personaggio di Open City, “perché trasferirsi in un posto solo per dimostrare quanto si è diversi? E perché una società del genere dovrebbe darti il benvenuto?”.

Esco dal Gun Show con uno strano senso di pace. Detesto le armi e non ho cambiato idea, ma a guardarli bene questi spettri somigliano ai miei. Il razzismo, l’ineguaglianza, il suprematismo bianco, la xenofobia. Ho attraversato l’oceano ma alla fine, in qualche modo, mi sento a casa.

 

Articolo di Daniela Gross per doppiozero ( qui)

 

 

ZUCK, IL MONOPOLISTA

ZUCK, IL MONOPOLISTA

 

ESCE IL NUOVO LIBRO DI FERGUSON, STORICO,SAGGISTA, PROFESSORE DI STORIA MODERNA  FRA OXFORD E STANFORD UNIVERSITY- IL SUO METODO? COSA SAREBBE SUCCESSO SE ANZICHE’……- SEMPRE POLEMICO E PROVOCATORIO: “IL W.W.W. HA FATTO SALTARE OGNI GERARCHIA, OGGI PREDOMINANO LE RETI, ECCO PERCHE’ I MONOPOLI DIGITALI DEVONO ESSERE NORMATI E CONTROLLATI, ANCHE SE PUO’ ESSERE PERICOLOSO”  

 

MARK ZUCKERBERG ANGELA MERKEL

MARK ZUCKERBERG ANGELA MERKEL

«Chi può essere il Napoleone dei tempi moderni in quest’ epoca di poteri deboli che, con la diffusione del digitale, vede di nuovo prevalere l’ influenza delle reti rispetto alle gerarchie del potere temporale?». Se lo chiede Niall Ferguson in una conversazione con «la Lettura», mentre sta per uscire in Italia La piazza e la torre (Mondadori), il suo nuovo libro.

E la risposta dello storico britannico, che oggi si divide tra Oxford e la Stanford University in California, è abbastanza sorprendente: «Certo non Donald Trump: molti ne temono le tendenze imperiali, ma l’ argine della Costituzione riuscirà a respingere i suoi tentativi episodici e velleitari di iniettare autoritarismo nel sistema. Ha più possibilità Xi Jinping, capo della Cina, la potenza oggi più dinamica.

Ma ci vuole il caos rivoluzionario per emergere come un Napoleone, mentre Xi ha ereditato il potere dai precedenti leader del Partito comunista. Il vero Napoleone è Mark Zuckerberg: non so come se la caverà con i grossi problemi di responsabilità sociale che affliggono Facebook, ma è passato in breve dalla totale oscurità a essere uno dei leader più influenti della Terra. Domina le reti sociali più potenti che l’ umanità abbia mai conosciuto».

Da Colossus a Il grande declino , a Kissinger l’ idealista , i saggi di Ferguson sono cavalcate affascinanti, stimolanti, spesso provocatorie. Magari anche ardite, ma sempre capaci di far riflettere. Stavolta l’ accademico conservatore (feroce critico di Barack Obama, è stato consigliere del repubblicano John McCain alle presidenziali del 2008 e ha sostenuto Mitt Romney nel 2012) si spinge fino a una rilettura della storia degli ultimi 600 anni, reinterpretata (anche usando le scienze sociali) come un’ alternanza tra ere dominate dalle gerarchie del potere temporale e periodi nei quali prevale la forza delle reti sociali. Reti che, spiega Ferguson da Stanford, «sono le strutture naturali che gli esseri umani hanno sempre creato, ben prima di internet».

mark zuckerberg e priscilla chan

MARK ZUCKERBERG E PRISCILLA CHAN

Nel suo racconto, che comincia nella Mesopotamia del 2000 a.C., esamina diverse reti: dalla società segreta bavarese degli Illuminati all’ Isis, dalle organizzazioni massoniche agli accademici marxisti di Cambridge che si misero al servizio dell’ Urss. Ma i momenti-chiave, quelli nei quali le gerarchie cedono il passo al diffondersi del potere delle reti, sono due. E sono legati alla comunicazione: Johannes Gutenberg con l’ invenzione della stampa intorno alla metà del Quattrocento e l’ emergere della civiltà di internet. Perché?

