UNA DONNA COSI’

UNA DONNA COSI’

Oltre a portarci libri imperdibili e ad aprirci l’America, quindi il mondo, Fernanda Pivano è stata una straordinaria donna del Novecento che ha amato un uomo, ne ha ammirati tanti, ne ha rimpianto qualcuno, ma è soprattutto alle donne che, da maestra riluttante, ha mostrato la libertà, la sua fatica quotidiana, la sua meraviglia complicata e necessaria, il suo essere orizzonte irraggiungibile ma a cui non vanno mai voltate le spalle.

«Sono stata una scema a non scoparmi Hemingway». Di Fernanda Pivano dovremmo sapere tutto, e quel “dovremmo” possiamo intenderlo almeno in un paio di modi. Se si è attraversato in parte il suo secolo lungo, un’idea del suo lascito la si ha. Se invece si è troppo giovani per averla potuta incrociare, è un concentrato di Novecento che può far capire molte cose di questi nostri anni – anche se lei non li ha visti.

Fernanda Pivano giovane

In questa estate di legge Zan, di libertà messe in discussione, di MeToo sommerso o riaffiorante, di differenza tra sesso, genere e identità di genere da imparare per poi magari subito di nuovo confondere, lei — anche se era arrivata molte estati fa, il 18 luglio 1917, e se n’è andata qualche estate fa, il 18 agosto 2009 — ci avrebbe forse sciolto qualche dubbio. Oppure ci avrebbe spiazzato ancora di più, con una sorprendente mancanza di verità, col suo essere lei stessa una contraddizione, e quindi stimolandoci a vigilare sulle nostre certezze, anche le più fresche.

Fernanda Pivano

Probabilmente ci saremmo accostati a lei come a un oracolo laico, in lei identificando giustamente il prototipo dell’indipendenza e dell’emancipazione e della cultura femminili. Lei che fu l’interfaccia ineludibile dei più grandi intellettuali dei suoi decenni. Lei che fu decisiva nella sprovincializzazione dell’Italia, aiutata a smaltire la sbornia ventennale del «popolo guerriero» con l’ideale opposizione dei poveri diavoli di Spoon River, antieroi stanchi, quindi eroi autentici. Pivano fu centrale in tutto questo, ponte tra almeno due generazioni di italiani e il mondo, lei a riconnetterci con la civiltà.

Ma una donna così, forgiata dall’avere ascoltato — di nascosto, alla radio, accanto a Pavese e Vittorini — il discorso sulle Quattro Libertà di Roosevelt, non fu mai completamente libera. E una donna così, che pure conobbe uomini eccezionali e avrebbe potuto averli con uno sguardo, amò incondizionatamente un uomo solo, che inseguì e poi ebbe e poi perse, soffrendone fino alla fine. E fino alla fine chiamò disperatamente a sé.

Fernanda con Ettore Sottsass

Ettorino Sottsass e il marchio del padre

Quell’uomo fu Ettore Sottsass, per Nanda “Ettorino” ma in pubblico “Sottsàss”, con l’accento rigorosamente sulla “a”, il contraltare materiale e fattuale della curiosità intellettuale di lei, il grande designer, o “controdesigner”, che tanto contribuì a riaprire gli occhi del mondo sulla bellezza italiana, con mille oggetti diventati icone e quella facilità di tratto che la incantava, mai avrebbe smesso di osservarlo con la matita in mano.

Nanda Pivano fu prigioniera per scelta — l’ossimoro è voluto, e riassume questa storia — di quell’amore e di un’educazione altoborghese, e non si liberò mai né dell’uno né dell’altra. Per questo rimpianse gli anni con lui, tantissimi — rimpianse di averli perduti, rimpianse che fossero finiti — ma anche il fatto di essere stata «una scema a non scoparmi Hemingway».

Quella frase Enrico Rotelli la rivela dopo qualche istante di concentrazione, perché una delle cose che ha imparato da lei, lavorandole accanto negli ultimi anni, è scegliere bene le parole, capire chi ti ascolta e cosa ti sta chiedendo.

«Nanda ha lavorato molto per la libertà sessuale, ma quella degli altri. Lei libera non lo era, non c’è mai riuscita. Era vincolata al suo retaggio vittoriano, come diceva lei stessa».

Un retaggio che veniva da lontano, le origini scozzesi, la scuola svizzera, il padre banchiere genovese. Ecco, il padre: una figura che l’ha marchiata, un uomo dominante, «un possessore compulsivo di donne, che incontrava quotidianamente nel suo ufficio», spiega Enrico. Quel modello l’ha segnata e quel modello l’ha indirizzata inesorabilmente nel rapporto con gli uomini. «L’uomo ci prova, la donna sceglie se resistergli».

