PAOLONE SOTTO IL VESUVIO

PAOLONE SOTTO IL VESUVIO

GIUSTO UN ANNO FA MORIVA INASPETTATAMENTE PAOLO ISOTTA, MUSICISTA COLTO, RAFFINATO, CRITICO SEVERO, APPASSIONATO NEGLI ELOGI QUANTO SPIETATO NELLE STRONCATURE. SCRIVEVA CON UNO STILE INCONFONDIBILE, RICERCATO, SORRETTO DA UNA ARGUZIA TUTTA PARTENOPEA, CON UNA ERUDIZIONE MAI FINE A SE STESSA. FINITO IL NOVECENTO, IN CUI FU CRITICO MUSICALE INSUPERATO, NON POTEVA CHE FINIRE ANCHE LUI. PER RICORDARLO COME MERITA RIPRENDO L’ARTICOLO CHE GLI DEDICO’ FILIPPO FACCI

Il meraviglioso Paolo Isotta, per me, era estinto anche da vivo, perlomeno negli ultimi vent’ anni passati a cincischiare con la squallida finitezza corporea e da lui passati ad auto-recensire una vita conclusa, coi piedi ben piantati nel Novecento. Negli ultimi vent’ anni non ho voluto più incontrarlo anche per questo, perché all’ alba del nuovo Millennio avevo voluto immaginarlo nelle splendide vesti di gran cerimoniere di un’èra che salutava, lui, la maschera che accompagnava alcuni di noi lungo il loggione di un teatro di proporzioni monumentali e impossibili, con, sprofondata nel golfo mistico wagneriano, un’ orchestra di migliaia di elementi che suonava una musica cupa e impressionante, velata dalla mestizia di un tempo che se andava.

Paolo Isotta

Isotta, nei tardi anni Novanta, mi ritenne un miraggio della gioventù hitleriana che frequentava quel mistero nascosto alla superficie che si chiama musica, e s’invaghi di me quando mi sentì disquisire su sette versioni del quarto movimento di una sinfonia di Ciaikovsky, si commosse quando citai a memoria passaggi del suo Le ali di Wieland del 1984 (scritto a 34anni, cattedratico da 10, quando probabilmente era già il più colto musicologo del mondo intero) e rimase di sale quando gli spiegai perché il giovane Baricco aveva copiato da lui, dopodiché era nelle cose: l’amore si trasmuta in rancore come capita ai dannati peggiori: i passionali intelligenti e accidiosi.

Ci scambiammo missive e dischi, cercò di farmi cacciare da Il Foglio, fece pressioni perché non scrivessi più una parola su Riccardo Muti, andò nel panico quando invasi un «suo» ristorante a Napoli, per mesi tempestò l’ ex direttore di questo giornale (un bresciano) perché personalmente io recensissi un suo libro (ma non cedetti) e intanto per rimase segretamente «il riferimento», benché ampolloso, ciceroniano, frocista, vendicativo e amante delle mafiette come il suo tammurro, Pietrangelo Buttafuoco.

La sua biografia storico-giornalistica l’ ha già scritta il suo vero amico Vittorio Feltri. Dico solo che mi mancherà l’uomo che avevo già deciso che perisse (per me) vent’ anni fa, ultimo superstite di una civiltà che sapeva scrivere e studiare e concentrarsi e parlare e sintetizzare e pensare e ragionare, refrattario a un’umanità ridotta a pura relazione, a mera intuizione e sensazione fulminea, a immagine sintetica e contratta, un’umanità decerebrata e incapace di un certo tipo di trasmissione del pensiero: era finita la musica, era finito il Novecento, era finito lui. Quanto mi è mancato. Quanto mi mancherà.

Filippo Facci per “Libero quotidiano”

PAOLINO, IETTATORI E ALTRE COSE

PAOLINO, IETTATORI E ALTRE COSE

UN CESSO DI CANE CHE BEVE CHAMPAGNE- COME DIFENDERSI DALLE IETTATURE- CAVALIER SPIZZICO E VECCHIE PUTTANE AL TETRO  SAN CARLO- I RICORDI DI PAOLINO ISOTTA FRA ERUDIZIONE E NOSTALGIE

“La città mi pareva fiaba. I venditori ambulanti che la mattina passavano sotto le finestre con le loro voci più cantate che strillate; la devozione del popolo; le donne dei vicoli; le vendemmie ad Anacapri, le passeggiate a dorso di ciuccio e mia nonna che mi insegnò il francese e il tedesco e mi diede i primi rudimenti musicali. Fu un mondo unico fatto di solerzia e ironia, di provocazione e fatalismo, di bellezza e stravaganza.”