«Internet ha avuto sul mondo lo stesso effetto che l’ invenzione della stampa ebbe sull’ Europa nel XV secolo. Gutenberg e la Silicon Valley hanno aperto la strada a rivoluzioni delle reti che prima erano impossibili. La prima ha avuto conseguenze durature, che si sono dispiegate per diversi secoli: la Riforma luterana, la rivoluzione scientifica, l’ Illuminismo, la rivoluzione americana e quella francese vengono dalla stessa matrice, reti basate su idee trasmesse con parole stampate».

Che cosa pose fine alla prima era delle reti, all’ inizio del XIX secolo?

niall ferguson diventa probrexit

NIALL FERGUSON

«Con la fine del Settecento assistiamo alla consunzione delle energie rivoluzionarie. Dopo l’ esperienza giacobina parte una reazione che dalla Francia napoleonica si trasmette alle regioni europee circostanti. È il momento della storia nel quale il pendolo comincia a muoversi nella direzione opposta: rinascono i poteri centrali, le gerarchie temporali tornano a prendere il sopravvento. Con la Francia sprofondata nella violenza e nell’ anarchia, Napoleone si presenta come l’ unico in grado di rimettere ordine. E quando, nell’ Ottocento, uscirà di scena, avrà ormai aperto la strada ad altre gerarchie, a partire da quelle emerse dal Congresso di Vienna.

Poi arriveranno alcune rivoluzioni tecnologiche, tutte in varia maniera destinate a favorire le gerarchie del potere centralizzato: vale per il telegrafo, la ferrovia, le navi a vapore e, più tardi, per la radio. Tutti sistemi reticolari facilmente controllabili dal centro. Una tendenza alla centralizzazione durata per tutto l’ Ottocento e buona parte del Novecento, comprese le due guerre mondiali. Un ciclo che si è esaurito negli anni Sessanta del secolo scorso».

Con l’ era digitale lei vede risorgere il ruolo guida delle reti dopo quasi due secoli di dominazione delle gerarchie. Come si materializza questa riscossa?

«In molti modi, a cominciare dall’ elezione di Trump che è dovuta, almeno in parte, a un abile uso delle reti: sapiente costruzione dell’ immagine televisiva, bravura e spregiudicatezza nel servirsi di Twitter e Facebook. Per non parlare delle reti russe che si sono insinuate nel meccanismo elettorale della democrazia americana e hanno aiutato Trump».

Il nuovo presidente è arrivato alla Casa Bianca mentre i giganti tecnologici stanno prendendo il sopravvento: può essere Trump, il nostalgico della forza militare e politica della superpotenza americana, che non vuole certo farsi scavalcare dalle aziende digitali, il leader di una controrivoluzione?

«È arrivato al potere in un momento chiave: potrebbe fare la storia, ma, come le dicevo, non credo che Trump abbia la forza e l’ acume per svolgere un simile ruolo. Il suo autoritarismo è velleitario. Il rischio di un rilancio dei sistemi dominati da gerarchie rigide viene da un’ altra parte del mondo: dalla Cina. Qui le grandi piattaforme tecnologiche, società come Alibaba e Tencent, sono ormai diventate agenzie di Stato. Le reti risucchiate dalla gerarchia: con la loro tecnologia il Partito comunista cinese può ottenere un livello di controllo sui cittadini che i regimi totalitari del XX secolo non si sono mai nemmeno sognati di poter avere».

il professor niall fergusonPreferisce la creatività delle reti o la stabilità dei regimi basati su gerarchie rigide?

«Preferisco le reti, motori d’ innovazione. Ma bisogna sapere che un sistema decentrato, con il potere trasferito alle reti, è a rischio anarchia. Credo sia ormai necessario un intervento sui monopoli digitali. È rischioso: può trarne vantaggio Pechino. Mentre infatti negli Stati Uniti i due poteri, governo e Silicon Valley, sono in conflitto, in Cina lavorano insieme. È rischioso ma necessario».

Che fare?

