SUGLI ARGINI CON CELATI

SUGLI ARGINI CON CELATI

Pochi giorni prima di compiere 85 anni, il 3 gennaio 2022, è morto Gianni Celati, scrittore, traduttore, regista, ma soprattutto uomo di fiume, camminatore smanioso, uomo della Bassa, narratore di pianure, anche se poi è morto in Inghilterra, dove risiedeva da anni. Ho aspettato a ricordarlo sul sito perché cercavo un omaggio meno rituale, più autentico, oltre che alle sue doti di scrittore, a quelle umane. In questi due articoli, pubblicati su Doppiozero, due suoi amici, Gino Ruozzi e Enrico Palandri -ambedue formatisi in quel crogiolo di idee che fu il DAMS di Bologna, voluto da Umberto Eco- il ritratto che ne esce di Celati è quello autentico, credo che sarebbe piaciuto anche a lui. Avere come orizzonte l’argine di un fiume ti cambia la vita, e se devi raccontare per vocazione hai lo zaino sempre in spalla, come Gianni Celati- Non so se Celati ha conosciuto un altro scrittore della Bassa, Gian Antonio Cibottohttps://www.ninconanco.it/il-vagabondo-delle-acque/, né se ha visitato il museo della Bonifica nel Basso Polesine: l’uno e l’altro gli sarebbero piaciuti.

Nell’inizio del film Sul 45o parallelo di Davide Ferrario (1997) Gianni Celati è a Gualtieri sul barcone di Gloria Negri che racconta di Boiardo, dell’Asia e della Mongolia. Col suo splendido volto da grande attore americano capace di riempire completamente la scena.  Il legame con la Mongolia era dovuto anche al viaggio che i musicisti del Consorzio Suonatori Indipendenti di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni avevano fatto in Mongolia nel 1996. E il collegamento con il Po, posto come la Mongolia sul 45o parallelo, derivava dal fatto che lì, in quel tratto di fiume tra Emilia e Lombardia, molti soldati mongoli erano morti cercando di attraversare il Po nella ritirata delle truppe tedesche nel 1945. Alleati dei tedeschi, per i quali svolgevano spesso i lavori più ingrati e violenti, i mongoli cercavano di sfuggire all’avanzata anglo americana ma i tedeschi stessi tagliarono loro i ponti. E il Po li inghiottì in grande numero.

Dalla sponda del barcone Gianni ci raccontava della «Tartaria» dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, di cui nel 1994 aveva pubblicato da Einaudi la sua straordinaria versione in italiano odierno. Impresa sorprendente e ciclopica che corrispondeva all’amore per i poemi cavallereschi, la loro travolgente fantasia, l’essere qui e là e altrove nel medesimo istante narrativo, dal Po al Catai («l’Asia», diceva Gianni, «è proprio il mondo dell’immaginazione massima»). Celati era tutto questo, narratore scritto e orale di stupori, di memorie e smemoratezze insieme, del piacere di raccontare e sognare.

Mondonuovo è un altro film di Davide Ferrario (2003) di cui Gianni è protagonista. Ha un viso e un modo di muoversi e di camminare particolarmente brillanti e scanzonati, è agile e scherzoso. È come se dicesse “seguimi che ti porto in un posto incantato” e lo dicesse seriamente e anche buffamente, in quel matrimonio di giocoso e di serio e poi di serio e di giocoso che lo contraddistingueva. Nella scia prediletta dei poemi cavallereschi e delle disinvolte e goliardiche movenze delle comiche.

