PARABOLE

PARABOLE

Devo tutto ai rom. Ora curo il disagio usando le parabole. Luca Mazzucchelli fa lo psicologo sul web: 50 milioni di visualizzazioni «In casa volavano i piatti, ma ho trasformato una ferita in una feritoia»

Youtuber Luca Mazzucchelli, 41 anni, psicologo attivo su YouTube. Sotto, nel tondo, lo scienziato americano Noam Chomsky, teorizzatore del principio della rana bollita

Parla per parabole: «I sei ciechi e l’elefante»; «La storia dell’aragosta che non voleva cambiare»; «L’uovo e il pulcino». In fatto di massime, si batte con Seneca. Non Lucio Anneo, maestro di retorica nell’antica Roma, bensì Federico, il grafico pubblicitario che quasi un secolo fa s’inventò di racchiudere frasi d’amore nell’incarto dei Baci Perugina. «È un rischio che ho deciso di correre», sorride Luca Mazzucchelli, psicologo e psicoterapeuta milanese. Qualche esempio? «L’errore è evitare l’errore»; «Fare e sbagliare è meglio di non fare»; «Controlla ciò che puoi, accetta tutto il resto»; «Se non ti stressa, non ti interessa».

Mazzucchelli dispensa questi lampi di saggezza su YouTube, Instagram e Facebook. Durata minima 2 minuti, massima 30, media 8. Ne ha già postati 1.200. Ogni mese ne aggiunge una ventina. I suoi canali social contano 600.000 iscritti e i suoi video hanno totalizzato 50 milioni di clic. Quando cominciò, nel 2012, i colleghi lo sommersero di lapidari commenti online, da «Vergogna!» a «Farai fallire la psicologia». Lui cercava i loro numeri di telefono e li chiamava per chiarirsi. Ha vinto la sfida: da sette anni dirige Psicologia Contemporanea, la prima rivista del ramo, fondata nel 1974. E ha trasformato una scienza nella sua industria: con Mindcenter controlla otto centri clinici in cui operano 15 psicoterapeuti; con Lmc produce contenuti per il web e videocorsi; con Mindwork ha creato il primo portale di consultazioni psicologiche a distanza. Parla per parabole. Ricorda qualcuno.

«Eppure non ho mai fatto il chierichetto. Da ragazzo ho frequentato per un paio di anni un oratorio vicino al Parco Sempione, ma solo per giocarvi a pallone e a biliardino. Lei si riferisce per caso alla parabola dei tre muratori?». Quella mi manca.

«A tre muratori chiedono: che state facendo? Il primo risponde: “Costruisco un muro”. Il secondo: “Costruisco una chiesa”. Il terzo: “Costruisco la casa del Signore”. Il primo ha un mestiere, il secondo una carriera, il terzo una vocazione. Morale: il lavoro deve metterti in contatto con gli altri e con scopi superiori». Si sente un surrogato del confessore?

«Lo pensava un mio zio, oggi defunto: “Perché vuoi fare lo psicologo? C’è già pieno di preti”. Ma io non do punizioni». Un Pater Ave Gloria che punizione è?

«Non detengo una verità. Ignoro che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato in assoluto. Aiuto le persone a scoprire ciò che è buono o cattivo per loro». La confessione non è una seduta psicoanalitica senza la parcella finale?

«Allora tanto varrebbe andare con una prostituta: paghi ed esci più leggero. Magari ti senti più sporco. Dal terapeuta è lo stesso: devi metterti a nudo». Perché ha scelto questa professione?

«Si dice che lo psicologo sia un guaritore ferito. È una metafora calzante». Dov’è rimasto ferito?

«In casa. Volava qualche piatto. I miei genitori si separarono. In prima elementare dovetti cambiare scuola e andare a vivere con mia madre in un’altra casa». Le è mancato suo padre?

«Per un bimbo dagli 8 anni in su il papà è importante. Mi è rimasta una ferita che si è trasformata in feritoia».

Cioè?

«Da fonte di dolore a punto di osservazione sul mondo. Ho imparato a scavare dentro di me, a vedere la complessità delle dinamiche di coppia». Avrà pensato: un giorno non dovrò far vivere ai miei figli questo incubo.

«Con due genitori che litigano tanto, ti crei sposato, la mappa ho capito degli tre errori cose. da Non evitare. cercare Da la persona giusta, ma diventa la persona giusta. Tifa per il partner, non darlo mai per scontato. Metti al primo posto i valori, non gli interessi comuni». Noto che ama enumerare i concetti.

«Ho imparato dalla Chiesa, la più efficace nella comunicazione: i 10 comandamenti, i 7 sacramenti, i 7 vizi capitali, le 4 virtù cardinali, le 3 virtù teologali…». I 7 segnali della fine di un rapporto.

«Quanto può dedicarmi?».

Una pagina. Ma sono circa 9.000 caratteri e 1.400 se ne vanno per gli spazi.

«Allora le dico solo il più importante: quando manca un progetto di futuro condiviso. Lo vedo nei depressi: non riescono a immaginare il domani». I 6 passi per rovinare la coppia.

«Mi limito a due. Criticare la persona. Pretendere che sia l’altro a cambiare».