«Troppo potere concentrato nelle mani di poche imprese: gran parte della sfera pubblica è dominata da monopoli digitali come Amazon, Google e Facebook. Queste società gestiscono servizi popolari, ma ciò dà loro un potere eccessivo e la possibilità di abusarne. È pericoloso, anche perché ormai il 45 per cento degli americani riceve le sue informazioni politiche da Facebook.

mark zuckerberg harvard

MARK ZUCKERBERG AD HARVARD

Lo status quo non è più sostenibile: servono regole. Non credo si debbano scindere queste società troppo grosse, ma bisogna impedire che si ripetano altri Russiagate. E occorre ricreare un terreno livellato, eliminando i privilegi concessi a metà degli anni Novanta alle imprese digitali, che continuano a non essere responsabili, a differenza degli editori tradizionali, dei contenuti messi in rete».

Lei ammette, però, che gli Usa rischiano il sorpasso tecnologico della Cina.

«Se fossi nei panni di Zuckerberg, direi che Facebook e le altre società di Big Tech sono un importante patrimonio dell’ America per tenere testa a Badu, Alibaba e Tencent. Ma non è questo l’ argomento usato dalla Silicon Valley: vogliono costruire comunità globali, non avere a che fare con Washington».

Il confine tra reti e gerarchie è labile.

Lei stesso dice che le gerarchie sono reti di altro tipo. Perché fin qui gli storici hanno dedicato scarsa attenzione a questi fenomeni?

«Perché scrivere la storia delle reti è molto difficile: non hanno archivi e molte di esse non vogliono nemmeno farsi conoscere. La mafia non tiene documenti, così come gli Illuminati. Neanche i massoni aiutano gli studiosi. E poi questa è un’ area nella quale gli storici si sentono a disagio, perché attira i teorici delle cospirazioni: meglio restare sul terreno sicuro degli archivi ufficiali. Ma è proprio portando il metodo storico nelle reti che si disinnescano le visioni cospiratorie».

Il titolo del libro richiama un’ immagine di Siena: Piazza del Campo con la Torre del Mangia. Perché?

Siena. Piazza del Campo con la torre del Mangia

«Ho scritto il libro senza avere un titolo. Pensavo a Reti e gerarchie , ma all’ editore non piaceva la parola gerarchia. Poi, guardando le riproduzioni degli affreschi del palazzo pubblico di Siena che da trent’ anni, da quando ero uno studente, ho davanti agli occhi nel mio studio, mi sono reso conto che quella tra la piazza del popolo e la torre del potere gerarchico era la perfetta giustapposizione».

I conflitti nel mondo islamico e il terrorismo mediorientale hanno rappresentato il battesimo del fuoco per la nuova era delle reti digitali. L’ Isis è divenuto un incubo planetario grazie al reclutamento open source dei terroristi. E le tecnologie digitali sono state usate, maldestramente, per tentare di democratizzare il mondo arabo.

«Silicon Valley ha sbagliato la lettura degli eventi in Medio Oriente e in Nord Africa durante e dopo le Primavere arabe. Il presidente di Google Eric Schmidt e il manager Jared Cohen si erano detti certi che internet avrebbe aiutato i movimenti democratici contro i regimi autoritari.

Con la deposizione di Hosni Mubarak le cose sembrarono andare in questa direzione: ricordo dirigenti di Google in piazza Tahrir a festeggiare. Invece la cacciata di Mubarak ha favorito un’ altra rete più diffusa e solida, ma ancora meno democratica: la Fratellanza musulmana. Ci si era basati su ipotesi velleitarie: nella realtà strumenti come Facebook e Twitter erano poco diffusi nelle grandi aree urbane dell’ Egitto e assenti nelle zone rurali».

Alla fine ritorneremo alle rigide gerarchie verticali, dopo tante promesse di democrazia elettronica? È un illuso chi punta sulla blockchain, la tecnologia di certificazione alla base dei bitcoin, per una nuova stagione di decentramento del potere?

la blockchain«È lecito sperare, ma non mi faccio illusioni: le reti informatiche hanno sempre finito per concentrare il potere, la blockchain è dominata da pochi. Così come sono una ristretta élite coloro che beneficiano dei bitcoin. E anche l’ attività di mining , l’ emissione di criptovalute, è roba per pochi, concentrati soprattutto in Cina. Ma prima di rassegnarsi all’ idea di questo grande Paese asiatico che subordina totalmente la piazza alla torre, è il caso di riflettere sull’ esperimento rischioso messo in campo da Pechino: la creazione di una gigantesca borghesia, il più immenso ceto medio della storia.

