BALLA FALEGNAME FUTURISTA

BALLA FALEGNAME FUTURISTA

A MILANO UNA MOSTRA SULL’ARTISTA CHE INVENTO’ IL DESIGN ITALIANO – BALLA FU IL PRIMO A DARE AUTONOMIA CULTURALE ALL’OGGETTO RISPETTO ALL’ARCHITETTURA – PER LAURA BIAGIOTTI E’ STATO UNO DEI PADRI DELLA MODA ITALIANA

Per Giacomo Balla (1871-1958) il mondo era teatro. E gli spazi del vivere e dell’ abitare una scenografia da cambiare all’ occorrenza. Una volta, per ospitare l’ amico Filippo Tommaso Marinetti, trasformò completamente casa, quell’ appartamento in via Paisiello a Roma, incunabolo del design italiano, per il quale creò «paraventi, arredi smontabili, armadi letterari e una camera per bambini dove i mobili erano personaggi delle novelle».

A raccontarlo è Andrea Branzi, architetto, designer, grande storico del pensiero progettuale. Che parla dei rapporti tra Futurismo e design, «ancora tutti da interpretare», in occasione dei sessant’ anni dalla scomparsa dell’ eccentrico artista torinese, stella polare della prima avanguardia europea, culla della modernità.

Anniversario celebrato da una retrospettiva della Galleria Bottegantica di via Manzoni a Milano, Giacomo Balla – Ricostruzione futurista dell’ universo (dal 12 ottobre fino al 2 dicembre), che inaugura nel contempo Modern/Lab, un format omaggio alle maggiori personalità artistiche del XX secolo.

In mostra una trentina di opere, compresi dipinti realizzati tra il 1912 e il 1930, ma soprattutto disegni per progetti di arte applicata e singoli complementi di arredo: piatti, tappeti, cuscini. «Il design italiano nasce con Balla, il primo a dare un carattere di autonomia culturale all’ oggetto rispetto all’ architettura», prosegue Branzi. Un contributo del tutto inedito nel panorama dell’ Europa di quegli anni, dominata da un approccio diametralmente opposto.

«Movimenti come l’ inglese Arts & Crafts o il tedesco Bauhaus, con i suoi rigidi codici geometrici, perseguono l’ idea dell’ oggetto modulare e coordinato con l’ arredo, mentre grazie a lui si impone un’ intuizione rimasta fondante nella tradizione italiana del progetto: quella del prototipo, del pezzo unico».

Nel sogno di un sistema avverso al passato in tutte le sue espressioni, Balla infonde nuovo alito di movimento alla vita anche attraverso la libertà e vivacità dell’ oggetto, «realizzato con tecniche da scenografo in legno dipinto, vetro, stoffa, carta stagnola, smalti industriali» quale elemento indispensabile di quel mondo ardito e gioioso, «coloratissimo e luminosissimo», magnifica ossessione dell’ ideologia futurista.

Ricercatore arguto e incontentabile evoluzionista («L’ artista dopo che ha lavorato deve sentirsi stanco, eccitato, qualche volta felice e quasi sempre insoddisfatto», diceva), Balla disegna arazzi e plafoniere, paralumi in vernice su pergamena e mobili da negozio, cassapanche e attaccapanni, ma anche tessuti, abiti, gilet, pullover, cravatte, papillon, borsette, sciarpe (una per la diva del muto Lyda Borelli), scialli, foulard, scarpe. Capi dinamici, illuminanti, volitivi, tutti «iridescenze entusiasmanti», stoffe fosforescenti, colori violenti, per liberare l’ umanità dal lutto di tonalità funerarie e dalla schiavitù di forme statiche e sacerdotali, come scrive nel volantino del 1914 battezzato Il vestito antineutrale. Laura Biagiotti, che di Balla ha messo insieme la collezione privata forse più importante d’ Italia, lo considerava uno dei grandi padri della moda italiana.