Gianni Celati

L’indicazione del 45o parallelo era già presente nel primo dei diari di viaggio di Verso la foce (1989), alla data 14 maggio 1986. Con l’ubiqua scioltezza del cavaliere che sta «passando da una regione a un’altra del mondo», Gianni attraversa il ponte di Viadana e Boretto che collega Lombardia e Emilia (e qui il riferimento internazionale è ai «giorni immediatamente successivi allo scoppio nucleare di Černobyl»). Vede le cupole di Brescello e di Boretto e scendendo dall’argine di Boretto verso il paese si avvia in direzione della stazione e del «benedetto Albergo del Bersagliere». L’albergo era gestito dall’ospitale e anziana “signora Maria” (Maria Moretti) e fu chiuso nel 1989. Negli anni Ottanta divenne un luogo di culto grazie appunto alla affettuosa frequentazione di Gianni Celati, Luigi e Paola Ghirri, Daniele Benati, Giorgio Messori, Vittore Fossati e altri amici. Nel libro Vista con camera di Luigi Ghirri (1992) c’è una fotografia del banco del bar della sala ristorante e quella di un armadio a specchio in una delle camere, diapositive 6×7 datate 1986 (pp. 66-67). A poche decine di metri dal Bersagliere c’è Casa Falugi, famosa per l’imponente ciclo di affreschi del pittore e scrittore Pietro Ghizzardi, autore del memoriale Mi richordo anchora, pubblicato su suggerimento di Cesare Zavattini da Einaudi nel 1976 e di recente da Quodlibet nella collana Compagnia Extra promossa da Ermanno Cavazzoni e Jean Talon (2016).

La nota del 16 maggio inizia proprio con un omaggio all’albergo:

La padrona dell’Albergo del Bersagliere mi ha raccontato che suo padre comprò questo albergo nel 1917, quando Boretto era un centro abbastanza importante per via del traffico fluviale e per i collegamenti tra Parma o Reggio Emilia e l’altra sponda del Po. Albergo rimasto intatto, ora frequentato da camionisti che alla sera mangiando fanno racconti da un tavolo all’altro, mentre la padrona li serve come se fossero conoscenti venuti a trovarla. Impressione immediata d’essere in casa di qualcuno, non in una anonima stazione di transito; nelle grandi camere da letto sembra d’essere in visita a qualche vecchia villa di campagna.

Gianni Celati

Poche righe prima, in chiusura della nota del 14 maggio, queste bellissime e lapidarie considerazioni:

Quand’ero giovane leggevo sempre, avevo paura di perdermi qualcosa, e adesso ho l’idea che il perso e il trovato vadano nello stesso alveo.

Le narrazioni fluiscono naturali come è naturale l’atto del camminare, lo scorrere del fiume, le conversazioni che si alzano e alimentano da un tavolo all’altro delle osterie e dei ristoranti. Una «fratellanza» conviviale, come richiama il nome di una delle più antiche osterie di Guastalla (La Fratelansa), meta di pellegrinaggi intellettuali soprattutto tedeschi, dalla Svizzera e dalla Germania. 

Dopo Boretto Gianni prosegue sull’argine verso Guastalla, arriva e si ferma al Lido Po al Ristorante del Faro, si muove tra gli argini e le golene, lungo i pioppeti che occupano entrambe le sponde, osserva il corso del torrente Crostolo che sfocia proprio tra Guastalla e Gualtieri.

Da alcuni anni alla foce del Crostolo è stato costruito un piccolo ponte di legno che collega direttamente le sponde degli argini di Guastalla e di Gualtieri; prima occorreva fare un giro di qualche chilometro per raggiungere quella estremità opposta che si trova a una decina di metri e che ora si supera in alcuni secondi. È un luogo magico, nel quale Celati tornerà più volte anche per i film, in particolare Sul 45o parallelo (1997) e Il mondo di Luigi Ghirri (1999). Sono le stesse golene di Antonio Ligabue, di recente rivisitate prima dal teatro di Mario Perrotta e poi dal film Volevo nascondermi di Giorgio Diritti (2020). Il paese del sole a picco lo aveva chiamato Pier Paolo Ruggerini nel primo filmato dedicato a Ligabue (1960).

Per questi luoghi si può provare incanto e disincanto, sentire le preoccupazioni per una natura ferita e comunque avvolgente, lo sdegno per «una campagna tutta invasa da industrie», che risulta ancora più evidente nel passaggio sulla riva opposta lombarda, nello stradone che porta da Viadana a Pomponesco. Qui avviene uno stacco, una pausa, una sospensione che coniuga stupore e razionalità, vaghezza e geometria.

Ponte di barche sull’Oglio

Qui voglio parlare di Pomponesco. Dopo Viadana, lasciando lo stradone provinciale e inoltrandosi per una strada in direzione del Po, quando si arriva in paese parrebbe d’essere in un’epoca tutta diversa. Pomponesco è fatto di strade dritte a intersezione ortogonale, come Guastalla e Ferrara, stradario rinascimentale che riprende il modello del campo fortificato romano. Pochi abitanti, e certe volte alla domenica mattina, in quelle strade dritte e silenziose, viene l’idea d’essere in un lontano stanziamento di frontiera.  