 

Il diavolo veste Isotta, verrebbe da dire, dopo aver incontrato il più sulfureo e talentuoso tra i critici musicali italiani. Il “diavolo” vive in un dettaglio di Napoli, un edificio di foggia razionalista con vista sul Golfo. ” Paolino”, così lo chiamano gli amici, mi riceve affiancato dal suo cane Ochs ( il nome è un omaggio al barone protagonista del Rosenkavalier di Strauss): un bassotto esuberante.

Più che a un maschio alfa Ochs somiglia a un maschio alfetta: «A chisto cessu piace vino e champagne », dice ridendo Isotta che di animali se ne intende. Ha da poco pubblicato un libro strepitoso ( Il canto degli animali, edito da Marsilio) bello per armonia, pathos, erudizione e conoscenze del mondo classico.

Ama più gli animali degli uomini?

il canto degli animali paolo isotta-208x300«Sono più attendibili e anche più esposti alla violenza gratuita dell’ uomo. Provano sentimenti e li esprimono con il loro linguaggio che, in origine, è comune all’ uomo. Lucrezio comprese perfettamente questa loro natura. Cartesio l’ ha condannata riducendo l’ animale a una macchina non senziente. Fu il primo errore ripugnante della modernità».

Sempre in ambito bestiario si è paragonato a un elefante.

«Animale fantastico, per noi napoletani tra l’ altro è considerato potentissimo apportatore di buon augurio».

Ne avverte il bisogno?

«Il mondo è pieno di jettatori«.

Comincia l’ anno con questo tono?

«Mi difendo da forze che la scienza non è in grado di spiegare. Bisogna cominciare l’ anno con determinazione».

PAOLO ISOTTAE come lo ha chiuso?

«In teoria sarei un “piromane”, ma non ho sparato, quel bassotto lì ha otto mesi e si spaventa dei botti».

Lei è nato a Napoli?

«Come è vero che ora le parlo. Ma le origini della mia famiglia sono in parte piemontesi. Gli Isotta provengono da un paese sopra Omegna chiamato Agrano. Sul lago d’ Orta. Ma scelsero di migrare al Sud nella convinzione che Napoli fosse il più bel posto del mondo. Mai decisione fu più azzeccata».

PAOLO ISOTTA LIBRO ALTRI CANTI DI MARTEChe famiglia era?

«Benestante. A Napoli comprarono un palazzo a via Medina, affittarono ville godendo di tutti i privilegi della ricchezza. C’erano proprietari terrieri e professionisti. Personaggi stravaganti, minorati mentali (a volte accadeva di avere dei cugini o delle zie mentalmente incerte, persone verso le quali più forte era l’ affetto), o autorevoli, come lo zio Mario che era stato in Congo Belga a studiare le malattie tropicali. Visitò Proust a Parigi e curò Stravinskij a Napoli, guarendolo da una grave polmonite. Mio padre era avvocato civilista. Piaceva a tutti quella vita scandita da vacanze a Capri, di racconti avventurosi e di viaggi fantastici».

In questo ambiente lei che faceva?

«Avevo con Napoli lo stesso rapporto incantato che ricreavo con la lettura delle favole.

paolo isotta 1412525261 isottaLa città mi pareva fiaba. I venditori ambulanti che la mattina passavano sotto le finestre con le loro voci più cantate che strillate; la devozione del popolo; le donne dei vicoli; le vendemmie ad Anacapri, le passeggiate a dorso di ciuccio e mia nonna che mi insegnò il francese e il tedesco e mi diede i primi rudimenti musicali. Fu un mondo unico fatto di solerzia e ironia, di provocazione e fatalismo, di bellezza e stravaganza.

C’era di tutto in quel mondo: indimenticabili ricchioni, come il cavalier Spizzico capoclaque del San Carlo, vecchie puttane che rattristavano i miei pensieri, abili commercianti e mitici posteggiatori, incalliti frequentatori della riffa e devoti, come me, di San Gennaro.