Ma nel suo progetto di ricostruzione futurista dell’ universo, come espresso nel Manifesto redatto nel 1915 insieme a Fortunato Depero, Giacomo Balla non lascia fuori nulla, neanche i giocattoli, ai quali viene addirittura dedicato il capitolo centrale. Mica quelle «caricature cretine d’ oggetti domestici» destinate soltanto «a istupidire e ad avvilire il bambino», si legge, bensì «complessi plastici» animati da «trucchi esageratamente buffi», meraviglie pirotecniche, congegni in trasformazione per esaltare l’ elasticità, la sensibilità, l’ immaginazione, il coraggio.

«Giocattoli creati per divertire i bambini e anche gli adulti come indispensabile reazione alla tristezza del lavoro di fabbrica e risposta al fallimento delle utopie positive», aggiunge Andrea Branzi.

E continua: «Rappresentazione comica, farsa sulla modernità, i giocattoli futuristi sono il simbolo di quell’ irrazionalismo e di quel singolare pessimismo nati dalla sfiducia nel progresso lineare e dal conseguente tentativo di attivare energie eccentriche di cambiamento». In ogni modo possibile.

Articolo di Beba Marsano per il Corriere della Sera

Altri articoli su Balla li trovi sul sito digitando il suo nome o futurismo. In copertina: ritratto della madre, realizzato con pastelli colorati.

L’OCA DI JOYCE

L’OCA DI JOYCE

A tavola con la letteratura: morale, tradizione, e secondo la definizione del medesimo James Joyce, Gente di Dublino, ” spietata e nichilista radiografia” di una città

Morale, tradizione e, secondo la definizione del medesimo James Joyce, Gente di Dublino, una ” spietata e nichilista radiografia” di una città, del suo ambiente, e dei suoi abitanti. Quindici brevi schizzi che hanno per protagonisti i “reietti dal banchetto della vita”… e da quello delle feste ?

“Anche da quello” risponderebbe forse Joyce “chiusi negli stereotipi delle loro tradizioni ” che non gli risparmiano però manicaretti di ogni sorta, quali nell’elegante cena della Vigilia a casa di zia Julia e zia Kate nel racconto dei “Morti”.
“Dov’è Gabriel?”, gridava, “dov’è andato a cacciarsi? Sono tutti di là che aspettano tagli l’oca”. Ma sulla tavola riccamente imbandita non giaceva solo l’oca con il suo profumo croccante, ma c’erano un letto di prezzemolo su carta pieghettata, prosciutto scotennato cosparso di pan grattato, senza dimenticare l’osso perfettamente incartato, e un tocco di manzo arrosto alle spezie. E tra i due rivali, file parallele di contorni nelle loro porcellane decorate e poi ancora gelatine rosse e gialle, un vassoio di marmellate e di blocchi di biancomangiare. Non manca la frutta che inebria la tavola di un dolce aroma zuccherino e specie l’uva porporina accanto alle mandorle color avorio e fichi di Smirne impilati in una piramide e accanto eccone un’altra di arance, di mele americane. I dolci, come scrigni di sapore sono avvolti nelle loro carte dorate e argentate. Infine un po’ discoste, delle eleganti bottiglie di cristallo con Sherry e Porto ,usati rigorosamente per i dolci, come ogni puritano che si rispetti.
“Tutto secondo la tradizione” avrebbero cinguettato all’unisono zia Julia e zia Kate e ancora …” Come ogni anno ad una cena irlandese della Vigilia che si rispetti!” Niente che cambi, niente che muti ogni Natale. Gabriel, uomo di casa, apre il pranzo con un discorso e taglia l’oca grassa, le signore si scambiano piattini e vassoi contenenti morbide gelatine, mousse, creme, frutta. Tutto si svolge come in un rituale. E se un Natale l’oca non avesse lo stesso sapore, le gelatine fossero meno brillanti o Gabriel non trovasse alla fine del suo discorso la giusta citazione… che ne sarebbe di loro senza il banchetto che tiene lontana la morte della vita ?