Il paese si stende intorno alla meravigliosa piazza rettangolare, non umiliata dal cemento e dal nuovo. La prospettiva delimitata in fondo da due colonne a ridosso dell’argine, imbuto d’una strada silenziosa con belle case antiche, porta l’occhio verso l’aperto. Là in fondo l’aperto si presenta dietro un orizzonte, facendo sentire l’indistinta lontananza che dà un senso alla nostra collocazione spaziale. Piazza quasi sempre vuota, dove il vuoto si riconosce come l’accogliente, e noi accolti potevamo accorgerci degli altri accolti di passaggio, senza la solita sensazione di fastidio.

Pomponesco sembra un avamposto di confine, con la pianura alle spalle e il Po davanti, «uno stanziamento di frontiera» che mi ricorda atmosfere di Buzzati. Orizzonti aperti oltre quelle siepi leopardiane di «indistinta lontananza» che sono gli argini, sensazioni metafisiche delle piazze di De Chirico e città del silenzio dannunziana, in cui riecheggia la famigliare Ferrara («O deserta bellezza di Ferrara»). Vuoto e accoglienza, lasciare spazio all’altro e agli altri, che è sempre stata una delle meravigliose qualità di Gianni. 

Da questa precisa prospettiva c’è una bellissima foto di Luigi Ghirri. Non è un paesaggio primaverile come quello di Gianni ma invernale. Risale a qualche mese prima, nel 1985. Ritrae le due colonne incappucciate di neve che al termine della piazza aprono al paesaggio e al respiro dell’argine e dei pioppi, dietro il quale è lecito immaginare il Po e l’infinito.

Domenica 22 maggio 2016 Gianni è venuto a trovarci con Daniele e siamo andati con Gloria a pranzo alla trattoria di Bocca Bassa. Quindi dall’altra parte del Po, sulla sponda lombarda, lungo l’itinerario Dosolo, Villastrada, San Matteo delle Chiaviche, dove dopo il monumentale complesso idrovoro abbiamo preso il corso destro dell’argine dell’Oglio. (Nella direzione opposta, da Dosolo a Viadana avremmo incontrato Pomponesco). Su questa strada stretta e piena di curve, dopo pochi chilometri, in basso a sinistra rispetto all’argine, si trova la trattoria di Bocca Bassa, meta abituale di tante nostre cene: salami mantovani e spalla cotta, salse giardiniere e gnocco fritto, agnoli in brodo e tortelli con erbette zucca e ortiche, guanciali di maiale e stracotto di asino, frittura di rane e pesce gatto, torta sbrisolona salame di cioccolato e zuppa inglese.

Pomponesco, posto sulla riva sinistra del Po, in provincia di Mantova

Argini molto amati da Gianni, «fanno venire in mente racconti di barcaioli, braccianti, ghiaiaroli, segantini, uomini di bosco e uomini di fiume» (Verso la foce, 20 maggio 1983). Da qui, tornando verso il Po, si arriva al bellissimo ponte di barche sull’Oglio («l’ultimo che resta in piedi dal tempo di guerra»), che porta dopo qualche centinaio di metri l’Oglio a confluire nel Po di Borgoforte e quindi i due argini a unirsi.

Nel pomeriggio vagando in macchina (che è un altro modo di passeggiare e chiacchierare a ruota libera) siamo approdati a Corte Castiglioni a Casatico di Marcaria, residenza storica di Baldassarre Castiglione, ulteriore perla di queste terre. Abbiamo avuto la rara fortuna di potere visitare anche la torre stellare e la villa con gli affreschi.      

Una giornata baciata dal sole. Gianni ha camminato e parlato tanto, era felice.

Articolo di Gino Ruozzi per doppiozero.com

Ciao Gianni

Mi hanno raccontato che quando è caduto e si è rotto il femore, e gli hanno scoperto un tumore esteso che lo ha rapidamente portato via, Gianni ha detto a Gillian: è finita! E penso che anche senza pensare alla morte, l’idea di non potersi più muovere fosse davvero l’idea della fine. Tutto il suo lavoro, la prosa, le traduzioni, il cinema, l’essere con gli altri, è sempre stato animato da questa straordinaria energia di camminatore diurno e notturno, che in lui era scrivere. Lo dice molto bene in una bella videointervista a Marco Belpoliti per Doppiozero di alcuni anni fa dove racconta come scriveva. Faceva passeggiate sui colli bolognesi fino ad esaurire l’energia, o quella energia, tornava a casa e si metteva al tavolino.