Le 3 indicazioni da seguire nella scelta del partner che fa per te.

«Da dove nascono le aspettative sull’amore? Da musica, film e media, che condizionano le nostre attese sulla vita in generale. Se qualcuno ti mostra i suoi veri colori, non cercare di ridipingerlo».

Scusi, oggi il partner lo trovi su Tinder e lì pare che le indicazioni si riducano a due: seno marmoreo, coscia lunga.

«E, a occhio, nessuna delle due funziona. Conosco mia moglie da 15 anni. Era la miglior amica della fidanzata del mio miglior amico. Ci siamo incontrati ascoltando “Ti scatterò una foto” di Tiziano Ferro e “Ho messo via” di Ligabue, a una festa in un locale che si chiamava Honky Tonks, dove mi esercitavo nei giochi di micromagia. Ma è passato un anno prima che nascesse una relazione». In amore la fedeltà è un valore?

«Certo, anche se per alcuni non lo è».

Che cosa rende intollerabile l’infedeltà? Il rapporto sessuale con un estraneo?

«Me lo ha insegnato il filosofo Umberto Galimberti, mentre in auto andavamo insieme a tenere una conferenza a Piombino. L’adulterio non è contro l’uno, ma contro il due. Non s’inganna solo l’altro: è il progetto di coppia che viene tradito». Chi è stato il suo maestro?

«Ne ho avuti tanti, a cominciare da Virginia Gardenghi, un’educatrice, in un campo rom dell’hinterland milanese. Al mio esordio ci ho lavorato per quattro anni. Anche se la cooperativa sociale mi dava 400 euro al mese, sono diventato ricco. Fra quella gente, per metà nomadi di origine croata e per metà calabresi affiliati alla ’ndrangheta, mi avevano affidato i bambini fino ai 12 anni, perché a 13 finivano al Beccaria, il carcere minorile. Lì ho imparato a stare nelle emozioni spiacevoli, che noi chiamiamo negative ma che tali non sono. Ho compreso che nella paura puoi trovare il coraggio». Nell’Italia bellica e postbellica quanti saranno stati gli psicologi, lei lo sa?

«No. Oggi in Italia siamo 110.000».

Umberto Galimberti

Lei ha avuto bisogno dello psicologo?

«Per due anni sono andato da Primo Gelati, a Legnano. È una scelta consigliata per chi vuol fare lo psicoterapeuta». Ma le avanza tempo per i pazienti?

«Poco. Ne vedo alcuni, quelli storici, nel mio studio vicino all’Arco della Pace, incluso un allenatore di calcio che mi chiede come motivare i suoi giocatori». Di che soffrono, principalmente?

«Di ansia. Di problematiche relazionali con il coniuge e i colleghi di lavoro. Il disagio, che in passato faticava a emergere, con la pandemia è esploso. Non riescono a nasconderlo sotto il tappeto». E lei li cura con le parabole.

«Anche. Conosce l’apologo dei due cani? Una signora li vede entrare a turno in una stanza. Il primo esce felice, il secondo ringhioso. La donna pensa: che accade lì dentro? Apre la porta e trova 100 specchi. Ecco, la vita è uno specchio». Come capisce che sono guariti?

«Me lo dicono: “Vorrei provare a fare due passi da solo”. Lo vedo: cessano i sintomi, cambiano i rapporti con i familiari. Però resta la fragilità di fondo». Lei ha regole per tutto. Ma funzionano in una società sempre più sregolata?

«Nessuna è universale. Alle regole preferisco i valori. Dobbiamo contrapporre il cuore alla dittatura della tecnica. Dove la società non arriva, prenditi tu la responsabilità di migliorarla. Non mi preoccupa il lavoro che manca: i miei figli se lo inventeranno. Ma che pianeta troveranno? Ora le è chiaro perché faccio piantare 20 alberi da Edenproject.com per ogni Bello. «Ognuno videocorso Ma di insegue quali che valori vendiamo?». i propri. sta Chi parlando? i soldi, chi Il servizio: la salute, mettere chi la giustizia. le mie competenze Io ne ho tre. a disposizione moglie e i miei degli figli, altri. ma La anche famiglia: il mio mia team e imprenditoriale. professionale. La Capisco crescita: che personale è raro sentirlo affermare, e forse non sta bene dirlo, però sono soddisfatto e felice». Buon per lei. Non tutti quelli che la seguono su Internet possono arrivarci.

«Conosce la storia della rana bollita?».

Noam Chomsky

Non è di Noam Chomsky? Citata da Al Gore, Paul Krugman e Piero Ostellino.

«Sì. I ricercatori gettarono una rana nell’acqua bollente: l’anfibio, scottato, schizzò via e si salvò. Misero un’altra rana in una pentola di acqua fredda, con una fiamma leggera accesa sotto. Quando la temperatura si fece insopportabile, l’animale, ormai intorpidito, non ebbe più la forza per balzare fuori e morì bollito». Test crudelissimo, ammesso sia vero.