Articolo di Laura Cesati per wearestudents.it

 

60 ANNI DAL GATTOPARDO

60 ANNI DAL GATTOPARDO

MA GUARDA QUESTO ARISTOCRATICO STRONZO COSA SCRIVE !“-COSI’ COMMENTEREBBERO OGGI I LETTORI, SECONDO IL FIGLIO ADOTTIVO DI TOMASI DI LAMPEDUSA, IL GATTOPARDO- ROMANZO VISIONARIO E PESSIMISTA, LETTO E TRADOTTO IN TUTTO IL MONDO, RIFIUTATO DUE VOLTE DA VITTORINI, STRONCATO DA TOGLIATTI,SEMBRA DIMENTICATO DALLA CULTURA PROGRESSISTA IN ITALIA. 

 

«C’ è sempre acqua dal cielo e mai dal rubinetto». Lo diceva il principe di Lampedusa di questa casa, che ora è un gioiello sui bastioni di Carlo V in difesa di Palermo dallo sbarco dei turchi ma quando l’abitava l’ autore del Gattopardo, aristocratico ma non ricco, era quasi un tugurio. «Guardi, questa è l’ edizione del Gattopardo in giapponese, e si capiscono soltanto i numeri. Questa è quella in lettone. Quest’ altra è quella in ebraico. Lo sa che il Gattopardo in Israele vende moltissimo?».

Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo del principe di Lampedusa, vive in questo splendido posto affacciato sul mare. Lì c’ è il salone delle feste, nell’ angolo c’ è il manoscritto del Gattopardo con tanto di dubbi e correzioni del principe…

gioacchino lanza tomasiNon sarebbe questo il luogo perfetto dove festeggiare i 60 anni di uno dei più importanti romanzi italiani di tutti i tempi?

«Andrebbe bene anche il Quirinale. Ma Feltrinelli non vuole celebrazioni. Non le ha fatte e non si faranno. È un peccato. Non è proprio il clima giusto, purtroppo».

Ma è il romanzo che, insieme al Dottor Zivago, ha fatto la fortuna della Feltrinelli. È un libro troppo di destra, come sosteneva Moravia, per essere celebrato nel mainstream progressista che ancora domina in molte case editrici?

«Elio Vittorini, che lo rifiutò due volte, prima per la Mondadori e poi per Einaudi, lo considerò un libro vecchiotto. Palmiro Togliatti lo stroncò ma poi, dopo l’ elogio di Louis Aragon, secondo cui il Gattopardo dimostrava che il capitalismo sarebbe andato a finire male, ne parlò benissimo».

Ma queste sono vecchie storie…

gioacchino lanza tomasi 2

Gioacchino Lanza Tomasi

«No. Sono portato a pensare che Feltrinelli non celebri i 60 di questo libro, celebrato in tutto il mondo, per una sorta di resistenza pratica. Perché loro credono che può ancora esistere una letteratura pedagogica di sinistra, e che funzioni soltanto quella. Il Gattopardo, che alla Feltrinelli ha dato successo e denaro, non rientra in questo schema. E del resto, è un libro terribile. È l’ opera di uno scettico, non di un progressista mainstream».

Se uscisse oggi, non venderebbe?

«Poco. Direbbero: ma guarda questo aristocratico stronzo!».

Era contro il popolo il principe di Lampedusa?

«Era contro le plebi. Avrebbe voluto mettere nelle mani della povera gente, per emanciparla dall’ ignoranza e dalla sudditanza, l’ Encyclopédie di Diderot e D’ Alembert. C’ è poi un altro aspetto per cui la cultura d’ oggi ritiene scomodo Tomasi di Lampedusa. Perché, da visionario, seppe vedere qualsiasi degenerazione razionale del presente: dalla demagogia al pressappochismo, a una certa ansia di stupire con nulla inflazionando le parole e svalutandole».