Vai a capire se poi è davvero una scelta o l’effetto di un tabù schiacciante: il punto è che possono esistere accanto, resistere entrambe le cose: per Fernanda Pivano tutta la vita fu così. E quindi la ragazza che aveva sfidato un interrogatorio nazista per aver tradotto di nascosto Addio alle armi, e che «fu tra le prime — fin dagli anni 40 — a portare i pantaloni e i capelli corti, tra le prime a divorziare e a tradurre testi stranieri», incarnò per tutta la vita anche la visione opposta, quella della «donna sottomessa», che accetta i tradimenti dell’uomo che ama e mai lo tradisce, che è corteggiata da seduttori saltuari o seriali con ottimi argomenti — belli, intelligenti, spesso entrambe le cose — ma a nessuno cede.

Cesare Pavese

«O scrivo o faccio la puttana. insieme è troppo faticoso»

Giovanissima, per esempio, si era fatta sedurre solo intellettualmente dal suo maestro Cesare Pavese, che «in lei sperava per avere una casa e un amore», scrisse Davide Lajolo. Celebre è la sua risposta a Neal Cassady, il classico bel tomo tra gli scrittori Beat, che dopo averci provato e riprovato le chiese frustrato «non bevi, non fumi, non scopi, ma allora cosa sei venuta a fare?» e si beccò una frase folgorante, che andrebbe analizzata parola per parola: «O scrivo o faccio la puttana. Insieme è troppo faticoso».

Ma perché Fernanda, verrebbe da chiederle oggi, perché loro, quei grandi uomini, potevano fare gli scrittori e i puttanieri e tutti ad applaudirli, e tu invece dovevi scegliere se lavorare o divertirti, salvo poi pentirti in tarda età di «non aver scopato Hemingway»?

Fernanda con Jack Kerouac

La risposta la dà Antonio Troiano, il capo della Cultura del Corriere, memoria storica di questo giornale e che con Rotelli è l’altro testimone perfetto della grandezza e delle contraddizioni pivaniane, essendole stato amico per decenni.

«Nanda era bella e ha difeso la sua integrità. Voleva essere riconosciuta per quello che era, una studiosa di letteratura americana», dice Antonio. La presunta auto-repressione sessuale, insomma, era un retaggio ma anche una necessità, perché se fosse finita sui giornali come preda/predatrice di scrittori anziché loro intervistatrice e basta, sarebbe fallita la doppia missione che si era data: portare la loro (contro)cultura in quel villaggio che era l’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, e farlo nonostante fosse una donna, perché per le donne quel mestiere semplicemente non era previsto: e infatti, spiega Antonio, «Nanda ha fatto una fatica enorme a difendere la sua professionalità, si è dovuta impegnare quattro volte gli altri», quando «gli altri» erano un plurale rigorosamente maschile.

Fernanda con Fabrizio De Andrè

Ed è con questa credibilità — conquistata «con chilometri di libri e di viaggi, leggendo tutto e andando a incontrare di persona tutti» — che «ha messo il Corriere al centro del dibattito culturale, dandogli l’immagine di giornale libero e rispettoso del lavoro degli scrittori». Il tutto «con un’umiltà e una gratitudine continue verso il giornale: era una che ti ringraziava — lei, Fernanda Pivano — per averle pubblicato un pezzo, senza mai pressarti prima. Non era consapevole di quanto fosse brava».

Quanto alla libertà, Antonio ricorda il racconto di una telefonata tra Allen Ginsberg e una giornalista cui Nanda aveva assistito, e in cui «l’aveva visto alterarsi a poco a poco, lui così mite e gentile. Alla fine era sbottato, “lei non ha capito che io ho lottato tutta la vita per l’affermazione della libertà, ma mi sono reso conto di aver perso”. Nanda aveva poi provato a consolarlo ricordandogli le cose meravigliose che aveva scritto e fatto da poeta e campione dei diritti gay, ma lui le aveva risposto che la strada era più lunga di quanto potesse immaginare». Valeva per un omosessuale, e valeva per una donna.

Ogni consolazione fisica dell’esistenza

In una ricognizione dell’animo pivaniano attraverso uomini che l’hanno conosciuta bene, non può però mancare lui, Ettore Sottsass, che prima di morire — la precedette di un anno, nel 2007 — ha lasciato un’autobiografia magnifica, scritta di notte, in cui la loro storia è raccontata nell’essenza, con frammenti che sembrano lampi.

Lui, Sottsass, l’apparente elisione tra donna libera e vincolata la spiega coi concetti di indipendenza e controllo, architravi dell’esistenza di ogni italiana audace dal Dopoguerra in poi: «Nella rivoluzione culturale nella quale Fernanda era immersa anima e corpo esisteva un postulato che era, come tutti i postulati, indiscutibile. Anzitutto prevedeva un nuovo stato indipendente della donna nella società, non conquistato con i sistemi della seduzione arcaica, ma con una specie di continuo controllo e invenzione della propria condizione etica. Un atteggiamento del genere, basato appunto sul controllo, significava tenere la distanza, una vasta distanza, da ogni partecipazione o consolazione fisica dell’esistenza».

Si erano conosciuti per telefono

Insomma, Ettore l’aveva capita perfettamente, e per questo non sorprende che nella loro storia durissima e meravigliosa si concentrino tutte le lacerazioni di Nanda, la libertà come cifra di una vita e la sua irraggiungibilità.