BitcoinÈ gente che prima o poi chiederà rispetto della legalità, rappresentanza politica, responsabilità amministrativa, come avvenne in Europa nel XIX secolo. Se il popolo uscito dalla povertà si comporterà come previsto da Karl Marx, come una classica borghesia, allora per la Cina sarà più difficile andare avanti col partito unico e imporre la sua gerarch

 

 

Massimo Gaggi per “la Lettura – Corriere della Sera

 

 

GAB

GAB

 

FELPATA INTERVISTA DI ALDO CAZZULLO A UN TESTIMONE DELL’ASCESA E FINE DELLA DINASTIA AGNELLI E DELLA FIAT: GIANLUIGI GABETTI– NATALI PIEMONTESI, LAVORO IN USA, UN SALTO ALL’OLIVETTI, POI UNA VITA  AL LINGOTTO E IN TANTI ALTRI C.D.A.- UNO CHE SA E HA VISTO TUTTO, MA DI CUI AMA POCO PARLARE, E SE LO FA USA TANTA,TANTA DISCREZIONE-

Gianluigi Gabetti, qual è il suo primo ricordo?

Gianluigi Gabetti

«Le passeggiate con i nonni sotto i portici di via Sacchi a Torino, dove sono nato il 29 agosto 1924, vicino alla casa di Bobbio. Incontravamo spesso “uffiziali” di cavalleria, come li chiamava la nonna, che mi raccontava la loro pena per aver dovuto caricare gli operai, durante i disordini del 1920».

Cosa facevano i suoi genitori?

«Mia madre Elena amava giocare a tennis. Aveva imparato al circolo di Bordighera, dove c’era una piccola comunità di ufficiali inglesi venuti a curarsi le ferite della Grande Guerra.

Diventò una delle prime giocatrici italiane di prima categoria. Mio padre Ottavio era capo di gabinetto del prefetto di Torino. Fu trasferito sul Garda, perché D’Annunzio dal Vittoriale aveva chiesto che a reggere la sottoprefettura ci fosse uno di quelli che piacevano a lui. Papà era andato in guerra da volontario».

Gabetti con, in primo piano, Franzo Grande Stevens, avvocato di fiducia della famiglia Agnelli. Un’accoppiata assai affiatata, per decenni vicino agli Agnelli

Come si trovarono suo padre e D’Annunzio?

«Benissimo. D’ Annunzio gli chiedeva dei soldi e faceva la corte a mia madre, che era molto bella e altrettanto riservata. La prendeva sottobraccio e le mostrava la prua della nave Puglia, declamando sciocchezze: “Quando morirò i miei legionari grideranno “La nave Puglia si è fatta pietra!””. D’ Annunzio amava molto fotografarsi, avevamo la casa piena di sue foto».

GIANLUIGI GABETTI ALLA MESSA PER AGNELLI FOTO ANSAChe ricordo ha del fascismo?

«Una bardatura. Un travestimento. Il fascismo ha travestito l’Italia: un Paese agghindato da fascista, che si comportava da fascista. Sentivo i nonni dire: “È tutta una pagliacciata, ma non diciamolo a Ottavio per non metterlo in difficoltà”».

Perché?

«Mio padre doveva indossare la divisa in orbace. Che detestava, sia per il tessuto sia per la foggia. Fu nominato prefetto a Sassari. Andammo tutti e ci piacque molto. Studiavo al liceo Azuni, dove c’era già Enrico Berlinguer e da lì a poco sarebbe arrivato Francesco Cossiga».

Com’era la Sardegna degli anni ’30?

Gabetti con John Elkann

«Meravigliosa. Il fascismo la lambiva appena. Spazi immensi e vuoti. I sardi ci invitavano alla caccia al cinghiale. Sono persone di forti sentimenti. Quando nel 1940 tornammo in Piemonte, a salutarci alla stazione erano a migliaia».

Come ricorda la guerra?