Feltrinelli insomma perde una grande occasione?

«Sì. Io ho detto loro: facciamo venire in Italia tutti i grandi letterati che adorano il Gattopardo, da Vargas Llosa a Xavier Marías, per non dire di Yehoshua, a spiegare perché questo romanzo è così importante nel mondo. Mi hanno risposto dalla Feltrinelli: ma con la nostra fondazione qualcosa la faremo…. Poi non si è fatto e non si farà niente».

INGE FELTRINELLI

Inge Feltrinelli, da poco venuta a mancare, animatrice per decenni della casa editrice Feltrinelli

Torno a chiederle: perché?

«Il libro è uscito il 28 ottobre del 58. E secondo me c’ è ancora, in un certo mondo culturale, quell’ impostazione che allora fu data da due personaggi del calibro di Contini ed Eco. Che dicevano: il Gattopardo è una volgarizzazione di Proust. E in Carlo Feltrinelli, figlio di Giangiacomo e Inge, credo pesi ancora il pregiudizio di Vittorini sulla presunta non modernità di questo libro.

La questione del pregiudizio sul Gattopardo non è mai stata superata. Anche se un grande intellettuale, Edward Said, il celebre autore di Orientalismo, ha fatto un saggio in cui sostiene che gli italiani sono stati il popolo dello spirito laico. Prima Lucrezio con il De rerum natura, poi Vico, poi Gramsci, poi Lampedusa. L’ illuminismo di Lampedusa, aggiungo io, andrebbe celebrato in Italia come lo celebrano all’ estero».

Dunque, non è più aria?

«Siamo ormai un Paese che ha fatto la civiltà europea ma della cultura non s’ interessa più. Vendiamo vino e olio, e non facciamo auditorium».

Qual è il nocciolo del Gattopardo?

«Più lo studio e più mi accorgo che è un romanzo freudiano. Si fonda sul sogno di desiderio. Tomasi tra i suoi libri di culto aveva il Trattato di psicoanalisi di Cesare Musatti. Non lo definirei semplicemente un romanzo storico. Ma un libro che insegna come raccontare la storia dell’ uomo, che è fatta di traumi, di fatti psicologici, di gioie, di contraddizioni».

Perché comunque lo pubblicò Feltrinelli, e non Mondadori e Einaudi che erano meno di sinistra rispetto alla casa editrice fondata dal miliardario tupamaro?

«Guardi, è stato Giorgio Bassani, che non era di sinistra, a farlo pubblicare. Era consulente della Feltrinelli, il suo parere contava moltissimo».

Perché Tomasi scelse la figura del Gattopardo?

Giuseppe Tomasi di Lampedusa

«Si tratta di un errore linguistico. In siciliano leopardo si dice attopardo. Lui voleva dire leopardo come fanno i contadini. Ma le racconto questo. Mia madre, che era una grande signora, ebbe in regalo da un maharaja un ghepardo. Smilzo, brevilineo, velocissimo. Lo tenevano in casa a Roma, in via Cornelio Celso, vicino a villa Torlonia. Si chiamava Cita, quel ghepardo.

Giuseppe Tomasi di LampedusaCita, così lo avevamo chiamato, lo vedevi sdraiato su un tappeto, e dopo mezzo secondo con un salto di tre metri stava sulla cima di una libreria o a cavallo di uno specchio. Oppure usciva e mangiava le galline nei campi che allora c’ erano lì intorno. A casa nostra era una processione di gente che arrivava con le galline morte tra le mani e volevano soldi. Dovemmo rinchiudere Cita allo zoo».

Insomma lei conobbe una forma di gattopardo, o almeno di gattaccio, prima ancora di conoscere il principe di Lampedusa?

«Sì, lo avrei conosciuto più tardi e ne restai affascinato».

In che cosa credeva Lampedusa?