«È la nostra storia. Finiamo per abituarci a situazioni inaccettabili, a relazioni tossiche, a notizie sempre peggiori, alle angherie del capo o dei colleghi. Un centigrado per volta, coscienza e volontà si assopiscono. Serve un colpo di reni». L’ho sentita dire: «Se sei il primo della classe, cambia classe». Che significa?

«Per diventare migliori, dobbiamo confrontarci con chi ne sa più di noi».

Vede ancora i suoi genitori?

«Mi sono goduto la finale degli Europei con mio padre. La mamma l’ho incontrata dieci giorni fa. Ora è in Adriatico. Ha la patente nautica e un’energia inesauribile. La chiamiamo Duracell». Del suo successo sul web che dicono?

«Sono un po’ increduli. Come me».

Se dovesse assistere psicologicamente una persona e fosse muto, che farebbe? «La abbraccerei».

Le aspettative sull’amore dettate da musica, film e mass media Se qualcuno ti mostra i suoi veri colori, non cercare di ridipingerlo

Articolo di Stefano Lorenzetto per Il Corriere della Sera

DIALOGO CON FRATELLO VIRUS

DIALOGO CON FRATELLO VIRUS

ASPETTANDO IL VACCINO SENTIAMO LA VOCE DEL POVERELLO CHE DIALOCA CON FRATELLO LUPO; PER QUESTE FESTE RILEGGIAMO PAPA FRANCESCO IN VERSIONE ECOLOGISTA E CONVINCIAMOCI CHE POSSIAMO ESSERE VERAMENTE FRATELLI TUTTI.

In una recente intervista su Radio 3 è stato chiesto a Chiara Frugoni, esperta medievalista e storica della Chiesa, in particolare della figura di San Francesco, se, vivendo il Santo nei nostri giorni, egli avrebbe chiamato fratello il virus Covid.

La storica ha esitato nella risposta, poi ha detto incerta che no, forse San Francesco non avrebbe considerato fratello il virus, volendolo personificare.

Lo spunto veniva dal racconto del fratello lupo di Gubbio, che il Santo avrebbe ammansito e riconciliato con gli abitanti di quella città. Ma c’è qualche similitudine fra il Covid e il lupo di quel fioretto francescano?

Così come il lupo scorrazzava per la città, costringendo gli abitanti spaventati a stare chiusi in casa, allo stesso modo fa oggi il virus, costringendoci al lookdown.

La stessa paura che noi abbiano del virus avevano allora i cittadini di Gubbio.  Angosciati loro come oggi angosciati sono molti di noi.

Allora intervenne provvidenzialmente il Santo, oggi aspettiamo tutti trepidanti che intervenga il Vaccino.

Certo, noi non possiamo parlare al virus come Francesco fece col lupo, con queste parole. “Vieni qui frate lupo, io ti comando dalla parte di Cristo che tu non facci male né a me né a persona…Frate lupo, tu fai molti danni in queste parti, e hai fatti grandi malifici, guastando e uccidendo le creature di Dio sanza sua licenza…ma hai avuto ardire d’uccidere uomini fatti alla immagine di Dio; per la qual cosa tu se’ degno delle forche come ladro e omicida pessimo.” (Cronaca san Verecondo).

Purtroppo per noi la questione è più complicata. Abbiamo per fortuna un altro Francesco, uomo eminentissimo e Papa assai amato, che parla ai potenti delle terra, ma, sembrerebbe, con meno fortuna di Francesco col lupo.

A Gubbio, circa 800 anni fa, si saranno chiesti: ma perché è toccata a noi questa bestia feroce? Lo stesso facciamo oggi noi. Allora quella bestia spaventosa sarà apparsa il giusto castigo per i tanti peccati. Oggi per noi, uomini pratici, l’obiettivo è uno solo: scoprire il mandante, non potendo nemmeno vedere l’arma con cui colpisce l’esecutore.

Qui le cose si complicano, perché la ricerca del mandante ci porta, secondo parecchi scienziati, economisti, filosofi della scienza, a individuare a colpo sicuro il colpevole: noi stessi. Chi è causa del suo mal pianga se stesso, dice il proverbio. Il mercato del pesce di Wuhan è l’atto primigenio, la genesi di una storia che pare destinata a scrivere il secolo XXI.

La domanda allora diventa: se il vaccino ci libera e ci protegge, chi ci proteggerà da noi stessi?

Il documento profetico che anticipa questa storia potrebbe essere, a rigore, per analogia tematica e cronologica, l’enciclica “ecologica” di Papa Francesco Laudato si’, in cui, ispirato da San Francesco, il Papa denuncia i mali della terra.

Nell’enciclica, sulla quale finora poco si è riflettuto, il Papa fa un’analisi dettagliata dei mali della economia globalizzata, del consumismo, delle diseguaglianze, della cecità che ha portato l’uomo a credersi signore e padrone della terra per sfruttarla oltre il lecito e il possibile. Ma dà anche una serie di risposte, alcune prevedibili, altre che suscitano scetticismo e la cui realizzazione appare quanto meno problematica.

Nel 1950 don Primo Mazzolari, proprio prendendo spunto dal fioretto di San Francesco e il lupo di Gubbio, affermava: «Solo chi ama il lupo può parlare al lupo. Noi cristiani ci siamo dimenticati di una cosa: gli uomini si amano come sono, non come dovrebbero essere».