Sono uno degli ultimi testimoni di una Napoli che non c’ è più».

In questa rievocazione di una Napoli sparita accennava a sua nonna che le ha trasmesso le prime nozioni di musica.

«Nonna Laura mi cantava meravigliose canzoni francesi e tedesche trasmettendomene il valore e il significato. Ma non vengo da una famiglia di musicisti. Studiai di nascosto un po’ di musica e solo dopo confessai a mio padre di questa passione e del fatto che nella vita avrei voluto diventare direttore d’ orchestra. Lui mi stette ad ascoltare e poi disse che avrebbe voluto che proseguissi nella sua professione. Gli risposi che non era quella la mia strada. Dammi retta aggiunse: un mediocre musicista sarà un fallito per tutta la vita, un mediocre avvocato troverà sempre di che campare dignitosamente».

E lei che fece?

« Pensai che mi disprezzasse e che non credeva minimamente nelle mie attitudini. Cominciai a prendere lezioni da Vincenzo Vitale che fu maestro mio e di Riccardo Muti. Ero determinato a proseguire, solo che non avevo capito che mi mancava il talento. Il maestro mi incoraggiava a insistere sottovalutando i miei limiti».

Da cosa se ne accorse?

LA VIRTu? DELL'ELEFANTE ISOTTA«Dal fatto che un direttore deve possedere un’ autorità innata. Muti, ad esempio, l’ aveva. E poi la qualità del gesto, la lettura del tempo e infine l’ orecchio. No, purtroppo, la natura non mi ha dotato dell’ orecchio assoluto. Sarei stato un mediocre direttore d’ orchestra e improvvisamente mi tornarono alla mente le frasi di mio padre».

Fu quel monito ad aiutarla a rinunciare?

«No, fu San Gennaro a illuminarmi e a farmi capire un momento prima che fallissi che avrei dovuto lasciar perdere. In fondo, mi dissi, potevo scegliere di occuparmi di musica in tutt’ altro modo».

Che cos’ è per lei San Gennaro?

«Quello che rappresenta per tutti i napoletani: più che una fonte miracolistica un’ assicurazione sulla vita. Non credo in Dio ma mi affido volentieri ai santi. Sono convinto che il cristianesimo abbia distrutto la potenza e la ricchezza della cultura classica. Il merito della Chiesa cattolica è stato di rovesciare questo cristianesimo delle origini e di aver introiettato nel proprio corpo aspetti fondamentali del paganesimo, di cui i santi sono una delle espressioni più belle e riuscite«.

paolo isotta giuliano ferrara pietrangelo buttafuoco

Isotta con Giuliano Ferrara e Pietrangelo Buttafuoco

Lei è uno strano tipo.

«Cioè?».

Diciamo fornito di una stravaganza raffinata e pittoresca.

«Non voglio essere pittoresco, ed è la ragione per cui ho smesso di fare il critico musicale. E la mia stravaganza è nel non aver mai coltivato il potere, né chiesto niente a nessuno. Se uno va all’ etimologia della parola sa che essere stravaganti significa uscire dai sentirei battuti. Non è un caso che io abbia sempre adorato la cultura classica, soprattutto il latino».

opere del bernini (8)Sindrome da vecchio professore?

«Ma no; senza il latino, mi dia retta, non si va da nessuna parte. È il sistema linguistico sovrano per avere un giusto rapporto con la vita».

Un altro omaggio alla controriforma.

«Non me ne vergogno. Ci hanno insegnato che la controriforma è stata in Italia una delle peggiori catastrofi perché ha lasciato che trionfasse l’ oscurantismo. Beh non la penso così. Nonostante le raffinate analisi di Max Weber sull’ etica protestante e lo spirito del capitalismo, giudico il protestantesimo una religione angusta e tormentatrice. Mentre la controriforma è stata una delle epoche più dedite al culto del Bello e alla glorificazione della natura. Tra Lutero e Bernini non avrei dubbi da che parte stare».

E Bach?

«Bach è un caso quasi unico. Sebbene provenisse dall’ ambiente del pietismo luterano, le sue Cantate e Passioni sono intrise di una tale teatralità e di una forza figurale estranee allo spirito della Riforma. Più vicino a Bernini che non a Lutero».