Credo che questa forza arrivi anche attraverso i suoi libri, dove Guizzardi e Garibaldi, Giovanni, i tanti personaggi dei Narratori delle pianure o dei tanti magnifici racconti successivi, entrano nel racconto quasi di corsa, trafelati, trascinati e trascinando nelle vicende con la rapidità di esecuzione e il rigore di chi sa che quei passi sono tutti importanti, e sono proprio così. Quasi saltasse da una pietra all’altra per attraversare il greto di un fiume. E così i film, che sono spesso proprio la cronaca di un girovagare curioso in Emilia o in Africa, per vedere case che crollano insieme a John Berger o per raccontare la propria infanzia a un gruppo di amici. Il modo di parlarsi, quando ci si incontrava, aveva sempre questa caratteristica, un vieni con me, o vieni via con me, scriveremo e parleremo mentre andiamo di qua o di là, ti faccio vedere un posto, voglio che conosci il tal dei tali, andiamo a vedere dove finisce quella strada…

Poi naturalmente si incrociava anche la staticità. E questa è sempre stata la condizione da cui lui fuggiva. L’incensamento letterario, i premi (che, citando Thomas Bernhard, diceva: è come se ti cagassero in testa), in generale il venire fissati, immobilizzati. Capisco così perché la rottura del femore, credo anche prima della diagnosi di un tumore che gli hanno scoperto in seguito, deve essergli apparsa come la fine.

Del lavoro, il tantissimo lavoro che ha fatto nella sua splendida camminata si è molto scritto, c’è il “Meridiano” di Nunzia Palmieri e Marco Belpoliti, ci sono monografie, interi numeri di riviste, e soprattutto tantissime persone che con lui hanno lavorato o da lui hanno imparato e che con lui hanno condiviso. Io vorrei solo mostrare una linea, che nella mia mappa emotiva e intellettuale segna una delle direttrici più visibili. Una linea che nasce dalle difficoltà della sua adolescenza e che riaffiora in tanti punti del suo lavoro, dai primi romanzi, che ne sono segnati profondamente, a tanti altri spunti che riaffiorano fino agli ultimi lavori.

Quali sono le difficoltà dell’adolescenza? La prima è la stessa di cui parla Jacques Prévert in una bella poesia dove a un ragazzo viene chiesto di seguire il computo delle tabelline e lui si mette a guardare un uccello fuori dalla finestra. In pochi come in Gianni, il dolore di questa costrizione in una classe, di un bambino che vorrebbe saltare e giocare e correre, e semplicemente vivere, si mostra con tanta sofferta eloquenza. E anche il camminare diventa quindi proprio il luogo in cui si frantumano, scontrandosi l’una con l’altra, l’aperto dei prati e del cielo e il chiuso di un tavolino in una stanza.

In La banda dei sospiri, questa esplosione avviene in un teatrino familiare dove ogni personaggio ha il nome di un qualche eroe romanzesco, di un attore del cinema o di qualche altro eroe, ma sono tutti molto veri e vicini all’osso, persino edipici, come quando il terribile Federico fa l’amore con Veronica Lake e distrugge nell’anima del giovane Garibaldi famiglie di origine e famiglie future, consegnando tutta la vicenda personale a una impossibile ricostruzione di vite infrante.

Questo tono, tragico, in Gianni non è mai la partitura principale. Gianni sa bene che trascinerebbe in una immobilità che per lui sarebbe la fine, distruggerebbe il camminatore. Bisogna al contrario trovare lo scarto che consente di evitare la fine, i giudizi universali, bisogna scappare, saltare, uscire. Ma questa voce è presente fin dall’inizio e si mostra solo in controluce, e soprattutto la si sfugge. Perché quando ci si ritrova immobili, allora davvero è finita. Ma è sempre lì, affiora ogni tanto in un tono, nella scomparsa di un uomo lodevole o tra le righe di racconti che apparivano quasi scanzonati a mostrare la ferita, perché è stato necessario mettersi a camminare. 