Forse la forza di San Francesco è stata semplicemente questa: amare tutte le cose, al di là della fratellanza, intesa come appartenenza alla stessa specie, perché solo così si potranno avere i giusti rapporti fra gli uomini e fra quest’ultimi e le cose del creato.

Clara, una monaca clarissa, ha scritto: Il “Fioretto” di Francesco è una perla di saggezza, di realismo, di umanità, di vangelo: esso ci mostra che la fecondità delle nostre relazioni dipende dalla nostra disponibilità a farci prossimi, dalla nostra apertura mentale e dalla nostra convinzione che l’altro, anche se diverso, è innanzitutto un fratello che mi appartiene e del quale io sono chiamato a renderne conto; parimenti anche le condizioni più pericolose e sofferte della vita possono trasformarsi, nel nome del Signore, in momenti di grande grazia e ciò che ci appariva cattivo può rivelarsi amico e sostegno nel cammino della vita”.   (tratto dal sito www.santalessandro.org)

Amare gli uomini e le cose così come sono non vuole dire rassegnata accettazione, anzi! San Francesco proprio perché accetta il lupo riesce ad ammansirlo, a cambiarlo, a farlo accettare degli eugubini, pur nella sua diversità.

Si apre, a questo punto, una dimensione che non è più solo ecologica o religiosa, ma politica.

Ha scritto Padre Pietro Maranesi, docente alla scuola superiore di religione in Assisi: “Se la fede non ha uno sguardo laico sui processi politici della polis, non ha molto significato. Se il nostro sguardo fosse esclusivamente rivolto a Dio, la fede non avrebbe molto senso. (corsivo mio). L’esperienza della fede ci deve permettere di diventare più umani, di fare progetti per la nostra società, per l’umanità, di avvicinarci. Dialogare, mediare, fare della fede uno strumento per il confronto è la base della crescita. Come dice Papa Francesco: dialogare con tutti è ciò che fa la differenza”.

Padre Pietro Maranesi

Circa la natura di tale antropologia relazionale è ancora la parola di Papa Francesco a illuminarci la strada, con ammirevole coerenza e semplicità.

Il cuore dell’ultima sua enciclica Fratelli tutti, sfrondata da tutti i richiami dottrinali, è questo: la coscienza della comune paternità in Dio. Se siamo suoi figli non possiamo che dirci e sentirci fratelli.

La fraternità, come atto di ri-conoscenza e reciproca accettazione è il primo atto politico. Le società, i modelli di governo, di economia e tutte le altre regole che disciplinano i rapporti fra Stato, cittadini e persone sono conseguenti e vengono dopo, come fatti meramente strumentali.

Il concetto di fraternità esposto da Papa Francesco è ricco di spunti per una “chiesa in uscita missionaria”, così come decritta nel suo decalogo. Ma “odorando [essa] di popolo e di strada” questo concetto apre prospettive per un dialogo vero, come mai forse la Chiesa ha fatto nella sua storia millenaria.

Come padre Gian Luigi Pasquale sottolinea nel suo commento a Fratelli tutti, (vitaconsacrata n. 1/2021) la fratellanza di Papa Francesco non è autarchica, autosufficiente. Essa si sostanzia nel dialogo alla pari con tutti “così come siamo”, che è anche ricerca non dogmatica per trovare nella nostra coscienza e come fratelli quella verità trascendente sulla quale si fonda la fratellanza stessa.

Padre Gian Luigi Pasquale

Come dice il Papa, senza la volontà politica di fratellanza la libertà della persona si svilisce; l’uguaglianza se affermata in astratto “fra i soci” non è mai tale, poiché essa va consapevolmente e deliberatamente coltivata.

Solo il comune riconoscimento di tale verità potrà consentire agli uomini “così come sono” di attuare nel mondo la giusta contemperanza fra libertà e uguaglianza, grazie all’equilibrio che il considerarsi fratelli potrà garantire.

Scrive il Papa nella sua enciclica (n. 180 di Fratelli tutti) che “riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie”. L’amore diventa così “amore politico”, dando vita a processi di fraternità e di giustizia, entrando “nel campo della più vasta carità, della carità politica”.. che è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune”.

Un altro pensatore, laico, Umberto Galimberti (1942), riflettendo sul nichilismo e i giovani (L’ospite inquietante, Feltrinelli 2009, pag. 30), rifiutando come Papa Francesco l’utopia modernista dell’onnipotenza umana, afferma che la visione ottimistica secondo la quale la storia dell’umanità sarebbe inevitabilmente una storia di progresso e quindi di salvezza è crollata. “Dio è davvero morto e i suoi eredi (scienza, utopia, rivoluzione) hanno mancato la promessa”. Conclude Galimberti: “ La strada da seguire è un’altra: quella della costruzione di legami affettivi e di solidarietà capaci di spingere le persone fuori dall’isolamento nella quale la società tende a rinchiuderle, in nome degli ideali individualistici”. E’ la fratellanza su cui richiama l’attenzione il Papa. 