Si erano conosciuti prima della guerra, con una telefonata che lui racconta così: «Buongiorno. Mi chiamo Fernanda Pivano, sono laureata in lettere e filosofia, ho studiato pianoforte per otto anni, ho preso il diploma e adesso organizzo i concerti del GVF al conservatorio. Vorrei mettere in scena un’opera del Cinquecento. Poi le spiego meglio. Mi hanno detto che lei è molto bravo a disegnare scenografie e volevo sapere se le poteva interessare».

Si videro e lei non smise più di amarlo, lui ci mise un po’ a cominciare. Lei ad accoglierlo al rientro dal fronte jugoslavo e a nasconderlo nella casa del suo medico di famiglia. Lei a chiedergli due volte di sposarla, dopo la guerra. La prima lo trova «totalmente impreparato». Lei gli spiega: «I miei vogliono che io mi sposi. Sposerò un ufficiale americano che conosco. Lavorava con me alla radio. Andrò a vivere a Roma». Lui: «Non ho detto niente. Non avevo niente da dire. Una pietra mi è caduta addosso».

Il segreto di una vita

Quel primo matrimonio resta un mistero per tutti, perché lei non ne ha mai più parlato. Un mistero il marito, un mistero il divorzio. «Sacra Rota», immagina Enrico Rotelli, anche perché altri modi non c’erano. Sottsass racconta il nuovo incontro così: «Mi ha detto che stava divorziando e che sarebbe tornata a casa a Torino e se avevo ancora voglia di stare con lei. Le ho detto che mi sarebbe piaciuto molto, e dopo qualche mese è stato così».

Nel 1949, il matrimonio con rito civile a Torino, poi in treno a Milano, «il nostro viaggio di nozze» nella città che sarebbe diventata la loro base per il mondo.

Fernanda con Enrico Rotelli, al fianco della scrittrice negli ultimi anni, fino alla morte nell’agosto del 2009

Ma, fin dal primo momento, entrambi hanno l’esatta percezione di cosa li attendeva. Il racconto di Sottsass trasmette una lucidità brutale: «Sono entrato nell’ingresso blu e rosso della nuova casa tenendo in braccio la sposa Fernanda, poi l’ho fatta scivolare adagio perché mettesse i piedi per terra. “Eccoci qui” le ho detto, e senza neanche accorgermene mi sono messo a piangere. Fernanda mi ha chiesto: “Perché piangi?”. Non sapevo, o forse sì.

Le ho risposto: “Mi è entrato di colpo nella testa il pensiero che adesso dovrò vivere con te tutta la vita. Scusami”. Scusarsi non serviva. Fernanda non ha detto niente, ha sorriso. Era un bel sorriso, ma penso che stesse molto male, malissimo. Così, con un sotterraneo, inconscio, impercettibile senso di claustrofobia è cominciata la mia vita con Fernanda. Una vita fantastica, alta, senza cadute nel bene e nel male, andando di qua e di là curiosi e sempre sperando».

Antonio Troiano

Un impercettibile senso di claustrofobia

È così che due persone eccezionali comunicano in modo trasparente le difficoltà classiche di una coppia, nel 1949, l’indisponibilità di lui alla monogamia, la disponibilità di lei a subire anche i tradimenti. Il modello è rovesciato dal fatto che è lei il pilastro materiale, lei a mantenerlo mentre lui si avventura nel mondo del design industriale, lei a sgrezzarlo nei circoli culturali milanesi e con la passione dei viaggi. Prima Parigi, dove da sconosciuti vanno da chiunque — la moglie di Kandinsky, Brancusi, Kenzo, Paco Rabanne, tutti ad accogliere nei loro studi quei due giovani italiani pieni di vita — poi finalmente l’America, dove Nanda incontra gli scrittori, Faulkner, Carver, Dos Passos, Miller, Mailer e soprattutto quelli della Beat che segneranno la sua vita, Ginsberg e Kerouac su tutti. In quella fase, «in fondo la vita era bella. Stavamo penetrandola, eravamo forti, luminosi, contenti e non avevamo paura di niente; forse avevamo paura soltanto della nostra fortuna di essere giovani».

Ecco, quella fortuna, consumandosi nel tempo, li avrebbe divisi, la gioventù si sarebbe trasformata in rimpianto e maledizione. Un giorno, molti anni dopo, incrociano una coppia giovane in aeroporto, «e Nanda ha detto: “Che bella ragazza”. Ero soprappensiero, forse pensavo a lei o forse pensavo nel vuoto e credo di aver risposto: “Beato lui”. Mi era sfuggito, non lo pensavo, ma per il cuore di Nanda deve essere stato come una pugnalata». Il racconto della fine è altrettanto tagliente: leggerlo è soffrire.