I primi che recensiscono Gianni non capiscono cosa ci sia in gioco, lo ascrivono a un genere comico, non lo vedono. Sarà solo più avanti, man mano che con le ombre inizia a dialogare, che si vedrà com’è densamente intessuta la sua prosa.

Non voglio però che questo sia un ricordo triste. Certo ci mancherà, anche se ormai non scriveva e non parlava più, sapere che poteva fare delle passeggiate lungo le scogliere di Brighton lo teneva vivo per tanti di noi. Ora è finita. Ma così com’è sfuggito ai tanti sbarramenti che ha trovato nella vita, le cose che non sono andate bene e da cui nasceva la necessità di camminare ancora, nei suoi libri c’è qualcosa che supera anche la morte e che spero tanti nuovi lettori ritroveranno ancora per svicolare, superare, saltare gli ostacoli. E non come un semplice saltimbanco, definizione che gli sarebbe piaciuta perché lui voleva proprio avere le mosse di un mimo, ma per la scrittura ricca e così spesso allegra di cui è capace. Allora voglio raccontare un episodio che coglie questo senso dell’umorismo che apparentemente deride la solennità, ma in realtà la accompagna e la colora.

Quando ho incontrato Jenny, con cui poi ho condiviso la vita, gli scrissi una lettera dicendogli che per me lei era un Dio. Lui era in Normandia e io a Londra, e gli dissi che volevo andarlo a trovare con lei. Attraversammo la Manica con una nave, una notte, e della camminata del giorno dopo, al termine della quale lui ci lesse la storia dei Gamuna, ho raccontato brevemente in un altro pezzo che si trova su Doppiozero, anche quello tutto sul camminare con Gianni. Non so se in quella occasione o poco dopo, citando la mia frase esagerata che paragonava Jenny a Dio, lui mi disse sorridendo che aveva pensato: sarà molto alta…

Ecco, questo è il mio magnifico amico Gianni Celati, sottile, con un sorriso profondo che va sempre al fondo delle cose, le riapre, ce le offre perché anche a noi riesca di sorridere, di noi stessi e della vita, e di farne qualcosa. 

Articolo di Enrico Palandri per doppiozero.com

SI SA TUTTO E NON SI SA NIENTE

SI SA TUTTO E NON SI SA NIENTE

PER SCUDARSI DAL COVID NON BISOGNA CEDERE ALLA PAURA IRRAZIONALE, AVERE FIDUCIA NELLA SCIENZA, MA SOPRATTUTTO DARSI UNA CALMATA.

Credo di aver trovato lo scudo protettivo contro lo sconforto da variante più recente, più trasmissibile, più letale, più elusiva dei vaccini, una tale rottura che non la nomino nemmeno: si sa tutto e non si sa niente. In Giappone le varianti si sono eliminate tra loro, pare, con risultati benedetti di virtuale, dico virtuale, scomparsa del virus nel collasso mutazionale. Ma non è sicuro perché i giapponesi, nonostante il professor Cacciari, si sono fortemente vaccinati e osservano scrupolosamente le norme antivirali, da sempre portano la mascherina e da sempre si inchinano a distanza tra loro. Forse la virtuale, dico virtuale, scomparsa della variante Delta dipende da questo e non dal collasso. Chissà.

Si sa tutto e non si sa niente. Le Borse sono credulone, crollano per via della sudafricana. Ma quante volte si sbagliano, e quanti sono diventati ricchi contando sulla credulità delle Borse. Il carattere sperimentale della scienza epidemiologica, che si avvale di modelli, statistiche, tracciamenti e ricerca biologica molecolare, è per essenza un metodo flessibile, che evolve, presenta sorprese, si autocontrolla. Enciclopedia Treccani, dunque. “Sperimentale, mètodo. Procedimento che si affermò nell’indagine scientifica a partire dagli inizi del 17° secolo. Consiste nel sottoporre le ipotesi scientifiche a procedure di controllo sperimentale, che servono a confermarle ( nel qual caso le ipotesi si trasformano in leggi scientifiche) o a confutarle”.