Perché ha smesso di fare il critico musicale?

celine lucette

Ferdinand Cèline

«Glielo ripeto: per non essere confuso con il pittoresco e poi se mi guardo intorno noto che la vita musicale è scaduta a livelli impensabili qualche anno fa. Mi sono detto: che me ne fotte di stare all’opposizione. L’ho fatto per quarantuno anni, dando molto di più di quello che mi si chiedeva. La nausea era diventata più forte del disprezzo per l’ambiente. Un paio di anni fa mi sono fermato. Basta, cambio vita. Oggi viaggio molto meno. Ho tagliato l’ottanta per cento delle mie frequentazioni. Vedo chi mi piace, scrivo libri e leggo molto di più».

Che genere di lettore ritiene di essere?

«Totale, del resto non farei distinzione tra ascolto, lettura e visione. Amo il cinema come la letteratura. Per quest’ ultima sono in debito con mia madre che è stata una grande lettrice di romanzi».

Quali quelli che l’ hanno formata?

«Ovviamente i classici e poi da Manzoni a Flaubert non c’ è pista narrativa ottocentesca che non abbia percorso. I più grandi del Novecento sono stati Céline e Gadda. Il più sopravvalutato, da noi, Calvino. Ho amato lo stile di Croce e quello di Sciascia che ho cercato in qualche modo di imitare».

Cosa le manca dei suoi genitori?

preghiere san gennaro«Di mio padre l’ intelligenza, di mia madre l’ intelligenza e la capacità di comprendere e amare».

Si è sentito poco amato da suo padre?

«Nonostante i suoi lati buoni non credo che sia stato un padre affettuoso. Dall’ ingresso nell’ adolescenza fino alla maturità mi ha sempre ispirato un certo terrore».

Provocato da cosa?

«Quelli della sua generazione pensavano che la severità fosse un dovere educativo. Vede, io non è che brillassi a scuola. Me ne disinteressavo fino all’ ultimo mese, quando recuperavo tutto il programma non fatto. Ma intanto arrivavano le pagelle, spesso pessime e mio padre mi guardava con disprezzo. La sua presenza mi ha reso la vita infelice. Però era anche un gioco delle parti. Tra un padre e un figlio».

Le dispiace non avere avuto figli?

«Non lo so, non c’ ho mai pensato. Ho una specie di figlio adottivo che adoro, un nipote. Il solo difetto che è troppo serio».

Lo vorrebbe come?

«Se dovessi pensare a un figlio mio lo avrei incoraggiato a essere giocatore e puttaniere. Non sarei mai stato capace di essere severo. Avrei goduto della sua dissipazione».

Contro l’educazione repressiva?

«Contro ogni forma di repressione».

Come interpreta la parola “eros”?

«Della parola me ne frego, l’ eros deve essere piacere, anche solo fisico. Vengo da un’ educazione in cui la strada ha contato molto ».

TOTO'Le piace la canzone napoletana?

«Adorabile, anzi “adorabile” non è l’ espressione giusta. Intensa, profonda, effusa. Ho amato i cesellatori della mezza voce come Gennaro Pasquariello, il cui erede ai giorni nostri fu Robertino Murolo, quasi un parente per la nostra famiglia. Ho amato la sceneggiata e il varietà. Mio padre soffriva di insonnia. Erano gli anni in cui dilagavano le televisioni commerciali e private. E lui si metteva in poltrona davanti al piccolo schermo e passava le nottate a guardare certe commedie e sceneggiate napoletane. Ho appreso in quel contesto cose talmente mirabili da immaginarle come pura avanguardia culturale».

Gode a essere una specie di bastian contrario?

ovidio

Ovidio, poeta latino

«Non è che ci soffra. Lo riconosco. Sono stato la bestia nera dei salotti culturali e musicali di sinistra, soprattutto quelli milanesi».

E oggi?

«C’ è ben poco con cui valga la pena polemizzare».

Su che cosa sta lavorando?

«Ho finito di scrivere un breve saggio su Totò e uno molto lungo su Ovidio».

Totò e Ovidio sembra il titolo di una commedia.

« Non c’ avevo pensato. In fondo pochi come Totò conoscono l’ arte della metamorfosi».

Lo ha conosciuto?