Nanda, malata di polmonite, «è molto pallida nel letto, stanca, e piange, piange disperata quando le viene addosso la certezza che la felicità passata, la dolcezza, la speranza, la voglia di fare, le parole, i viaggi, i sorrisi, e tutto il toccarsi, aspettarsi, cercarsi, dirsi, confessarsi, domandare, subire, rinunciare, dare, sentirsi insieme, è tutto finito, non tornerà più, svanito, svanito come un profumo svanisce nell’aria». Nei litigi, «mi rovescia addosso un muro di accuse, mattone su mattone, per colpe antiche, recenti, grandi e piccole. Resto senza parole, resto immobile con le mie colpe da un lato e con il paesaggio della sua vita devastato per sempre e — questo lei, Fernanda, non lo accetta — anche quello della mia».

A sconvolgerli, i due paesaggi, è il fatto che lui, a 57 anni, è capace di «innamorarsi come un cretino» e la lascia per una giovane artista catalana. Il divorzio arriva dopo 27 anni di matrimonio quando non c’è più bisogno della Sacra Rota, è diventato legge per le battaglie di donne come Nanda. Da quel momento, lei sviluppa una sorta di misoginia intermittente. Ma la parte più importante è «intermittente». Racconta Rotelli: «A parole odiava tutte le donne, ma quando le conosceva le ammirava moltissimo. Più giovani e carine erano, più la facevano soffrire perché le ricordavano le donne che le avevano tolto Ettorino. Ma poi spesso ne diventava amica e consigliera».

Fernanda con Allen Ginsberg

Il sentimento era sempre ambivalente. Ancora Rotelli: «Quando arrivavano giovani colleghe a intervistarla, lei non mancava di ricordare a tutte che la loro libertà era il frutto delle sue lotte e del suo lavoro: “Se potete vestirvi così, in jeans o in minigonna, se potete scopare — sì, è un verbo che usava spesso — lo dovete ai miei amici scrittori, alla rivoluzione dei costumi e del sesso che hanno portato nel mondo”. E poi aggiungeva puntualmente: “Voi non dovete avere i rimpianti che ho avuto io, come con Hemingway”». Però mai debordare, e pazienza se il problema è proprio capire qual è, il bordo. Quello che non le piaceva era «l’atteggiamento esageratamente provocante. Non lo considerava autentico. Aveva adorato e praticato il teasing americano», l’ammiccamento misurato, il flirtare raffinato.

Il dito bagnato di whisky sul bordo del bicchiere

Insomma, questa donna che «preferiva la compagnia maschile», che per tutta la vita aveva conosciuto, accettato e considerato la norma «il modello del maschio che ci prova, perché così erano stati tutti i maschi della sua vita, il padre, il marito, gli amici», e che del Bukowski da tutti descritto come un arrapato impunito diceva «a me ha regalato una rosa», probabilmente, dice Enrico, non avrebbe capito il MeToo (mentre non avrebbe esitato a sostenere Black Lives Matter (le vite dei neri contano, ndr).

Allen Ginsberg e Kerouac ai tempi di On the road

Non avrebbe forse raggiunto i livelli espressivi di un’altra grandissima come Natalia Aspesi — «Se si incontra un maschio femminista, tirare su le mutande e scappare» — però «le avrebbe dato fastidio l’estremismo», come le aveva dato fastidio certo «femminismo rancoroso» degli anni Settanta. Una femminista classica, d’altronde, non avrebbe forse capito lei, il suo amore infinito e incondizionato per “Ettorino”, l’averlo aspettato sempre, nonostante tutto. Ancora nel 2004, da una stanza del San Raffaele dov’era stata ricoverata precipitosamente dopo un viaggio a New York, gli diceva «quando vuoi tornare io sono qui, ti aspetto», e l’ha aspettato fino all’ultimo giorno. Lui non è tornato «ma l’ha sempre aiutata, anche dopo la separazione», ricordano sia Troiano sia Rotelli, andando oltre gli alimenti, a sua insaputa.

Ma è possibile che nessun altro uomo sia riuscito a prendersi spazio in quell’anima? «Io credo che fosse innamorata di un amore tenero per Jack Kerouac», rivela Antonio Troiano. Un amore protettivo, che anche nelle pagine più impervie di On the Road vedeva «cose meravigliose, perle». E quando tutti lo facevano bere lei gli prendeva il bicchiere e glielo riempiva d’acqua, «e gli passava il dito bagnato di whisky sul bordo», aggiunge Enrico, in un inganno fatto di premura. Premura materna, certo: «Lo chiamava Ti Jean, come lo chiamava sua madre».

Alla fine, l’amore unico è stato quello in cui si è autoreclusa. Ma è stata una scelta, che come ogni scelta combatte coi retaggi e convive coi rimpianti: non per questo è meno libera. Ha i limiti che ogni libertà umana incontra o si dà. Tutti abbiamo una parte d’identità ereditaria e una elettiva. L’amore di Nanda per Ettore fu frutto di entrambe.

Ecco, oltre a portarci libri imperdibili e ad aprirci l’America, quindi il mondo, Fernanda Pivano è stata tutto questo, una straordinaria donna del Novecento che ha amato un uomo, ne ha ammirati tanti, ne ha rimpianto qualcuno, ma è soprattutto alle donne che, da maestra riluttante, ha mostrato la libertà, la sua fatica quotidiana, la sua meraviglia complicata e necessaria, il suo essere orizzonte irraggiungibile ma a cui non vanno mai voltate le spalle.