Il Covid, sotto Natale, come tante palline colorate appese all’albero

E’ un metodo induttivo, che parte dal caso particolare e cerca, dico cerca, di stabilire una costante o legge invariabilmente universale. Invece, sempre Treccani, la deduzione è “il processo logico nel quale, date certe premesse e certe regole che ne garantiscono la correttezza, una conclusione consegue come logicamente necessaria”. Due più due fa quattro, ma le varianti vanno studiate, sono la base di una ricerca sperimentale dalla quale si possono evincere alla fine ipotesi e anche leggi, ma alla fine di un percorso che in fondo, quanto al virus in circolazione, è appena cominciato. Quindi si sa molto, moltissimo, e si sa quasi niente. Si cerca, per lo più.

Eluderà i vaccini? Non si sa. Boh. Forse sì, forse no. Faranno altri vaccini idonei a contrastarla e in tempo utile a risparmiarci ulteriori disastri per la vita e l’economia? Probabilmente sì, ma probabilmente. Questione di sperimentazione. Dovremo ricominciare con i lockdown e le quarantene urbane? Chissà. Quel che è sicuro è che dobbiamo evitare il nostro collasso mutazionale, l’irruzione della sfiducia, appunto, dello sconforto, della paura irrazionale. Per ogni ipotesi o mezza ipotesi fin qui emersa quanto alle cause e agli sviluppi della pandemia, salvo l’utilità sociale accertata dei vaccini della mascherina e delle altre procedure igieniche di distanziamento, ruotano nell’aria altre ipotesi o mezze ipotesi, e da questo guazzabuglio emerge l’opinionismo maniacale del complotto e la coltivazione altrettanto maniacale della diffidenza. Siccome si sa molto ma alla fine si sa niente di definitivo, tutti pensano che si possa dire tutto. E’ un errore, bisogna scudarsi.

E allora la sola cosa che davvero si capisce, chi la vuole capire, è come ci si deve comportare, per sé e per gli altri: vaccinarsi, distanziarsi, mascherarsi, in generale darsi una calmata. La pazienza di accettare un’epoca virale è l’unico rimedio non fatalista e non nichilista, è appunto lo scudo, la ricerca della normalità nell’eccezione, che deriva dal sapere di non sapere, una saggezza superiore a ogni possibile panico.

Giuliano Ferrara, il Foglio Quotidiano

SI SA TUTTO E NON SI SA NIENTE

Chi vede altro lo mostri

Vent’anni dopo l’11 settembre. Al posto della rabbia e dell’orgoglio abbiamo scelto di avvilupparci in cumuli di retorica imbelle

Pubblico questo articolo apparso sul Foglio Quotidiano a firma di Giuliano Ferrara. I toni sono pessimistici, ma forse è solamente il realismo politico di una mente lucida ma inquieta, come spesso sono quelle dei vecchi. Il taglio del pezzo è insolitamente scabro, il linguaggio essenziale, i toni bruschi e sentenziosi, l’analisi su avvenimenti e anni fin troppo ampia per essere un ordinato mosaico. Cosa intenda Ferrara per ordine imperiale fondato sulla tecnologia non si sa. Ma il quadro che ne esce è suggestivo e inquietante. Quando Ferrara parla del mondo libero prosciugato dalla sua abbondanza sembra di sentire la voce di Galimberti e il suo mantra circa il tramonto dell’Occidente. Comunque sia, nessuno dei due avrà il tempo per vederlo, ma conviene riflettere sulle convulse vicende aperte dopo quel tragico settembre del 2001.

Questi vent’anni dall’ 11 settembre sono tra i peggiori vissuti dall’occidente, un viatico disperante al XXI secolo. Il Novecento fu tremendo, ma procedette infine e si concluse con la liberazione dai totalitarismi tutti in una gigantesca ondata di speranza. Ora il panorama è livido.

Giuliano Ferrara, giornalista e direttore del Foglio fino al 2015

Le bande jihadiste passano da Guantánamo al governo di Kabul dopo un’epopea vittoriosa, nel disdoro senza onore dei vinti. Le donne sono escluse dallo sport e segregate nell’istruzione, sepolte nella sharia. Se manifestano, sono frustate da teologi barbuti. I giornalisti d’opposizione battuti e torturati. Centoventimila persone in fretta e furia sono state sottratte alla vendetta dei virtuisti coranici, ma ce ne sono molte di più destinate a subirla. La ripresa del terrorismo internazionale è nell’incubatrice, dopo lo spettacolo di apertura all’aeroporto della capitale afghana. Negoziare con la barbarie è la nuova necessità per chi le ha aperto le porte abbandonando il campo e una generazione di amici.