«No, ma andai al suo funerale. Seppi della sua morte quando per i vicoli di Napoli le donne disperate gridavano “È muorto Totò”. Avevo sedici anni. Con un amico ci recammo nella piazza gremita di gente. C’ era una ressa soffocante. Poi il feretro uscì dalla chiesa. Ci fu la commemorazione toccante di Nino Taranto. Sulla bara era stata posta l’ immancabile bombetta. Tutti volevano sfiorarla, toccarla, abbracciarla. Fu la prima adunata di massa spontanea attorno a una morte che divenne rappresentazione teatrale».

Come vive il rapporto con la morte?

«Sono nato sotto un vulcano. E so che tutto è provvisorio ma al tempo stesso sento che la terra mi dà energia. Non ne ho paura. Semmai temo le circostanze del morire: la sofferenza innanzi tutto. Ben venga la legge sul biotestamento. La considero un fatto di civiltà. Anche se purtroppo ci sarà ancora a lungo una torbida alleanza tra quei medici che vogliono accanirsi e i preti che intendono gestire la vita e la morte delle persone. Quanto a me, mi auguro di campare ancora a lungo. C’ è un detto napoletano: “ogni juorno è truvato in terra”, ossia è regalato. Vorrei che il tempo che mi resta fosse dedicato alle cose meno effimere. È il mio proposito per l’ anno nuovo».

Cosa si aspetta o cosa vorrebbe che accadesse nel 2018?

«Dall’ anno nuovo vorrei: in politica: la sconfitta dei demagoghi, dei venditori di fumo e degli impostori (possibile forse, ma solo per breve tempo); nella cultura, e quindi anche nella musica: la sconfitta dei demagoghi, dei venditori di fumo e degli impostori, impossibile per definizione».

Intervista di Antonio Gnoli per “la Repubblica”

 

Altri articoli su Paolo Isotta in questo sito:

https://www.ninconanco.it/ricchione/

https://www.ninconanco.it/ti-cerco-e-ti-respingo/

https://www.ninconanco.it/isotta/

Nel video potrete assaporare lo schietto carattere partenopeo di Paolino Isotta:

Ricchione

Ricchione

Questo pezzo, che esce dalla brillante penna di Pietrangelo Buttafuoco,  scrittore e giornalista del Foglio, l’ho tenuto in serbo, in attesa di tempi….. migliori. Per non incorrere in “algoritmi” censori, ma anche per conoscere meglio il personaggio. Risale al luglio del 2013, quando ancora l’intervistato Paolo Isotta era al Corriere della Sera, responsabile della critica musicale di quel giornale. Da quando Paolo  Isotta è tornato ad assaporare gli ozi del congedo illimitato provvisorio (nel caso suo non si può parlare di pensionamento, né tanto meno di libertà riconquistata, essendo sempre stato lui liberissimo) ha scoperto una vena di scrittore e memorialista di prim’ordine. Due suoi libri Virtù dell’elefante e Altri Campi di Marte hanno scalato le classifiche; è venuto alla luce il suo amore-odio per Riccardo Muti (vedi intra: Ti cerco e ti respingo) e da ultimo si è permesso di infrangere il mito Claudio Abbado, definito, senza perifrasi, mediocre direttore d’orchestra. Paolo Isotta non ha mai fatto mistero di amare il paradosso, l’iperbole spiazzante, e un certo libertinaggio intellettuale ne farebbe uno snob, se non fosse un napoletano verace, diabolico nei giudizi quanto ingenuo, fors’anche fragile, nella pratica dei sentimenti. Sia come sia, la sua posizione contro gli eufemismi del politically correct non potrebbe essere più netta da come appare dalle risposte date a Buttafuoco, alcune veramente spassose. Le frasi in napoletano non credo necessitino di traduzione.

 

Paolo Isotta critico musicale e scrittore

Paolo Isotta critico musicale e scrittore

“Gay è parola pezzente. Come dice Paolo Isotta, “gay è una caricatura”. Peggio, è un eufemismo: “Un eufemismo piccolo- borghese da mezzacalzetta”. Il termine più consono a una natura curiosa di altre navigazioni, sia essa vela o vapore, è “ricchione”. Ecco, già s’odono fulmine e tuono.

E se già Facebook, forte d’algoritmo, ha censurato il fondo di Giuliano Ferrara contenente la parola “frocio”, sappia il lettore che nel procedere del pezzo – se avrà la gentilezza di leggere ancora – rischierà di vedersi planare in testa un drone, direttamente guidato dalla mano angelicata del Pentagono se non direttamente da Laura Boldrini, presidente della Camera, assai sensibile al linguaggio ideologicamente corretto.

