Il colore della carta da zucchero

Il colore della carta da zucchero

Ci sono delle cose, magari piccole e marginali, sulle quali vale la pena riflettere, con altrettante domande: ad esempio, perché il colore della carta da zucchero, quando era ancora comprato sciolto, era rigorosamente di quel celestino tendente al grigio che i più vecchi ricordano?

Vi siete mai chiesti perché negli abiti delle donne le asole sono opposte a quelle degli abiti maschili? Quale può esserne l’utilità, ancora oggi poi?

La forma strana che ha la prua delle gondole, così sbilenca, da dove nasce, da un’esigenza di navigazione per via di un solo remo che manovra? O cosa?

L’elenco lo potete continuare voi, resta il fatto che parecchi aspetti del nostro vivere quotidiano, modi di fare, di costruire, modi d’uso sono dati per scontati, restano immutati nel tempo, senza apparente ragione sottratti al vento della moda, al mutare dei gusti e degli usi, all’avanzare della tecnologia.

In quanto agli oggetti, una spiegazione può essere legata al fatto che alcuni di essi hanno nel tempo raggiunto una forma ideale, cioè rispondente pienamente ai fattori ergonomici più ampi. Pensate alla forma dell’uovo e a quella di un cucchiaio: sono forme perfette e sintesi definitive, in cui il materiale e il disegno sono un tutt’uno con il concetto logico-funzionale che ne sta alla base. Idea e materia si sono in un certo modo “inverate”.

Quanto agli usi, va fatto un diverso ragionamento, nel senso che l’elemento tradizione o credenza o costume hanno un maggior peso che non la funzionalità, per cui i motivi del permanere di usi “superati” vanno ricercati al di fuori dell’uso stesso, magari nella inerzia della dimensione sociale o economica tipica di molti paesi che non definirei statici o arretrati, ma semplicemente più ricchi di storia e complessi in quanto a stratificazione culturale.

Pensate che, in alcuni paesi del Sud d’Italia, pienamente emancipati o evoluti, se due giovani non intendono o possono celebrare sponsali con i plebiscitari inviti, hanno ancora in uso di fare la “fuitina”, atto a volte semplicemente enunciato, ma che ha di per sé un potere esimente e gode ancora di riconoscimento e approvazione sociale.

Ernesto dà il buon giorno…

Ernesto dà il buon giorno…

Ernesto Olivero nel suo convento metropolitano

Ernesto Olivero nel suo convento metropolitano

 

 Ernesto, dal suo convento metropolitano, dà agli amici nel mondo il suo quotidiano buon giorno.

La voce un poco fioca, che l’età ha reso più debole, addolcisce sempre in forma di preghiera per Maria madre di  Gesù. Parla sempre di temi difficili come sa farlo lui: con una semplicità disarmante, al limite del banale. Ieri,  ascoltandolo (ma lui non lo sa che lo ascolto), ho colto una frase: “la luce del male è molto appagante, ma ci porta  poi verso il buio”. Ernesto non ignora il male perché lo vede tutti i giorni, né ignora la tentazione, ma nel suo  colloquio ininterrotto con Dio, sa che le lusinghe del male tanto sono allettanti, quanto più sono effimere e false.

Possiamo andare verso il buio oppure verso la luce, sentieri sempre incerti, mentre certa è la libertà di scelta che possiamo fare giunti al bivio di questi due percorsi. Ciò che mi sembra più riprovevole, se ho ben interpretato Ernesto, è l’ignavia perché essa è peggio del male. L’ignavia, il sottrarsi ad una scelta etico/morale è ben più grave, perché rende inutile la stessa venuta di Cristo e la sua messa in croce.

Dante colloca gli ignavi, nel III canto dell’Inferno, nel limbo; essi sono coloro che “visser sanza infamia e sanza lodo” Sono mischiati agli angeli che “non fur ribelli né pur fedeli, ma per sé fuoro”. Virgilio stesso li ha così in disprezzo che invita Dante: “non ragioniam di loro, ma guarda e passa”.

Ecco perché spesso Ernesto dice: ma quante volte deve venire in terra il Signore perché gli uomini lo sappiano riconoscere, riconoscendo con ciò se stessi come uomini e non come accidenti della storia.

Per evitare l‘ignavia oggi la domanda è perciò non tanto non ho fatto del male, ma ho fatto del bene? Esorta infatti Ernesto: via e fai! Quanti di noi non si ritengono ignavi di fronte ai grandi mali della terra?

 

Io non appartengo…..

Io non appartengo…..

E’ sdraiato contro una porta laterale della chiesa, raccolto su se stesso, quasi si confonde.

Mi colpiscono i sandali che indossa, rabberciati col filo, le calze spaiate di lana grossa da cui sbucano gli alluci come rami contorti, i pantaloni laceri e macchiati.

Ha una barba rossiccia, gli infesta il volto, aggrovigliata come lana di materassi . Due occhi piccoli e affossati che appena si distinguono fra le orbite, una rete di rughe annerite dai peli e dallo sporco.

Gli allungo d’istinto quello che ho in tasca; lui, mentre alza il cappello mi guarda, sento il suo guardo scivolarmi addosso e fissarsi sui gradini.

Un solo soffio di voce: … io non appartengo… poi più nulla, già io proseguo per la mia strada.

 

Ho poi riflettuto: non ha detto ho fame, ho bisogno, mi aiuti. Ne’ ha sciorinato il solito calvario di invalidità, figli ammalati, disoccupazione, ecc. Anzi l’impressione che avevo ricevuto, a dispetto delle condizioni miserrime in cui l’uomo versava, era stata quella di grande dignità.