Umberto Galimberti

Queste parole, se da un lato incoraggiano gli uomini di buona volontà, dall’altro ci danno la misura della decadenza dei tempi, dello scadere dell’etica pubblica, di quanto sia indifferibile ed urgente “pensare e generare un mondo aperto”, un mondo inedito.

C’è un libro che mi ha influenzato molto e che ancora rileggo volentieri, fra mille sottolineature: La terra del tramonto di Ernesto Balducci (1922-1992), padre scolopio che ebbi piacere di conoscere, amico di La Pira, Davide Maria Turoldo e don Milani.

Balducci teorizza la figura dell’uomo inedito, cioè di colui in cui si realizzeranno tutte le potenzialità nascoste, inespresse benché già presenti, nell’uomo d’oggi.

Padre Ernesto Balducci

“Il tempo dell’uomo inedito è il futuro, cioè quel momento in cui passeranno all’atto le possibilità fino a oggi rimaste escluse dal cerchio del possibile storico.  Il futuro dell’uomo inedito è il tempo che ci viene incontro portando con sé, come possibilità oggettive, nuovi modi di essere rispondenti alle possibilità soggettive latenti in noi.. Ci manca- ed è questo il nostro vero dramma- una mappa delle possibilità umane, perché siamo imprigionati in un’immagine univoca di uomo costruita e imposta, dalla cultura in cui siamo cresciuti” (o.c. edizioni ECP,p. 55).

Forse la mappa “delle possibilità umane” ora l’abbiamo, grazie a Papa Francesco; converrebbe tentare di costruire quest’uomo inedito, tutti insieme. L’avvento del regno di Dio, più che in cielo, dobbiamo cominciare a cercarlo dentro di noi.

IL CONTENUTO DELLA MEMORIA

IL CONTENUTO DELLA MEMORIA

Scrive Jacques-Bénigne Bossuet: – È una singolare debolezza dello spirito umano il fatto che la morte non gli sia mai presente, per quanto gli si metta in mostra da ogni parte e in mille modi. I mortali si preoccupano di seppellire il pensiero della morte con la stessa cura con cui sotterrano i morti -. In un saggio del 1915 dedicato a una riflessione sulla morte Freud dice che – nessuno di noi crede fino in fondo alla propria morte. Anche quando ci raffiguriamo come andrà dopo la morte, chi ci piangerà ecc., possiamo notare che noi siamo ancora lì in qualità di spettatori -. A riprova, Freud cita la dichiarazione di un suo paziente che, riferendosi alla propria moglie, afferma: – Se uno di noi due muore, io mi trasferisco a Parigi -. Dello stesso parere è Heidegger là dove scrive che: – Ogni volta che diciamo ‘si muore’ diffondiamo la persuasione che la morte riguarda il Si anonimo, sotteso al quale c’è la convinzione ‘non sono io’. Infatti il Si anonimo è nessuno -. Dunque la nostra psiche non sa pensare la propria morte. Sappiamo che si muore, ma non riusciamo a interiorizzare questo pensiero e a farlo nostro come qualcosa che riguarda proprio noi.

Umberto Galimberti

Anche in presenza di gravi malattie, il cui esito infausto spesso è noto allo stesso paziente, una sorta di pensieri ingannevoli e una danza di cieche speranze distraggono la mente, che, pur sapendo, è incapace di iscrivere la propria morte nell’ambito del proprio vissuto. Anche l’angoscia di morte, spesso dipinta sul volto di chi è nelle prossimità di questo ultimo passo, non riguarda propriamente la morte, ma la perdita degli amori di cui si è nutrita la sua vita. Questa è l’angoscia di morte. Il suo tema è l’amore. Ma proprio perché la morte è così incatenata, intrecciata e inanellata all’amore, questo non si estingue con la morte della persona amata. E non il ricordo, ma la persistenza di questo amore è la vera eternità concessa agli uomini, ben segnalata da Sartre che in proposito scrive: – Essendo morta la sua vita, solo la memoria dell’altro può impedire che si avvizzisca tagliando tutti i suoi ormeggi col presente. La caratteristica di una vita morta è di essere una vita di cui l’altro diventa il guardiano -. Il contenuto profondo di questa memoria si chiama amore, che permane anche in assenza dell’altro perché, come non cessa di ripetere Emanuele Severino: – La presenza è sempre, e non coincide con l’apparire e lo sparire -. Quando non parliamo più con chi ci ha lasciato per non incontrare il suo silenzio, rischiamo di far tacere quello che noi siamo diventati grazie all’amore che abbiamo dato e ricevuto dall’altro. E così, separandoci da quella parte di noi che gli corrispondeva, noi lo facciamo semplicemente ri-morire. In questo modo, come scrive Paul Ricoeur, – anticipiamo la nostra futura morte come la possibile non risposta a tutte le parole di tutti gli uomini -, diventando così infedeli a quella caratteristica tipica della condizione umana, per cui io non sono solo io, ma anche un altro per gli altri. Qui si annida segretamente un’infedeltà tragica che fa impallidire tutti i futili tradimenti della vita. Non è la morte, infatti, a estinguere l’amore, ma la nostra rimozione che vuol dimenticare tutto ciò che quell’amore in noi ha generato, affidandosi a quel malfamato luogo comune, secondo il quale il tempo porta rimedio. Nel tempo c’è solo infedeltà. Solo nell’amore c’è eternità. E non dobbiamo dare al tempo il diritto di seppellire l’amore che ancora ci nutre. Pur sapendo, come scriveva Pirandello, che – i vivi credono di piangere i loro morti e invece piangono una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati -. Questo è il dolore. Ma si è mai visto un amore che non si nutre anche di dolore? ”