Ricchione, dunque. Busso alla porta del Maestro e chiedo lumi su questo infuriare di perbenismo e bovarismo tra gli omosessuali che si vogliono maritare adesso che la civile America li sposa tutti. Il Maestro cui mi appello per avere parola di Cassazione in tema è appunto Paolo Isotta.

Storico della musica, firma di gran pregio del Corriere della Sera, Isotta è napoletano del Reame e continuatore della lingua poetica del “dolce stil novo” ottocentesco e adopera perciò parole giammai sconciate dall’inabilità dello spirito ma sempre vive di timbro e prodigio. Paolino, a noi! Ma è vero che tu sei, come si dice adesso, gay? “Pietro, tu si’ ‘e piez’ d’o core mio, ma non puoi osare!”.

E cche ssì?, domando ancora, ovvero, gli chiedo: cosa sei, chi sei? “Io faccio tutte cose”, risponde il Maestro, “comme se dice a Nnapule so’ attivo & passivo. Cco mascule e cco femmene. Ma nisciuno me può cchiammà ‘gay’. Io so’ ricchione”. E che viene a dire, questa parola così impressionante?

Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore

Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore

“Vene a ddicere ca ‘o ricchione è ommo, nel senso di essere umano. Homo sunt et nihil umani a me alienum puto. ‘O gay, Dio liberi, è na caricatura ‘e ommo e, al contempo, na caricatura ‘e ricchione. Siamo in piena operetta, diceva ‘o Maestro Pannain. ‘nt’a ‘na tetra operetta”.

La civile America, gli Stati Uniti col presidente Barack Obama in testa, festeggiano il guadagnato traguardo della civiltà… “‘O gay se vuo’ ‘nzurà”. Che viene a dire nzurà? “Napulitanamente, sposarsi”.

Il Maestro è paziente assai e mi parla col sale della sua sagacia di uomo di mondo e però sempre devoto alla musa partenopea e così, mite, prosegue: “Ma tu te rienti cunto, oggi i spusalizzi ‘n ‘ê vuò ffà cchiù nisciuno, e sulo ‘e ricchiuni e ‘e ricchiesse (le lesbiche, ndr) î vvonno fa’! In parenthèse, ô ssai comme se chiamano a Nnapule ‘e ricchiesse? Totore, da Totore, ‘o diminuitivo ‘e Salvatore, nomme supervirile, c’o diminuitivo supervirile, no chillo cchiù garbato Sasà! Nnui i Totore aspiranti al matrimonio e schifamm! E i gays ca se vonno spusà sono bovaristi e stronzi! Vonno ‘a consacrazione sociale e religiosa!”.

E tu, Maestro? “Ma io so’ cattolico praticante, fratello caro, e ppe mme’ ‘no Sacramento come il Matrimonio non può sporcarsi con la tetra Operetta. Magari a’ chiesa nu bellu jorno c’ò riconosce pure, essendo spesso cchiù assistenza sociale che liturigia e dogma, che poi sono la stessa cosa”. E’ vero, è così: liturgia e dogma sono la stessa cosa. E però è vero che la chiesa, sciaguratamente, prima o poi si accoderà all’America.

Gay Pride March Held In New York City

“Ma mo’ te conto na bella cosa. Io tengo a Roma un cugino prediletto, ‘o cchiù grande medico d’o munno, che insegna a Tor Vergata. Si è specializzato nella cura dell’anoressia. ‘Lo sai, Paolino’, mi ha detto, ‘che adesso l’anoressia maschile è purtroppo in grande incremento?’. ‘O vero’, gli dico, ‘e qual è la causa?’. Mi spiega: ‘Sti guaglione adolescenti, sui quindici anni, sono omosessuali e, non volendo accettare la loro natura, cadono in anoressia!!’. A quel punto, così replico a lui, ‘Si ‘o dici tu, ca si n’autorità scientifica, non metto lingua. Però consentimi dirti che a Napoli la tua spiegazione non vale. A Napoli ‘o ricchione è stato sempre portato in pianta di mano”.