La Cina in questi vent’anni ha fatto passi da gigante sulla strada del comunismo capitalista autoritario ed espansionista. A Hong Kong vanno in pezzi anche le reliquie di una lunga storia di democrazia postcoloniale, un paese due sistemi. Taiwan, e sono quasi cento milioni di abitanti, è sotto pressante minaccia. L’africa è largamente penetrata e irretita in un circuito cinese. L’intero arco del medio oriente allargato è in sfacelo, restano in piedi Israele e i suoi nemici giurati nucleari, oltre che le rovine della Siria, del Libano dei curdi mollati dopo la effimera campagna contro lo Stato islamico. Nel Mediterraneo fu breve e stolta guerra, quella sì, niente illusione di nation building, ora la Libia è mezza occupata da turchi e russi che si dividono le alleanze tribali del dopo Gheddafi. L’iran prenucleare alimenta le divisioni dell’occidente e intimidisce con il suo modello di Repubblica islamica matrice di terrore. Sauditi ed Emirati sono quello che sono sempre stati, alleati opportunisti di necessità e d’affari che covano in seno la serpe wahabita.

Torri Gemelle memorial

La Nato è diventata un’organizzazione buona per il coordinamento umanitario della fuga, e la Francia dichiara l’encefalogramma piatto di un pilastro dell’occidente alla mercé delle ambizioni di Erdogan e delle manipolazioni russe, tra veleni e ideologie neoautoritarie. La Crimea è di Putin. L’ucraina geme divisa e contesa, sbeffeggiata dal capo dei nuovi oligarchi e virtualmente abbandonata a sé stessa. Un pezzo d’europa è nelle mani di ideologie e pratiche dette democrature o democrazie illiberali. L’ubriacatura populista e il suo miglior amico, il mondo politicamente corretto, hanno fatto dell’america una esausta vittima illustre, passata da un demente golpista a un bravo tipo che si specializza nella rinuncia e nel piede di casa, con una torsione di sistema che ha annullato le grandi tradizioni dei repubblicani alla Reagan e dei democratici alla Truman, pezzi di una storia mai così lontana, dileguatasi negli ultimi due decenni.

Dopo il più grande attentato della storia dell’umanità, dopo la sfida orante e crudele contro il cuore dell’occidente e del suo modo di vita, al posto della rabbia e dell’orgoglio, al posto della costruzione di un nuovo ordine imperiale e di un primato democratico fondato su tecnologia, armi e denaro, abbiamo scelto di avvilupparci in cumuli di retorica imbelle sui diritti umani, litigando su qualche decina di migliaia di straccioni in viaggio verso il miraggio e facendo funerali ideali ai morti in mare. Pare che la democrazia non si possa esportare, ma tutto il resto è aperto all’importazione. Intanto smantelliamo le statue di Colombo e facciamo editing grottesco alla cultura di secoli, in nome del senso di colpa dell’occidente, e celebriamo, è la parola giusta, il processo agli assassini di Parigi e del Bataclan, aspettando il momento in cui avremo vergogna anche dello stato di diritto, eredità della filosofia bianca dei Lumi. Questo è lo stato delle cose nel mondo libero prosciugato dalla sua abbondanza. Chi vede altro, lo mostri.

CAPODANNO DA GIUSEPPI

CAPODANNO DA GIUSEPPI

Nella conversazione di Conte con il paese e i giornalisti si ritrova la solita commedia. Il tribuno dell’eloquio ha fatto la sua parte con il suo stile: sa di essere uno qualunque, e che in quello è la sua forza a suo modo virtuosa

Conte a Capodanno, che delizia. L’ho ascoltato per venti dei diecimila minuti di conversazione castro-andreottiana con il paese e i giornalisti, e quando qualcosa era “all’attenzione del governo” scattava una carezza a uno dei miei cani, quando qualche altra cosa era “nel segno della flessibilità”, ancora una carezza all’altro, era tutto un minimizzare ingrandendo e ingrandire minimizzando, finché all’attenzione di chi di dovere arrivava la prospettiva, in caso di maggioranza mancante, di una gita in parlamento delle sue, e qui tutto un ciap ciap e un pat pat al branco intero festaiolo e scodinzolante.