Articolo di Gianluca Mercuri per Sette del Corriere della Sera

Segue il video dell’intervista di Fernanda a Kerouac. Lo scrittore americano è visibilmente “bevuto”. Il video è, a suo modo, un documento di quell’epoca in cui spesso infelicità personale e ribellione sociale annegavano in un bicchiere di alcool. Ecco un commento che potrete leggere anche su Youtube: “Eccoli qua: il signor libertà e la signorina anarchia. Che bello quando la poesia non prendeva il potere ma ci sputava sopra! Kerouac, il magnifico e struggente disperato e la Pivano, la ribelle con grazia.”

HOTEL CHELSEA

HOTEL CHELSEA

L’ultima battaglia per l’hotel maledetto: da Bogart a Kerouac, al «Chelsea» è successo di tutto. Ora i pochi residenti resistono ai piani per renderlo un luogo di lusso.

Patti Smith e Robert Mapplethorpe, la poetessa e il fotografo, belli e dannati, che vegliano su New York dalla scala antincendio di ferro battuto arrugginito come due angeli in maglietta lisa e jeans stracciati. «La camera 546 basta da sola a farti star male, la camera 115 con le regine del sadomaso», Nico che canta Chelsea Girls nell’albergo che l’ha ispirata, dedica al veleno di Lou Reed e Sterling Morrison. Tennessee Williams con i comodini pieni di tranquillanti, Arthur C. Clarke e 2001 Odissea nello spazio su una macchina per scrivere a noleggio e porta di corsa le pagine a Stanley Kubrick, sull’Upper East Side, il futuro papà di Arancia Meccanica non amava i luoghi malfamati. Nancy Spungen ragazza di Sid Vicious morta ammazzata nel bagno della camera 100, martire del punk. Le notti senza fine di Iggy Pop, camera 126, la stessa di Bette Davis molti decenni prima. Humphrey Bogart già ubriaco al momento del check-in, che continua a bere in camera finché svenimento non sopraggiunga, rinviene la mattina successiva lasciando la camera sfasciata, mobili rotti, vomito ovunque.

Patti Smith al Chelsea

Il giovane Jack Kerouac bellissimo e non ancora sfregiato dall’alcol e dalla tristezza, ciuffo nerissimo alla Elvis accuratamente bagnato e accuratamente pettinato, che sorride davanti alla macchina fotografica dell’amico Allen Ginsberg. Janis Joplin sorridente nell’androne caotico e allegro, ignara della sorte avversa che di lì a poco la farà finire malissimo, come tante altre ospiti, Edie Sedgwick musa piromane di Warhol che viveva nella camera 105, quando non la cacciavano i pompieri per spegnere uno dei numerosi incendi che le piaceva appiccare.

Tutti al Chelsea Hotel vissero — e a volte morirono — i grandi della letteratura, del cinema, del teatro, del rock. Il palazzo ottocentesco disegnato da un francese un po’ matto, casa-museo del sogno di una Bohème impossibile è speciale perché di solito — «di solito» non vale al 222 West della 23esima strada, New York, New York — sono gli alberghi di lusso a diventare famosi ma dall’inizio il Chelsea è stato un’altra cosa. Una comune. Un rifugio per artisti, dove i gay non venivano discriminati nei decenni della semiclandestinità pre-Stonewall (1969), dove le donne maltrattate in fuga dai mariti violenti trovavano privacy e, finalmente, pace.

Marzo 1969 La cantante Janis Joplin di fronte all’ingresso del Chelsea Hotel a New York

Il Chelsea era secondo un drammaturgo famoso che lì si rifugiò dopo la fine del matrimonio con un’attrice, una certa Marilyn Monroe, «Un caos spaventoso e ottimista, e allo stesso tempo la sensazione di una famiglia enorme, antiquata, protettiva», Arthur Miller scripsit.

Peccato che da un decennio questa specie di comune sia chiusa al pubblico: il restauro senza fine, raccontato dal New York Times, è l’ultimo atto di una storia un po’ deprimente, i vecchi proprietari che muoiono, vendono, e poi le cause civili e infine il subentro di un grande gruppo alberghiero che vorrebbe liberarsi dei 50 residenti «long-term», i superstiti che non sono però sfrattabili causa bizantine regole delle locazioni nella città con gli affitti più cari del mondo occidentale.

Ecco così accuse reciproche, fotografie di lavori senza fine che provocano allagamenti, rumore, polvere, rischio amianto e altro. Traslocare? Improponibile perché chi vive al Chelsea oggi pagando da mille a quattromila dollari al mese non troverebbe nulla a New York di lontanamente paragonabile.