Intervista di Pietrangelo Buttafuoco, Il Foglio, luglio 2013

 

 

 

PAOLONE SOTTO IL VESUVIO

Ti cerco e ti respingo

 

Il musicologo e scrittore Paolo Isotta

Il musicologo e scrittore Paolo Isotta

Da quando Paolo Isotta ha dismesso, dopo decenni, i panni di eccelso critico musicale per il malandato Corriere della Sera, sta vivendo una seconda giovinezza, questa volta come scrittore e memorialista d’alto rango, come si addice a cotanto personaggio. Dopo la Virtù dell’Elefante, rifiutato da ben sei editori ma poi libro di buon successo, è ora la volta di Altri campi di Marte, sempre edito da Marsilio in Venezia. I libri di Isotta sono una eterna divagazione sul tema, ricchi, suggestivi e, a tratti, difficili. La sua lingua è dotta, sembra uscire dal fondo di un armadio, ma spesso è avvincente, sempre alleggerita da quell’ironia indulgente che gli anni e i troppi ricordi gettano sulle cose, sugli uomini e sulle loro vicende. In questo pezzo al centro è il contrastato, ma profondo, antico legame fra Riccardo Muti e Isotta, due personalità che nello stesso tempo paiono respingersi e cercarsi.  Sarebbe bella una replica di Muti.    

 

Febbraio del 2014. L’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, della quale ne La virtù avevo scritto esser diventata, grazie alla cura Muti, una delle migliori d’Europa, a quel che sembra della cura Muti non è consapevole; o non è felice. Così ha fatto una serie di sgarbi al Maestro; pare che, durante certi scioperi fatti cadere proprio durante la produzione della Manon Lescaut, un gruppo di orchestrali abbia invaso minacciosamente il suo camerino.

Poco più in là s’è svolta una tournée in Giappone sempre capitanata da Muti : una cosa che onora l’Italia e lo stesso teatro: ebbene, una cospicua massa di orchestrali ha osteso certificato medico per non parteciparvi. Cosa molto romana, visto ciò ch’è accaduto a fine anno coi vigili: ma qui stiamo parlando d’un impegno nazionale.

La decisione di Muti (di dimettersi, ndr) fu forse presa ex abrupto, di certo in tal modo fatta conoscere;    senza che ne venisse informato preventivamente Alessio Vlad, che del Teatro dell’Opera è il direttore artistico; non ne venni fatto cerziore nemmeno io. Alessio e io siamo stati trattati come le truppe italiane in Africa durante la Seconda Guerra Mondiale, che Rommel abbandonò appiedate nel deserto andandosene coi camions e i carri armati. Il non aver Muti pensato di avvisarci (io ne avevo titolo nella mia qualità sia di, m’illudevo, amico del cuore sia in quella dell’unico critico musicale che a Muti desse atto del lavoro al Teatro dell’Opera svolto) significa che per lui Alessio e io  siamo pula di grano, niente.

Muti è cascato come un allocco nella trappola di chi se ne voleva liberare e facendolo esasperare liberato se n’è. Adesso egli non ha più in Italia un luogo ove poter dirigere l’Opera: salvo che a Ravenna, il  festival della moglie, ove a luglio 2015 dirige il Falstaff colla regia della moglie. A Ravenna la di lui stazione romana doveva per più motivi dar fastidio. A Roma la presenza di Alessio Vlad impediva alla signora Cristina di spadroneggiare in teatro come faceva alla Scala, ove addirittura interloquiva cogli orchestrali dettando loro norme di comportamento.

Paolo Isotta e Riccardo Muti

Paolo Isotta e Riccardo Muti

Il più grande direttore vivente è stato per me uno dei più cari fra gli amici del cuore: certe cose non possono cancellarsi; ma lo è stato. Egli dirige Opere con le regie della moglie e della figlia (la quale ha tuttavia talento). La figlia fa la voce recitante in cose da lui dirette. Accompagna in concerto sinfonico il genero pianista: i due figli maschi gestiscono la sua attività e la sua immagine artistica in un modo che suscita  la gioia dei nemici e l’ilarità di tutti…. Certo, per lui si tratta d’una sventura: la  sventura di non aver volontà di creare un recinto inviolabile pel suo essere artista.