«I bombardamenti distrussero la nostra casa di Torino. Riparammo in campagna, a Magliano Alfieri. Nel castello era di stanza un reggimento. Parlo tedesco, e l’8 settembre il colonnello comandante mi chiamò come interprete. I nazisti chiesero la resa incondizionata. Provai un’umiliazione profonda nel tradurre la risposta. Vidi mille italiani deporre le armi davanti a sei tedeschi: finirono tutti nei lager. La gente saccheggiò il castello: portarono via ogni cosa, anche le brande, incitandosi l’uno con l’ altro. Una scena mortificante. Ma quando con mio fratello Roberto, il futuro architetto, ci nascondevamo in cantina, tutti in paese sapevano, e nessuno tradì».

gianni agnelli paolo fresco

Giovanni Agnelli con Paolo Fresco

Come passavate il tempo?

«A leggere l’Enciclopedia di D’Alembert e Diderot, di cui avevamo trovato una copia settecentesca nella biblioteca del nonno. Ci interessavano soprattutto le implicazioni pratiche. Imparammo a trarre il salgemma dalle acque stagnanti intorno al Tanaro, che scambiavamo contro merce in tabaccheria. Costruimmo un distillatore per fare con le pesche macerate l’alcol etilico, che fornivamo alla farmacia in cambio di medicine per i parenti anziani. Poi mi stancai e andai a fare il partigiano».

Con quale formazione?

«Giustizia e Libertà. Nome di battaglia Attilio, come mio nonno. Molti studenti, qualche operaio, un paio di avanzi di galera. Ci comandava un capitano dell’ esercito, il bravo Bava. Un giorno ci mandò all’assalto: il mio vicino cadde con le braccia larghe, come il miliziano della foto di Capa. Ma non era una pallottola, era un attacco di epilessia».

Agnelli col figlio Edoardo, morto suicida nel 2000

Lei fu fatto prigioniero.

«Lo fui quasi, dai partigiani comunisti: mi salvò un vecchio piemontese che conosceva mio padre. In marcia verso Asti ci trovammo di fronte i panzer tedeschi: alzarono la bandiera bianca. Trattai con loro, da solo, come l’omino di piazza Tienanmen. Mi chiesero se il ponte era minato».

Lo era?

«Se lo fosse stato, non sarei qui. Ci costrinsero ad andare avanti noi. Anche sconfitti, i nazisti non avevano perso la loro arroganza».

La sua carriera comincia alla Banca Commerciale.

«Ricordo un immenso salone. Mi imposi di imparare tutto in ogni ufficio: libretti di risparmio, conti correnti, cassette di sicurezza. Poi ricominciai al primo piano, dove arrivai sostituendo una dattilografa. Ho mangiato tanta merda, che alla fine però diventa nutriente».

Com’ era il capo, Raffaele Mattioli?

«Entrai nella sua stanza buia. Era di schiena: stava mettendo in ordine le pecorelle nel presepio. Si girò, disse: “E tu, che cazzo vuoi?”. Mattioli era sboccatissimo. “Presidente, mi ha fatto venire lei”. “Ah sì. Mi dicono che lei fa un sacco di cose. Ci rivedremo”: mi aveva preso in simpatia».

Poi la chiamò Adriano Olivetti. Come lo ricorda?

«Ero andato da lui quasi di nascosto. Aveva due occhi azzurri da ipnotizzatore. Mi parlò di filosofia, di religione. Poi disse: “Lei deve lavorare qui dentro”. Dopo due settimane mi arrivò una sua lettera».

Cosa c’era scritto?

«Tutto quello che avrei dovuto fare nei dieci anni successivi. Visitare le filiali, studiare lo sviluppo nel Nord America».

Enrico Cuccia, il banchiere, erede di Mattioli, deus ex machina della finanza italiana per decenni

A New York lei conobbe sua moglie, americana.

«Andammo in giro una sera d’autunno con Roberto Olivetti su una Oldsmobile decapottabile. Mi presi la polmonite, lei mi accudì. Per ringraziarla la invitai a cena in un locale alla moda, El Morocco. Ci diedero il tavolo accanto all’ orchestra. “Non ero mai stata in Siberia prima d’ora” mi disse. Non capii; non sapevo che la “Siberia” nel gergo newyorkese era il tavolo peggiore».

Come recuperò?

«Scoprii che il proprietario si chiamava Perona ed era di Ivrea. Lo chiamai. La volta successiva ci trattarono come principi. Ci sposammo. Bettina fu una grande moglie, scomparsa nel 2008».