«Nello stato di diritto. Se a Palazzo Chigi, al posto di Di Maio e di Salvini, ci fossero Montesquieu e Einaudi, lui applaudirebbe dall’ aldilà. Ma non perché antico, o vecchiotto, ma perché moderno».

Articolo di Mario Ajello per “il Messaggero”

 

SPIKE LIST

SPIKE LIST

ARIA FRAGILE E INDIFESA, VESTITO DA SPORTIVO, CATENE AL COLLO, IL REGISTA RIBELLE  SPIKE LEE ALLA MOSTRA SULLA IDENTITA’  AFRO AMERICANA IN CORSO ALLA FONDAZIONE PRADA DI MILANO– UNA LUNGA LISTA DI PERSONALITA’ LE CUI OPERE HANNO CONTATO NELLA VITA DEL BLACK PEOPLE AMERICANO

Dieci, venti, venticinque, trenta minuti aspettando Spike Lee che non arriva, che forse arriva e che alla fine arrivò. Un «tira e molla» scontato: perché ci sarà stato pure un buon motivo se mamma Jacquelyn aveva soprannominato Shelton Jackson Lee, nato ad Atlanta il 20 marzo 1957, proprio «Spike» e dunque «ribelle» (ma anche «magro», nomignolo altrettanto azzeccato considerata la corporatura ancora oggi esile).

La fama di personaggio difficile del regista di Lola Darling (1986) e Fa’ la cosa giusta (1989) di passaggio in Italia per il suo ultimo BlacKkKlansman sparisce però come d’ incanto davanti a questo piccolo uomo dalla pelle scura e l’ aria gracile quasi indifesa, cappelluccio blu, giubbettino grigio con scritte simil-murales, maglietta bianca, pantaloni scuri, sneaker, un grande anello e una maxi catena con tanto di croce al collo (il tutto più o meno rigorosamente firmato).

STEVIE WONDER E SPIKE LEE

Stevie Wonder con Spike Lee

Un piccolo uomo spesso scosso da una risata inarrestabile e contagiosa che durante questa conversazione con «la Lettura» risuonerà molto spesso nelle stanze della Fondazione Prada dove Spike Lee ha presentato The Black Image Corporation, il progetto concepito dall’ artista-attivista Theaster Gates per l’ Osservatorio della Fondazione, in Galleria Vittorio Emanuele II, che partendo dagli archivi della Johnson Publishing Company (oltre quattro milioni di immagini) ha voluto «ri-definire» i codici estetico-culturali dell’ identità afroamericana contemporanea.

Parte da qui, da questa idea di un nuovo «canone nero», l’ idea di una lista dei dieci personaggi della black culture che tutti, ma proprio tutti, dovrebbero conoscere. «Vuole una lista?» sono le prime parole di Spike Lee.

spike lee adam driver

Spike Lee con Adam Driver

Che subito afferra un foglio e una penna e inizia a scrivere, in silenzio, quasi sdraiato sul tavolo di questa stanza bianchissima e asettica dell’ Ala Nord dove nel 2017 era stata ospitata Uneasy Dancer, la prima grande mostra dedicata a Betye Saar (1926), artista da sempre impegnata nella rappresentazione dell’ identità afroamericana «al femminile». Il tempo scorre tra «I get one», «just anymore», risate.

Michael Jackson

E alla fine la lista arriva, anzi Spike Lee sfora il tetto dei dieci nomi e addirittura (più che) raddoppia. Per concludere, con un proclama da istrione, gridato nel microfono del registratore: «Come on ladies and gentlemen, boys and girls, I am Spike Lee and this is my list».