Di recente è tornata d’attualità la polemica intorno all’acustica del San Carlo. Il burocrate Nastasi, che da anni gestisce da padrone il Ministero dei Beni Culturali,  aveva effettuato, nella qualità di commissario del teatro napoletano,  imponenti lavori di cosiddetto “restauro”: il suo progetto prevedeva che del cemento fosse posto sotto il palcoscenico, la cassa armonica più risonante del mondo.

Tutti lo scongiurarono di non farlo; colla sua arroganza burocratica egli lo fece tamquam le proteste non fuissent, credo anche per dimostrare al mondo che quando lui comanda nemmeno Cristo disceso dalla Croce può fermarlo.

Muti venne a visitare i lavori e si fece fotografare a fianco di Nastasi con l’elmetto da operaio in testa; e ancora in un’intervista del marzo 2015 di fronte a una polemica sul tema suscitata di nuovo da Roberto De Simone ha affermato l’acustica esser dopo i lavori quella di sempre.  Del pari non volle schierarsi al mio fianco – il suo intervento sarebbe stato decisivo – quando  feci la campagna a pro del ripristino per la sala degli originari colori azzurro e argento del 1816: quelli borbonici, d’incomparabile eleganza; e quale meraviglioso contrasto con la tenda color rosso vinaccia  dipartentesi dalla corona a ricoprire il palco reale!

Dal Nastasi dipendono i contributi ministeriali alle attività musicali; dunque anche ai festivals; quello di Ravenna è locupletatissimo.

Io non so a Muti quanto interessi riconoscere il merito degli amici; quanto alla sua concezione dell’amicizia è sintetizzata in una sentenza di  Spinoza (Ethices Pars V): Qui Deum amat, conari non potest, ut Deum ipsum contra amet. (Chi ama Dio non può  tentare di far sì che Dio contraccambi.)

Gli ho inviato qualche anno fa la partitura della Sinfonia di Marinuzzi perché l’eseguisse a Chicago e non l’ha neanche aperta. Gliel’ho fatta ascoltare a casa mia, ha riconosciuto ch’è un capolavoro e non l’ha eseguita né l’eseguirà. Gli ho raccomandato di studiare La battaglia di Legnano, l’unico capolavoro di Verdi ancora incompreso, e non ha avuto il tempo. Negli ultimi cinque anni è riuscito ad aggiungere un sol titolo all’intero suo repertorio, il Simon Boccanegra.  Figuriamoci se farà mai qualcosa di Alfano; esegue le Sinfonie di Hindemith e Honegger.

Nel corso del 2015  ha diretto un concerto a Modena per commemorare Luciano Pavarotti che avrebbe compito ottant’anni. Fa bene; meglio farebbe a commemorare Sviatoslav Richter, uno dei sommi pianisti del Novecento che ne compirebbe cento; e ancor meglio a commemorare Marinuzzi dalla morte del quale nel 2015 ricorrono settant’anni. Nel 1994 la Banca Lombarda e la Scala pubblicarono un volume sul Maestro contenente due compact-disc con tutte le sue registrazioni esistenti, salvo La forza del destino, ch’è ancora disponibile sul mercato .

Muti_RiccardoDa allora a oggi  di esso Muti ha posto l’orecchio solo alla Sinfonia della Norma; né mai all’unica esecuzione completa che di Marinuzzi possediamo, La forza del destino: majora premunt. Tre anni fa convenni con lui che Francesco Libetta gli mandasse un’antologia di sue interpretazioni affinché l’ascoltasse e decidesse se Libetta meritava d’essere invitato a Chicago. Non l’ha mai ascoltata: e si tratta del più grande pianista vivente.

A Chicago avrebbe dovuto, in ordine di età, invitare i Quattro: Nicolosi, Caramiello, Libetta, Carusi; i Cinque con Bresciani. Avrebbe fatto una splendida figura e avrebbe fatto il suo dovere di italiano. Ha accompagnato il pagliaccesco pianista Lang Lang invece di protestarlo, quasi fosse un qualsiasi Cristoph Eschenbach. Invita i mediocri Oppitz e Buchbinder: se mi domandassero il motivo non  saprei spiegarlo.  Si riempie la bocca della parola Italianità:  a differenza di quel che non facesse Abbado, le tasse le paga in Italia: e poi?

l tradimento di Muti. – tratto da libro “Altri campi di Marte” (Marsilio) di Paolo Isotta

https://www.youtube.com/watch?v=-Uu_P3eUv7g

 

 

 

 

 

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