Soluzione? I lavori finiranno presto, e a pandemia superata, a fine anno, è prevista la grande inaugurazione, il Chelsea polveroso e incasinato (e francamente non pulitissimo) dei tempi che furono si reincarnerà in un hotel di lusso (prezzi a partire da seicento dollari a notte) con un nome speciale e un passato glorioso e un futuro costoso, il bar affollato e i cocktail da 35 dollari, le serate a inviti, gli eventi «corporate», influencer e Instagram, la morte della Bohème.

Articolo di Matteo Persivale per il Corriere della Sera

Di seguito il video di Leonad Coen ispirato dal celebre hotel.

RILEGGENDO SPOON RIVER

RILEGGENDO SPOON RIVER

Fernanda Pivano con Ettore Sottass 1969

Rileggendo Spoon River ho ripensato a Fernanda Pivano, scomparsa nel 2009 all’età di 92 anni, dopo una penosa malattia. La sua vita si intreccia subito con l’intellettualità piemontese: Primo Levi è suo compagno al liceo D’Azeglio, Cesare Pavese il loro insegnante di italiano. Si diploma in pianoforte al Conservatorio di Torino, poi si laurea in filosofia con Abbagnano. Sposa Ettore Sottsass, architetto di grido, marito infedele che le rende la vita tormentata. La sua opera di traduttrice resta ancora oggi insuperabile per le opere di quegli autori americani della beat generation, a lei così congeniali e ai quali si legò in vita di amicizia e per comunanza di ideali: Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti e altri.

Per ricordare i suoi ultimi anni ho voluto riportare una pagina, la 1529, del suo Diario 2007-2009, edito da Bombiani, nella quale Fernanda Pivano, con accenti amari, ci dice di sè e della sua vecchiaia, tracciando un ritratto di quegli anni gravidi di incertezze e di minacce per l’umanità.

Nella chiusura del brano, Fernanda Pivano si ricollega alle poesie di Spoon River di Edgard Lee Master, che ispirarono un album di canzoni al cantautore Fabrizio De Andrè e in particolare al Suonatore Jones: “Finì con i campi alle ortiche, finì con un flauto spezzato, e un ridere rauco, e ricordi tanti, e nemmeno un rimpianto”. Vivere i 90 anni come un gioco è viverli, appunto, senza rimpianti. Una parabola bella e struggente che pare abbia accomunato il cantautore genovese e la scrittrice, come due compagni di viaggio, come quelle anatre selvagge che vanno… vanno.. perché bisogna andare.

Il 4 settembre 2011 viene presentato alla 68ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nella sezione Controcampo italiano, il docufilm Pivano blues – Sulla strada di Nanda, con Fernanda Pivano e Abel FerraraLorenzo Cherubini “Jovanotti”, Piero PelùVasco RossiFrancesco GucciniLuciano LigabueFabrizio De AndréDori GhezziMarco Castoldi “Morgan”, Premiata Forneria MarconiVinicio CaposselaJay McInerneyErica JongPatti SmithLou Reed.

Pivano con Hemingway

“..Ho sempre cercato di vivere di passioni e tutto questo non riporta solo alla disperazione dei miei anni, con le vene che non reggono alla pressione di una semplice iniezione. Ahimè. E’ difficile trovare il coraggio quando si sono superati e novant’anni, quando ti guardi intorno e ti senti perdente e sconfitta per avere lavorato una vita scrivendo esclusivamente in onore e in amore della non violenza e vedere il pianeta cosparso di sangue.

Ma c’è una cosa che mi fa sperare, che mi fa credere ancora nella pace, che mi dà la forza di aiutare i giovani. Credo che il mondo abbia voglia di ricominciare a sognare..

Fernanda Pivano con Jack Kerouac

A questi ragazzi di diciotto anni che mi mandano le loro poesie, i loro racconti, i loro auguri e mi chiedono suggerimenti per superare le tragedie della vita non so cosa rispondere.

Pivano con De Andrè

Ma per me questi giovani sono una grande, meravigliosa, consolazione. Il segno che qualcosa che io ho fatto ha lasciato un piccolo segno, un piccolo seme.

E allora dico loro di sperare. Di battersi per vivere in un mondo senza guerre… di sorridere senza rimorso di non avere aiutato nessuno.

Forse questo è il segreto per riuscire a sopravvivere anche a questa età. Forse è questo il segreto del vecchio suonatore Jones dello Spoon River caro alla mia giovinezza, che giocò con la vita per tutti i novant’anni”

BERE

BERE

LETTERATURA E BOTTIGLIA: PERCORSI NARRATIVI TRA STORIA, COSTUME E ARTE – LO SPAZIO DEL VINO NELLA VITA DELL’UOMO – ” EMPI IL BICCHIER CHE E’ VUOTO/VUOTA IL BICCHIER CHE E’ PIENO/NON LO LASCIAR MAI VUOTO/NON LO LASCIAR MAI PIENO. “

Come poche altre, la civiltà del bere è allocuzione ricca di rimandi e di suggestioni.

In essa si condensa e stratifica l’intera storia dell’umanità. Fin dalle più remote testimonianze, l’atto dell’uomo che beve risponde ad un bisogno elementare che sovente si accompagna ad un rito, un evento sociale, un valore da tramandare, un ricordo da cancellare, un patto da suggellare, un’amicizia da consolidare.