Tanti, tantissimi i cantanti e i musicisti, i classici (Miles Davis, Ella Fitzgerald, Louis Armstrong, John Coltrane, Prince con Michael Jackson, Marvin Gaye, Stevie Wonder, James Brown, Bob Marley, il baritono Paul Robeson) come le star dell’ ultima generazione rapper compresi (Jay-Z con Beyoncé, Snoop Dogg), quasi a voler ricordare una delle più grandi passioni di Spike Lee: la musica, appunto. E poi attori, registi, uomini di cinema: Harry Belafonte (a cui ha affidato nel suo ultimo film il ruolo di quel James Turner che racconta, di fronte a una platea di giovani militanti, la storia del vero linciaggio di Jesse Washington del 1916), Denzel Washington (il figlio, John David, è protagonista di BlacKkKlansman), Samuel L.Jackson.

SPIKE LEE

Poi gli artisti: Jean-Michel Basquiat («l’ ho conosciuto quando ho incontrato Andy Warhol»), la fotografa-pittrice-performer Carrie Mae Weems, Elizabeth Catlett (famosa per le sculture e le stampe realizzate negli anni Cinquanta e Sessanta sul tema dei diritti civili degli afroamericani), Romare Bearden (pittore, ma anche intellettuale e scrittore). Gli scrittori: James Baldwin e Toni Morrison più Ossie Davis (nata come attore ma poi affermatosi come poeta, sceneggiatore, nonché produttore). E gli sportivi: Michael Jordan e Mohammad Ali.

I BEATLES E MOHAMMED ALI

I Beatles con Mohammed Ali

Una lista, quella di Spike Lee, inevitabilmente sbilanciata verso gli amori del regista: «Nella lista ho messo le persone di cui ho letto i libri, ho ascoltato la musica e le canzoni, ho visto i quadri». D’ altra parte, tiene a ribadire: «L’ arte, come la musica o la scrittura devono riflettere quello che circonda ognuno di noi, devono raccontare e descrivere il nostro mondo senza stravolgerlo e senza nemmeno mostrarlo migliore». Perché il «canone nero» deve servire prima di tutto come esempio universale: «Non mi interessa il risultato artistico in sé, ma l’ intenzione che ha animato queste persone e gli effetti che hanno avuto per i diritti e la vita della black-people nella società».

SPIKE LEE 1Dunque, artisti, attori, scrittori, sportivi e musicisti, ma prima di tutto militanti. Perché Miles Davis è il primo della lista? «Non è una questione di valore, anzi cancelliamo i numeri, non ci deve essere un primo e nemmeno un ultimo, sono tutti importanti allo stesso modo» (detto fatto: una penna e i numeri spariscono).

Perché nessun politico? «Crede forse che per me la politica non sia importante? Ha visto i miei film? Certo che è importante, ma quello che questi uomini e queste donne hanno fatto è altrettanto politico e altrettanto importante». Obama? «Non è stato perfetto, ma le attese per il suo mandato erano troppo alte».

OBAMA MOHAMMED ALI

Mohammed Ali con Obama

Mentre parla, Spike Lee mostra, in sequenza dallo schermo del suo iPhone, una foto che mette insieme Martin Luther King e Malcolm X: «Sbaglia chi dice che non avessero gli stessi obiettivi, io penso di sì»; una di Malcolm X con Muhammad Ali: «Testimoni della verità, non bisogna dimenticarli»; una copertina che recita «Barack Obama dove sei?» e poi tanti altri della lista e anche tutta una serie di variazioni sul tema del presidente Trump, che Lee aveva definito un «figlio di puttana» per essersi rifiutato di condannare i suprematisti bianchi che avevano dato il via alle violenze di Charlottesville, in Virginia.

Ma BlacKkKlansman, ribadisce, non è un film contro Trump: «È un film contro la deriva a destra che sta prendendo il nostro mondo». Come mai non ha messo nell’ elenco il protagonista del suo nuovo film, quel Ron Stallworth, il poliziotto afro-americano che alla fine degli anni Settanta riuscì a infiltrarsi nel Ku Klux Klan: «Perché è un poliziotto». Ma, prendendo spunto dalla lista, Spike Lee aggiunge un altro dei buoni motivi per vedere il film: «Ascoltare Prince che nel finale canta uno spiritual negro, Mary Don’ t You Weep».