Umberto Galimberti, La Repubblica delle donne, 2009

LA SOLITUDINE

LA SOLITUDINE

 

Lettera di un lettore

La paura della solitudine è una brutta bestia, perché ci rende estremamente fragili e dipendenti dagli altri. Può arrivare, in certi casi, a farci accontentare del primo rapporto che ci capita tra le mani. Anche dei rapporti di cui non siamo soddisfatti, né tantomeno contenti. Perfino dei rapporti che ci fanno male. La paura della solitudine ci rende poco esigenti nel selezionare le nostre relazioni. Quindi esposti ai ricatti affettivi.

Cosa che non ci aiuta certo a crescere, ad evolvere positivamente, ad affermare le nostre potenzialità. Pier Paolo Pasolini un giorno ebbe a dire: «La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la mia solitudine, che è la mia debolezza». Cosa voleva dire? A mio avviso questo: l’indipendenza è una forza, ma presuppone la capacità, il coraggio di affrontare la solitudine. E questa non è una situazione comoda, facile da reggere, Perché fa emergere tutte le nostre debolezze.

Giovanni Lamagna

 

Risposta di Umberto Galimberti

Umberto Galimberti

Se «l’ uomo è un animale sociale», come ci ricorda Aristotele, la solitudine è la sconfitta della condizione umana, di cui si accorse anche il Dio del libro della Genesi (2,12) che, dopo aver creato Adamo, disse: «Non è bene che l’uomo sia solo». Questa è anche la ragione per cui quando il bambino di pochi mesi incrocia lo sguardo della madre, sorride. La sua gioia è nella fuoriuscita dalla solitudine, nella quale non potrebbe in alcun modo sopravvivere.

La solitudine non tarda a innescare vissuti depressivi e, come tutti sappiamo, la depressione abbassa le difese del sistema immunitario e ci espone con più facilità alle malattie. Ma oltre alle malattie fisiche, la solitudine ci induce a rimuginare senza sosta quelle idee negative che potrebbero attenuarsi o addirittura sciogliersi se avessimo la possibilità di comunicarle a qualcuno.

Chi di noi non ha mai sperimentato che, quando ci assale un dolore, la prima cosa che facciamo è cercare qualcuno a cui comunicarlo, onde poterlo attenuare grazie a qualche parola di conforto. Oggi evitiamo anche di comunicare il dolore, perché temiamo che dopo gli amici, anche se non ci evitano, certo diradino la loro presenza per non essere annoiati dal nostro lamento. E così il dolore, al pari della povertà, tende a nascondersi, aggravando in tal modo la condizione di solitudine che, a questo punto, diventa la nostra tomba.

I più esposti alla solitudine sono a mio parere i giovani e i vecchi. I primi perché hanno come interlocutori il loro telefonino e tutti quegli strumenti ironicamente definiti “social”, perché non possiamo chiamare “socializzato” un uomo solo davanti allo schermo del suo computer.

Se poi su questo comportamento abbiamo ancora qualche dubbio, dal Giappone e dalla Corea del sud ci informano che la prima causa di mortalità giovanile è rappresentata dall’ Hikikomori, sindrome che descrive quegli adolescenti che vivono reclusi nella loro casa o nella loro stanza, senza alcun contatto con l’esterno, neppure con i familiari (che provvedono alle loro necessità alimentari e fisiologiche), sempre attaccati al computer. Dopo un certo periodo si suicidano. Il fenomeno comincia a diffondersi anche in America e in Europa.

Un’opera di Bansky, uno dei più famosi street-art

Le persone anziane sono naturalmente le più esposte alla solitudine, anche se non sono prive di assistenza da parte di figli, nipoti o istituzioni sociali o religiose. Ben venga l’assistenza e mi auguro che il Ministero della Solitudine che la premier inglese Teresa May ha intenzione di istituire, non si risolva in un Ministero di Assistenza. Perché la solitudine è qualcosa di più radicale.

È l’esperienza della propria insignificanza sociale quando hai l’ impressione di non interessare a nessuno, e altro non raccogli se non un gesto di gentilezza in questa società, dove le persone passano vicine al prossimo come si passa vicino ai muri.

In una simile condizione nessuno ti vede e quindi nessuno ti guarda, per cui in un certo senso sono da invidiare quelle persone di fede che si sanno guardate dall’occhio di Dio, che sarà anche un occhio che giudica, ma almeno da qualche parte c’è qualcuno che ti guarda. E con quello sguardo ti sottrae all’abisso della solitudine, che diventa tragica quando in una coppia uno dei due se ne va e ti lascia solo al mondo, perché nessuno più ti restituisce quello che con lui o con lei hai condiviso.