Giuseppe Conte. (AP Photo/Andrew Medichini, pool)

I literati viavenetisti seduti al caffè conversevole da mane a sera, quando i passanti li guardavano e prendevano posto a loro volta nella movida romana d’antan, dicevano sprezzanti “credono di essere noi”. Lui è come i passanti, ma non crede, è sicuro di essere uno di noi, gli avvocati dicono un quidam de populo. Sia lodato il magistrale dottor Zampetti (segretario generale al Quirinale, n.d.r) che se lo è inventato, proponendolo dietro le quinte del Quirinale per un governo assurdo, forse sapendo che alla fine ne sarebbe uscito un altro altrettanto surreale, cattivo il primo, entro certi limiti, buono il secondo, con gli stessi o altri limiti. E così è per la prosecuzione dell’esperimento utile, oppure per il terzo dei molti Giuseppi. Poiché spero vivamente che nella loro esperta conoscenza della politica italiana, e di quella parlamentare in genere, i miei compatrioti avranno decisamente capito che le tensioni più o meno vaccinali, e le liti su come essere spendaccioni, sono alla fine una cosa semplice e delicata, per niente pericolosa.

Giuliano Ferrara

Conte non ha una retorica, sarebbe troppo, ha un eloquio, come tutti gli avvocati di buona lena professionale. Basta ascoltarlo, anche in edizione abrégé, ridotto ai punti essenziali, per capire che cosa stia succedendo davvero. Renzi fa il suo mestiere, triangolando di volta in volta con l’opposizione e con il Pd, e finanche con qualche grillino, per limitare il potere apparentemente amministrativo dell’avvocato del popolo e delle élite. Lui intende bene, coglie l’antifona senza problemi di orecchio. Ci sono in ballo milioni di punture e miliardi di investimenti, non si può scherzare né sorvolare. E Giuseppi recepisce, annota, procede nell’adesione e nel contrasto imitativo, pantomimico, tipico della nostra tradizione politica. Dove le avrà imparate quelle cose, chissà. Ma le ha imparate bene.

Si comincia con la famosa cabina di regia, e con la famosissima governance del Next Generation Eu. La cabina, che una volta fu gabina, c’è e non c’è, ecco. Ovvio che ci sarà, vorrei vedere, ce lo chiede l’Europa, è un compito a casa, ma ci sarà ben dissimulata e rovesciata in una cabina ministeriale classica, con consulenti, con un salto in padella alla maniera delle tortillas. Quanto al Recovery fund, non si dica che Conte è soddisfatto del lavoro compiuto, troppi ostacoli, troppe imperfezioni, troppi rischi di fare tardi, anzi, è d’accordo con Renzi, manca un’anima politica al piano di investimenti in quintistilioni, e all’anima lui ci tiene come tutti, crisi o non crisi. Di qui alla verifica il passo è breve e ben argomentato, all’attenzione del governo, dei partiti e dell’opposizione, compresi eventualmente i responsabili.

Il Capodanno in casa Giuseppi è fatto di poco, e il presepe alla fine deve piacere anche a Nennillo (personaggio di Natale in casa Cupiello, ndr) figlio, ma senza la dolorosa appendice del decesso di papà. La commedia, riassunta ogni giorno nelle note politiche fervorose e nei retroscena gotici dei giornali, è quella solita, è il nostro modo proprio di affermare un’autorità che non lo è o di sancire una destituzione falsa di autorità per chi la esercita, proprio come ai tempi di democristiani sorridenti e lieti e del talento di Andreotti. Notevole che il dittatore sanitario abbia escluso saggiamente pro tempore l’insulsaggine dell’obbligo vaccinale, notevole il suo ottimismo in allerta, vistosa ma non troppo e non troppo minacciosa la sua pochette, il tribuno dell’eloquio ha fatto la sua parte con il suo stile, che è il massimo ottenibile nelle presenti condizioni, e bisogna farselo bastare con l’aggiunta del macellaio, che è una piccola bonanza per il cliente. Coloro che “credono di essere noi” sono serviti da uno che sa di essere qualunque, e che in quello è la sua forza a suo modo virtuosa.

Articolo di Giuliano Ferrara, il Foglio quotidiano

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