A chi dovrebbe servire questa lista? Alle nuove generazioni o alle vecchie? Ai bianchi o ai neri? «A tutti. Perché tutti, dopo averla letta, potranno magari andare su Google e scoprire che James Brown non è stato solo un grande musicista ma che nel 1968 aveva inciso una canzone I’ m Black and I’ m Proud che è una dichiarazione di orgoglio di essere nero.

james brown

Iames Brown

Scoprirlo sarà un passo in avanti». E ai giovani cosa consiglia? «Wake up. Svegliatevi. State attenti. Non cedete agli imbrogli, ai sotterfugi, non cercateli. Non pensate che si può essere colpiti dalla fortuna se non ci si è fatti un culo così.

Dovete lavorare sodo. Uno degli insegnamenti peggiori che vengono trasmessi oggi ai giovani è che le cose possono succedere per caso. Il successo non avviene per caso».

Spike Lee potrebbe finire in questa lista? «Di sicuro i miei film hanno avuto un’ influenza sulla cultura in generale. Le persone mi dicono ancora che non sarebbero mai andati a una scuola di tradizione black, se non avessero visto Aule turbolente (School Daze).

Quello che faccio vivrà a lungo, anche dopo che me ne sarò andato. In fondo è tutto ciò che di meglio puoi sperare: che la tua vita sia servita a qualcosa» (non a caso, nella collezione permanente del Nmaahc, il National Museum of African American History and Culture di Washington, compaiono una mazza da baseball, una maglietta, il Boombox stereo e la locandina di Fa’ la cosa giusta). Dell’ Italia cosa ama? «Il neorealismo, Rossellini e Fellini, uno dei miei maestri, ho tre suoi manifesti autografati nel mio studio, la bella esperienza del Miracolo di Sant’ Anna».

Cosa vuol dire classico per Spike Lee? «Hannibal» dice sicuro. Non il Dottor Hannibal Lecter, protagonista del Silenzio degli innocenti, ma Annibale, «il più grande generale dell’ antichità» secondo Theodor Mommsen, il condottiero cartaginese che attraversò le Alpi con gli elefanti e che sconfisse i romani nella battaglia di Canne. Perché proprio lui? «Ha visto il colore della mia pelle? It’ s black». Nera, appunto, come avrebbe potuto essere quella di Annibale, nato a Cartagine, Nord Africa.

Articolo di Stefano Bucci per “la Lettura – Corriere della Sera”

 

MEGLIO MADÀMIN CHE BADÒLA

MEGLIO MADÀMIN CHE BADÒLA

IL BORGHESE SOPRAVVISSUTO SCENDE IN PIAZZA  A TORINOPRIMO, COMPOSTO E TIMIDO TENTATIVO DI REAZIONE AL POPULISMO E AL SOVRANISMO NELLA CITTA’ CHE FU DELLA FIAT,OGGI  ALLA RICERCA DI UN SUO DESTINO- CONTRO LA DECRESCITA FELICE E L’IDEOLOGISMO DEI NO TAV SI GIOCA UNA PARTITA DECISIVA PER IL FUTURO ITALIANO E EUROPEO. COSI’ LA PENSA GEPPETTO.

 

Di passaggio da Torino ho voluto esserci in piazza Castello, sabato 10 novembre, giornata uggiosa come non mai, città pigramente in movimento.

Le sette madamìn che hanno voluto la manifestazione del Sì alla TAV Torino-Lione, sono su un palco improvvisato, l’acustica è pessima, ma la gente accorre, composta, confondendosi con i turisti che escono dal museo Egizio o che hanno fatto compere alle bancarelle di via Roma, da dove arriva il profumo di cioccolata e dolciumi del Cioccolatò 2018, la kermesse dedicata a una delle eccellenze della città. 