Ma soprattutto – e questo è l’ aspetto più tremendo – hai perso il testimone della tua vita perché, consapevoli o meno, tutte le cose che nella vita facciamo, le facciamo perché uno sguardo le accoglie e le testimonia. Quando se ne va il testimone si perde anche la motivazione, l’intensità, la voglia che sono gli ingredienti della vita stessa. E qui la solitudine ti si offre in tutta la sua abissalità. E non c’ è parola che possa lenirla.

Umberto Galimberti è un filosofo, sociologo, psicoanalista e accademico italiano, anche giornalista de La Repubblica

In copertina un quadro di Edward Hopper (+1967), pittore statunitense, famoso per le numerose scene di solitudine dei suoi lavori. 

 

Si fa presto a dire plagio.

Si fa presto a dire plagio.

Si fa presto a dire plagio! Parola antichissima se già Marziale ne accusava un poetastro suo contemporaneo. Cancellato il plagio come figura di reato (asservire, soggiogare), dopo una sentenza della Corte Costituzionale del lontano 1981, resta il significato corrente di scopiazzatura. Fra gli artisti e i letterati era pratica consueta, una sorte di ibridazione feconda per ogni avventuriero de la plume, tollerata da ogni despota appena illuminato. Poi con il dritto di autore e il sindacato cambiarono le cose: si preferì il vil denaro e la tignosa rivendicazione, alla fama per clonazione, alla celebrità anonima. E siamo ai nostri giorni, in cui continuiamo a copiare, ma ce ne vergogniamo; in cui, con un po’ di faccia tosta, siamo pure premiati; in cui, oltre al talento, sembra che abbiamo smarrita la strada dell’umiltà di riconoscerci “nani sulle spalle di giganti” (lo metto fra virgolette per non cadere nel plagio….di Ortega y Gasset, che lo copiò da Newton, che plagiò Bernardo di Charthes, che copiò da Prisciano, che….)   Ma sul plagio ecco un bel articolo di Luigi Mascheroni. 

L'autore, giornalista Luigi Mascheroni

L’autore, giornalista Luigi Mascheroni

“Si può plagiare per gioco, per denaro, per amore, per disperazione, per necessità. Esistono la clonazione di idee, il plagio volontario (il tipico copia-e-incolla), il plagio psichico, il plagio somatico (l’asinello del cartoon Donkey Xote ispirato a Cervantes e troppo simile nelle fattezze al Ciuchino di Shrek), il plagio colto (prediletto dai citazionisti), il plagio «a mia insaputa» («Abitualmente lavoro prendendo appunti qua e là da altri libri; poi capita che riprendo in mano queste annotazioni e non ricordo più se sono mie o no, e quindi le copio senza che me ne accorga…») e il plagio di chi soffre di criptomnesia, una particolare alterazione della memoria per cui un ricordo – una trama, una battuta, una frase – può riaffiorare in noi come se fosse una creazione personale. Esempi? Montale orecchiò – non molto bene – dai Frammenti lirici di Clemente Rebora e per certe altre cose da Sandro Penna.

Il poeta Eugenio Montale

Il poeta Eugenio Montale

E Melania Mazzucco nel romanzo Vita, premio Strega 2003, senza accorgersene (?) ha riportato pagine intere di Guerra e pace di Tolstoj. «Scrivere significa togliere le virgolette», insegna Roland Barthes. E probabilmente si riferiva a virgolette che aprono e chiudono frasi scritte da altri.

E, stando fra gli accademici, si parva licet, Gianni Vattimo, anni fa, per difendere un collega filosofo particolarmente pigro dal punto di vista dell’originalità del pensiero, ma infaticabile copista di idee altrui (Umberto Galimberti), sostenne che prendere qua e là una frasetta non significa copiare – filosofare è un po’ plagiare – e che, comunque, non è un vizio solo dei filosofi. E per fare un esempio, tirò con nonchalance una legnata che demolì un totem nazionale: «Una volta, il mio amico Gianpiero Cavaglià, quando uscì Danubio di Claudio Magris, mi disse: “Guarda, tutto copiato dai Baedeker”…».

Umberto Galimberti

Il filosofo Umberto Galimberti

A proposito di Baedeker. C’è chi copiò per pigrizia, come Edmondo De Amicis. Quando, nel 1871, asceso al trono spagnolo il principe italiano Amedeo Ferdinando Maria di Savoia Aosta, il solerte Edmondo decide di concedersi un viaggio alla volta della Spagna, lo fa con sotto il braccio il Voyage en Espagne di Théophile Gautier, del 1843. E dopo un veloce tour di pochi mesi, appena tornato in Italia, scodella un reportage che fa pubblicare su La Nazione, e poi subito in volume col semplice titolo Spagna. Un instant book mediocre, a detta dei critici, che pure ebbe una fortuna editoriale incredibile. E sì che intere parti (la corrida, la descrizione dell’Escorial, la storia della moschea di Cordova, quella della cattedrale di Siviglia eccetera eccetera) sono la traduzione let-te-ra-le del libro di Gautier. Senza Cuore. Emilio Salgari invece fu un insospettabile copiatore per necessità, condannato post mortem dal Tribunale delle Lettere.