Primo fra tutti, nell’incertezza primordiale di una natura ostile, il legame con il trascendente, con Dio.

L’uso delle bevanda, più specificamente del vino, nei riti sacri, propiziatori o funebri, negli sponsali è diffuso in ogni epoca e in ogni letteratura, fin dalle epoche più arcaiche.

Nel Vecchio Testamento (genesi 9:20) si racconta di Noè che pianta la vigna sul monte Ararat, quello stesso dove si salva dal diluvio universale e sulle cui creste ancora oggi archeologi fantasiosi ricercano l’Arca.

Vicino a Montevarchi, in provincia di Arezzo, in un deposito di lignite, sono stati ritrovai i resti fossili di tralci di vite datati a 2 milioni di anni fa.

Residui vinosi sono stati trovati all’interno di una giara di terracotta, di circa 9 litri di capacità, venuta alla luce in un villaggio neolitico nel nord dell’Iran.

Si può dire che l’uomo a inventato il vino? Sì e no.

Di certo la vite è pianta spontanea, come spontanea sarà stata la prima fermentazione del liquido dell’uva, magari innescato di qualche lievito.

La trasformazione poi del metanolo in vino, nella bevanda come oggi la conosciamo e apprezziamo, è tutta un’altra storia, che non poteva essere scritta senza la mano dell’uomo.

Nella storia della letteratura la prima testimonianza dell’uso di bevande alcooliche la troviamo incisa sulle 11 tavolette di argilla che raccontano il mito di Gilgamesh il sovrano sumero, per due terzi divino e per un terzo uomo, grande amatore (secondo gli studiosi ha inventato lo ius primae noctis). Chissà quale parte della sua natura identitaria lo spingeva ad allietare il gargarozzo: quelle divine o quella umana?

Il vino, certo confortava il viaggio agli inferi di Kha, l’architetto dell’antico egizio, la cui tomba fra le poche trovate intatte, è ora conservata al museo Egizio di Torino.

Osiride è dio della fertilità e della morte, quindi  colui che consente la vita e che la spegne, pesando i cuori nell’oltretomba, dando in pasto ad un mostro quelli che erano più pesanti di una piuma.

Ebbene, si narra che proprio Osiride insegnasse agli egizi la coltivazione della vite e la produzione del vino.

Architetto Kha, Museo Egizio Torino

Le testimonianze letterarie sulla vite e la produzione del vino in ambiente greco e romano sono abbondantissime, a volte sotto forma di frammenti, altre volte come snodi narrativi per motivare l’azione o descrivere l’ambiente, all’interno di famosi poemi, come l’Odissea,IIiade, Eneide.

Omero così descrive il giardino di Alcinoo: “ Ivi una vigna è anche piantata feconda/di grappoli; parte di questi seccavano al sole/ su aprica terrazza, spiccati, e fanno di altri vendemmia/ e altri li pigiano; uve più avanti/ acerbe pendono in fiore, altre imbrunano” (odissea VII).

Artemisia Gentileschi: Il giardino di Alcinoo

Orazio, liberto quindi schiavo liberato, dalla nativa Venosa non porta solo l’aglianico, ma un vero e proprio culto per la vite: nel Carme I.18 esorta l’amico Quintilio Varo a coltivare la vigna “voce di Dioniso, padre di amore di bellezza”. Fra una libagione e l’altra, meditando sulla frenetica vita dell’urbe non ancora eterna, Orazio nel Carme II-11 si rivolge a Quinto Irpino per incitarlo a bere il vino perché “..sperde i vecchi pensieri che consumano”. Nel Carme I,11, vv 6-7 Orazio esorta” filtra il vino, poiché la vita è breve rinuncia alle speranze lontane”, …..

Orazio Flacco

Sulla diffusione del mito di Dioniso, ucciso dai Titani appena nato e dalle cui ceneri sparse nasce la vite, abbiamo testimonianza diffusa nel materiale archeologico e nei reperti attici, corinzi, italioti, nei quali il dio è raffigurato ebro e danzante sotto pergolati, inseguito della baccanti.

Lo sviluppo della viticultura a Roma avvenne grazie alla importazione di nuovi vitigni dalla Grecia e, specie con Augusto, alla stabilità politica e all’assegnazione delle terre ai veterani. Ben presto viticoltura e enologia rappresentarono aspetti importanti dell’economia romana, come testimoniano i trattati di agricoltura da Catone a Varrone  a Lucio Moderato Columella, allo stesso Virgilio e i ritrovamenti di Ercolano e di Pompei.

E’ probabile che compagno di libagioni di Orazio, magari allo stesso desco di Augusto, sia stato il poeta Ovidio, relativista ante litteram, una sorta di bunga bunga latino, mondano e salottiero, tre matrimoni, poeta ufficiale di Augusto fino alla caduta in disgrazia, sulla quale sono fiorite molteplici congetture. Ovidio, sfuggente sul punto, nella sua Ars amatoria I 237-244, si limita ad affermare: “il vino dispone l’animo all’amore e lo rende pronto alla passione” . Aggiungo ai possibili motivi delle caduta la più verosimile: una sbornia colossale e una confessione troppo esplicita all’augusteo ospite (in vino veritas, appunto).