Non potendo vedere il palco invisibile, né comprendere le prevedibili esortazioni, gli appelli e gli slogan, gironzolo fra la folla sempre più fitta. Alla fine, gli organizzatori parlano di 30 mila presenze.

Ma non è il numero che mi interessa, ma la gente che è accorsa, i discorsi che fanno, i cartelli (pochi) che inalberano. Il taglio è sobrio, riflessivo, non solo sul palco ma anche nella piazza. Sembra quasi un raduno di reduci, che non si riconoscono più, dato il tempo passato, ma che sono comunque felici di ritrovarsi.

A rompere l’impaccio dell’estraneità, tutti gli sguardi convergono verso la rassicurante gigantografia di Cavour, mentre piovono applausi quando si ricordano Marchionne e Pininfarina, due di famiglia nella comune genealogia piemontese. 

A proposito di ricordi, in quella stessa piazza, 5 o 6 anni addietro, assistetti a un comizio di Beppe Grillo, agli esordi del suo Movimento. Allora c’era ancora la FIAT e Torino una città industriale senza più industrie. Intorno a me giovani, tanti e incazzati, nervosi e carichi, pronti ad applausi liberatori ad ogni battuta, a sottolineare con epiteti e bestemmie ogni sentenza del guru sul palco, che si agitava, attorniato da timide e labili comparse locali. La piazza era fatta di facce dure, gente della periferia e della cintura, disoccupati, cassaintegrati, parecchi di colore, femministe, No Tav, antagonisti dei centri sociali, giovani o giovanissimi in larga prevalenza.

Questa piazza oggi è molto diversa.

L’indomani in treno leggo il resoconto sulla Stampa, che con editoriali infuocati ha molto gonfiato l’evento, e ricordato la storica marcia dei 40 mila, capeggiati da Romiti, che chiuse la stagione degli scioperi alla Fiat. “La verità è che c’ erano tutte le associazioni di categoria, commercianti artigiani, industriali, un mezzo miracolo per chi conosce la litigiosità dei corpi intermedi torinesi. C’ erano operai, studenti, maestre e avvocati d’affari, una piazza difficile da colorare o definire, figlia di una manifestazione davvero spontanea. Fino alla sera del 29 ottobre (voto in consiglio comunale No-Tav, ndr), appena dodici giorni fa invece non c’era niente che facesse presagire questa mescolanza così inedita.”

Se anche c’erano le parti sociali che l’articolista elenca, certo esse hanno tenuto un profilo molto basso. Forse non ci credevano, poi meglio non correre il rischio di politicizzare. 

Attorno a me, invece, ho visto la classe media di Torino, benestante, colta, età media sui 50 anni, spesso in coppia, parecchie donne con al bavero il simbolo arancione del Sì TAV Torino. I pochi giovani stavano in vetrina, dietro il palco, simili a trofei da esporre.  

Che la classe dirigente e benestante italiana si affacci in piazza e canti l’inno di Mameli, va bene.

Che, al termine, non ci fosse nemmeno una carta per terra, come scrive compiaciuto il direttore Maurizio Molinari, ancora meglio. Si può manifestare con stile e misura, non solo sbraitando.

Ma in democrazia uno vale uno. Purtroppo, potrebbe dire qualcuno, magari pensando che i badòla (stupidi, n.d.r.) non dovrebbero avere diritto al voto.

Ma fino a quando ci saranno in Italia 5 milioni e mezzo di poveri e oltre il 10% di disoccupati, i numeri ci dicono un’altra cosa. Ci dicono che è più convincente il pifferaio magico, che distribuisce ricchezza che non ha e non produce, ma almeno fa sognare. Cosa che la classe “media riflessiva” non è capace di fare, per sè stessa e per chi dovrebbe amministrare, perché ha smarrito il senso del proprio ruolo e scappa dalle sue responsabilità.

 

 

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