Infine la chiamò Agnelli.

Umberto e Giovanni Agnelli

«Mi chiese di visitare il MoMa nel giorno di chiusura. Ero nel board e ci riuscii. Ma quando mi propose di tornare in Italia esitai. Fu mia moglie a convincermi. Visentini, allora presidente Olivetti, mi tolse il saluto».

Qual era il suo ruolo?

«Come amministratore delegato dell’ Ifi dovevo investire e diversificare. Non mi sono mai occupato del patrimonio personale dell’Avvocato. Quando la Fiat andò in crisi ci trovammo costretti a vendere quanto occorreva per salvaguardare l’indipendenza dell’ intero Gruppo».

Con Romiti non avete mai avuto un gran rapporto.

«Non dovevamo averlo. Io ero l’esponente della proprietà, lui il responsabile della gestione del nostro più importante investimento. La cosa non gli andava sempre bene, per cui la relazione era talvolta tesa. Ma non abbiamo mai avuto veri attriti. Ci fu sempre stima personale».

Romiti era troppo legato a Cuccia per lei?

Gianni Agnelli con De Benedetti

Giovanni Agnelli con un giovane Carlo De Benedetti

«Certo era più vicino di quanto non fossi io. Era nella natura di Cuccia essere un dominatore, dire quello che gli altri dovevano fare, e io questo non potevo accettarlo anche perché il massimo esponente del Gruppo era l’ Avvocato».

Agnelli aveva soggezione verso Cuccia?

«Non ho mai visto Agnelli in soggezione con nessuno. Così come non l’ho mai visto trattare male nessuno. Per Cuccia aveva rispetto, da lui accettava qualsiasi osservazione».

Com’ era l’Avvocato nella vita privata?

«Un maestro delle sfumature. Si faceva obbedire da tutti, Romiti compreso, senza bisogno di dare ordini. E lavorava molto. Si affaticava. L’ idea dell’ Avvocato scansafatiche è una leggenda».

Com’ erano i rapporti con De Benedetti?

Cesare Romiti

«Buoni ma cauti. Avevano una buona considerazione l’ uno dell’ altro, ma non si fidavano sino in fondo l’ uno dell’ altro».

Lei era contrario a comprare il «Corriere».

«Avevamo già La Stampa. Ma Agnelli era un talent scout di giornalisti».

Quando lo vide per l’ultima volta?

«Mi dà pena riparlarne. Soffriva molto. Mi prese la mano e se la portò qui, tra la guancia e la tempia destra. Poi mi fece un saluto militare. Non quello classico con la mano di taglio sulla fronte; più ampio, tipo segnaletica da marinaio».

Lei è finito sotto processo pur di mantenere il controllo alla famiglia.

«Si trattava di impedire che della Fiat venisse fatto uno spezzatino. Con Grande Stevens si trovò la soluzione legale».

Come è arrivato al vertice Marchionne?

sergio marchionne john elkann

Sergio Marchionne con Elkann

«Quando Umberto stava morendo, venne da me Morchio a dirmi che il successore era lui.

Al funerale spiegava agli eredi di essere pronto a diventare anche azionista».

E loro?

«Ebbero qualche tentazione, ma la respinsero. Allora mi tornò in mente Marchionne, che Umberto aveva portato in consiglio. Non aveva casa a Torino, ci eravamo visti qualche volta a cena con mia moglie. Ai consiglieri dissi: c’è una scelta che vi raccomando, Marchionne, e una che vi raccomando di lasciar cadere. Presero la decisione giusta. Marchionne ha un tratto di genialità».

Com’è il suo rapporto con i nipoti dell’Avvocato?

«Credo francamente di essere stato l’uomo più vicino al loro nonno. Adesso è il momento di John. La famiglia è raccolta attorno a lui».

Chi verrà dopo Marchionne?

«Credo non lo sappia neanche lui. Deciderà insieme con Elkann».

Quanto della Fiat resterà in Italia?

«Non lo so. Ormai dobbiamo pensare in termini europei e globali».

E il futuro del nostro Paese come lo vede?

«Male, se non fosse per il legame con l’ Europa. Più sarà forte e sentito, più ci allontaneremo dal baratro»

Intervista di Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera”

 

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