Ann Lawson Lucas, italianista dell’università di Hull, in Gran Bretagna, in un saggio del 2000 dimostrò che due degli undici romanzi pubblicati sotto pseudonimo dal padre di Sandokan e del Corsaro Nero sono plagi di semi-sconosciuti autori dell’Ottocento di lingua inglese. Per scrivere Le caverne dei diamanti, apparso nel 1899, lo scrittore veronese ricalcò pedissequamente il romanzo Le miniere di Re Salomone dell’inglese Henry Rider Haggard, del 1885, e per farlo si servì molto probabilmente di una traduzione francese del libro che uscì a Parigi nel 1888. Per il romanzo Avventure fra le pelli-rosse (1900), Salgari copiò quasi per intero (alcuni episodi sono omessi o alterati, qualche nome cambiato e le trame secondarie diverse…) il romanzo Nick of the Woods or the Jibbenainonasay di Robert Montgomery Bird, uscito nel 1837. L’autore del Corsaro Nero, però – sottolinea a mo’ di giustificazione postuma la studiosa che ha scoperto i plagi – copiò per necessità: aveva bisogno di denaro per assistere la moglie sofferente di crisi nervose. E ciò basti a salvarlo dalla damnatio memoriae. Poi c’è chi, invece, copiò per urgenza di curriculum, così da poter andare in cattedra più velocemente, come fece il futuro premio Nobel Luigi Pirandello. Il quale nel 1908 aveva già pubblicato Il fu Mattia Pascal ma si trovava in una situazione economica tutt’altro che tranquilla. Aspirava a una cattedra di ordinario alla facoltà di Magistero, dove già insegnava, ed era alla ricerca affannosa di titoli da presentare al concorso. Nacque così, alquanto abborracciato, il saggio L’umorismo, apparso quell’anno per le edizioni Carabba. Bene, un po’ per la fretta, un po’ forse per un certo snobismo intellettuale, il saggio fu imbastito con una marea di pagine rubate a man bassa. Nel 2009 l’italianista Daniela Marcheschi denunciò nel lavoro di Pirandello un’infinità di «prestiti» non dichiarati: da Alfred Binet, Gabriel Séailles, Gaetano Negri e Giovanni Marchesini. E intere pagine scopiazzate alla bell’e meglio da opere più divulgative.

Il poeta Giuseppe Ungaretti

Il poeta Giuseppe Ungaretti

Chi invece copiò per amore, e non si sa se è peggio, fu Giuseppe Ungaretti, il quale fece le cose in grande: plagiò addirittura James Joyce, ma almeno per conquistare una ragazza bellissima (così riferiscono le cronache). Nel 1966, a 78 anni, l’autore de La terra promessa a San Paolo del Brasile conosce Bruna Bianco, italiana, poetessa, ventiseienne. Con lei ha per qualche anno uno scambio intensissimo di lettere e versi, ma niente di fisico, almeno sembra. E per lei ruba una lirica di Joyce: «Ora dormi, cuore inquieto,/ Ora dormi, su, dormi…», recita una delle nove liriche scritte nel 1966 (e poi pubblicate in volume, ecco il guaio…); «Ora dormi, dormi,/ Cuore inquieto!…», suona la XXXIV lirica di Musica da camera di Joyce (che è del 1907, mentre la prima traduzione italiana è del ’43). Analogie, ricordi, somiglianze? O plagio? Ungaretti conosce benissimo l’inglese. Ha tradotto Shakespeare e Blake. Ha letto le poesie dell’irlandese, forse anche in edizione italiana. Poi c’è chi ha copiato «per sbaglio». Corrado Augias, volto tv della cultura pop e firma notissima di Repubblica, nel maggio 2009, nel momento di massima ascesa mediatica del saggio scritto a quattro mani col teologo Vito Mancuso, Disputa su Dio e dintorni (Mondadori), è travolto dalla polemica. Qualcuno scopre che la pagina della Disputa che ospita le conclusioni di Augias, un passo fondamentale che tira le somme di tutte le riflessioni precedenti, è identica alla pagina 14 dell’edizione italiana del saggio del celebre biologo Edward Osborne Wilson La creazione (uscito da Adelphi nel 2008). La stampa si butta sulla polemica.

Corrado Augias, giornalista e scrittore

Corrado Augias, giornalista e scrittore

 

Alla fine Augias, col consueto aplomb, ammette l’errore, un mea culpa sincero: non ha letto il saggio di Wilson, ha pescato il brano tra le fonti anonime di internet «prestando poca attenzione alla fonte di quel passaggio in fase di scrittura» – ma noi ipotizziamo che la colpa sia di un ghostwriter o di un ragazzo di bottega – e assicura che nelle successive edizioni sarà dichiarata la citazione… E in effetti, il libro di Wilson non compariva neppure nella bibliografia, dove, invece, c’è spazio per i titoli «filosofici» di Eugenio Scalfari, fondatore e direttore in pectore del quotidiano di entrambi gli autori. Dal plagio alla piaggeria.”

 

Luigi Mascheroni per “il Giornale” 11.5.2015

 

Contact Us