Io non appartengo è una frase forte e piena di significati. Non è l’ammissione di essere in stato di bisogno, né un preludio alla questua, non è nemmeno una richiesta, che in effetti non c’era stata.

Né tanto meno l’uomo ha esibita una pretesa, come succede spesso da parte di chi dice abbiamo fame, quasi a volere denunciare una condizione di per sé idonea.

Io non appartengo è insieme causa ed effetto di uno stato di indigenza che postula lo stesso come connaturato, più che ai propri demeriti o alle avversità della vita, ad una condizione sociale: c’è chi appartiene e chi no!  Visto così il problema, ne discende che radici e giustificazione di tale condizione esistenziale affondano nella società e nella sua organizzazione. L’appartenenza o meno è il discrimine fra chi ha o non ha diritti, dignità, opportunità.

Stare fuori, non avere cittadinanza, non godere di parrocchie o padrini, essere senza reti di protezione, legami di sangue e di connivenze, essere lì nudi senza potere vantare altro che il nostro esserci, questa è la condizione che ho avvertito per un attimo nelle parole di quell’uomo.

Relegati in questo stato di cose non ci si appella, che dico ai diritti, ai sacri princìpi, ma nemmeno al buon cuore, forse a quel medesimo che sopravvive di identità umana.

Il fatto che non gli abbia chiesto che cosa volesse dire dimostra quanta parte di realtà oggi sfugga al nostro sguardo pigro di persone abbienti, che invece appartengono.

 

Merda d’artista

Merda d’artista

Piero Manzoni

Piero Manzoni

Piero Manzoni, un pittore milanese morto prematuramente nel 1963 a soli 29 anni, apparteneva alla avanguardia italiana variamente denominata (spazialismo, pittura nucleare, ecc.)

Un uomo bizzarro assai, amico di Fontana e Baj; autore del manifesto per la “pittura organica”, invitava coerentemente il pubblico a “consumare” le sue opere; firmò la sua scarpa e quella di Mario Schifano dichiarandole opere d’arte. Lo stesso fece con uova sode sulle quali aveva impresso il suo pollice, manco dirlo d’artista. Si inventò la scultura vivente e i palloncini colorati gonfiati col suo “fiato d’artista”.

E’ rimasto famoso per avere esposto un barattolo con su scritto “merda d’artista”,  grammi 30 da scambiare con rigorosi grammi 30 in oro, solo 90 pezzi per gli appassionati del genere.

merda d'artista

Ma, a riprova che, per oscuri rimandi e strade a volte remotissime, le idee degli artisti nascono su quelle di chi li ha preceduti, va ricordato l’aneddoto riferito da Ambroise Vollard nelle sue Memorie di un mercante di quadri.

Vollard riferisce del rapporto di disistima, quasi di avversità, che intercorreva fra Manet e  Cézanne. Troppo diversi i due pittori!

Il primo, parigino dalla testa ai piedi, era nella vita uno snob raffinato; il secondo, provinciale un poco complessato, aveva modi spicci e rustici che, per stizza, accentuava fino alla volgarità quando si trovava con Manet.

Un giorno, ricorda Vollard, richiesto da Manet se stava preparando qualcosa per il Salon, Cézanne irritato e  stizzito risponde: Sì, un vaso di merda!

Chissà se Manzoni sapesse di questo aneddoto quando gli venne l’idea di etichettare coi suoi prodotti organici un barattolo (tranquilli, vuoto per assicurare l’intenditore circa la durata del manufatto artistico!).

Caro vecchio padre Antony

Caro vecchio padre Antony

Preti pedofili da Dagospia

Preti pedofili da Dagospia

“Caro vecchio padre Anthony, guida morale e molestatore dei ragazzi del coro. Dieci avemaria e un pompino. Jerry come si chiama, quello che stava in classe con Lee, gli era venuto l’esaurimento nervoso. Intanto mezza città va ancora in chiesa: più facile credere che il piccolo Jerry fosse un bugiardo. Chiavati i nostri figli ma non scuotere la nostra fede” (Philipp Meyer Ruggine Americana Einaudi 2009 pag.100)

Trovo disagio a commentare questo brano di Meyer, per la brutalità con cui mette in risalto il problema della pedofilia diffusa tra i preti.

Ruggine Americana è un libro dove sincerità psicologica e verosimiglianza sociale combaciano come tasselli di un affresco impietoso ma assai plausibile di valori e comportamenti.

La pedofilia praticata nei confessionali e nelle sacrestie è più odiosa rispetto a quella diffusa e tollerata nella favelas brasiliane, nei paradisi sessuali del medio oriente, o fra le mura domestiche perché si ammanta di ipocrisia e di inganno e fa del male più inconfessabile un tradimento.

Ma come non dare ragione a Meyer quando ci dice che la ipocrisia del male non è solo dei preti e che, anzi, esso non ci sarebbe se solo avessimo il coraggio di non assistervi inerti o correi? Quanti Jerry abbiamo conosciuto, o sospettato, o ignorato?

Non scuotere la nostra fede, le nostre abitudini rassicuranti, il nostro perbenismo, la menzogna di un mondo pulito e onesto, a dispetto di tutto. Lo sguardo sia spinto al lontano all’orizzonte, alle nuove frontiere che ci aspettano!, troppo importante è il compito di costruire il nuovo mondo per poterci occupare di quello di oggi. Ogni progresso ha le sue vittime, le strade non sempre sono diritte, e soprattutto la carne è fragile e la vita è troppo corta. Direbbe desolato il mio amico Ernesto: ma quante volte Cristo deve venire a salvarci?

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