Un Catullo in stato di alterazione alcoolica è quello che incita un coppiere a versagli non acqua, ma un calice di Falerno: “ tu via, dove vuoi, vattene, acqua rovina del vino; con gli estremi va a stare. Questo è puro Bacco”. (Carme 27). Provenendo da Verona è assai probabile che Catullo abbia avuto precoce dimestichezza con il vino, nel tentativo di trovare conforto dal travagliato amore per Lesbia.

L’affinità fra corpo e vino si rinviene nella consuetudine ancora attuale, quando si versa un po’ di vino, di inumidirsi le dita e toccarsi reciprocamente in segno benaugurante . Spandere il vino per farne sprigionare le proprietà vivificanti e miracolose è credenza che risale addirittura ad età arcaica e documentata durante i simposi greci.

Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia XXII,114 racconta di Augusto che chiede all’ultra centenario Pollione Romilio il segreto della sua buona salute: “all’interno col vino, all’esterno con ‘olio” risponde il vecchio. Lo stesso Plinio, secondo quanto riporta Manica Nanetti nel suo Del corpo del vino, elencava i vini conosciuti dai romani in circa 80 qualità pregiate e cento di normale qualità.

Né poteva mancare Virgilio, il poeta bucolico per eccellenza, che nel II libro della Georgiche elenca le qualità dei diversi vini, fornendo consigli su come scegliere il terreno adatto, sulla zappatura, sui sostegni, sulla potatura della vite e sulla raccolta.

“Ci sono le vigne di Taso, ci sono le uve di Marea, bianche,

s’addicono queste a terreni grassi, quelle a terre più fini;

e la psitia migliore per il passito e il lageo leggero,

che alla fine fa barcollare e impaccia la lingua,…

…. Vi sono le viti aminee, vini robustissimi,

a cui cedono il passo quello di Tmolo e persino il Faneo, re dei vini..

Il vino romano, a causa delle scarse tecniche di conservazione, era un liquido assai diverso di quello attuale: sciropposo, molto alcoolico e dolce, a volte col sentore resinoso che prendeva dai recipienti di terracotta in cui veniva conservato. Com’è testimoniato in numerosi scritti, il vino veniva bevuto allungato con acqua e mischiato a miele o altre spezie.

Lorenzo Bianchi, ricercatore, sull’Osservatore Romano del dicembre del 2005, ricorda la prima esplicita menzione al fenomeno della transustanziazione, una epigrafe di otto versi collocata nella basilica di San Lorenzo Fuori le Mura in Roma che recita: “Il vero sangue è sull’altare e sembra vino”.

Come non ricordare la centralità del vino nella liturgia cristiana, fin dal suo esordio sul Vangelo: ricordiamo che i famosi ultimi che saranno primi sono gli operai che lavorano una vigna (Matteo 20, 15), che la vigna sarà data ai vignaioli che la sapranno far fruttificare ( Matteo 21,17) mentre il primo miracolo di Gesù è quello della trasformazione dell’acqua in vino per le nozze di Cana ( Giovanni 2,1-11).

In tale occasione, curiosa è l’affermazione che Gesù fa allo sposo, che suona così: gli altri danno prima il vino buono, poi quello meno buono, tu sei fortunato perché puoi dare tutto vino buono. E’ la testimonianza storica di una pratica invalsa già allora: presi dai fumi del vino puoi dare agli avventori qualsiasi intruglio.

Durante l’ultima cena Gesù si rivolge ai discepoli dicendo: “io sono la vera Vite e il mio padre è il vignaiolo.. Io sono la Vite e voi i tralci,,”(Vangelo di S. Giovanni 15).

Il significato mistico è evidente: la vite è la chiesa, gli apostoli devono fruttificarla, come i tralci devono crescere, recare grappoli, alimentare la cena del Signore. Solo una cultura fortemente legata alla cultura e alla pratica della coltivazione dei vigneti poteva suggerire all’ebreo palestinese Gesù di Nazareth una similitudine così diretta. 

 Crollato l’impero romano, le campagne restano a lungo incolte, inselvatichite. I villani lasciano i poderi insicuri e si rifugiano nelle città, nasce l’economia curtense. I vassalli dispongono di tanta terra da coltivare e la indispensabilità del vino ai fini eucaristici, spingono gli ordini religiosi a coltivare le vigne e a perfezionare le tecniche di vinificazione, alcune delle quali ancora in uso adesso.

San Benedetto, nella sua Regola, con una buona dose di realismo, sa che opporsi all’uso del vino nei conventi sarebbe una partita persa prima di giocarla.

La Regola è quella riassunta nel motto ora et labora ed è comprensibile che seppure i lavori più pesanti fossero affidati ai  postulanti o agli artigiani del convento, di certo ai monaci un cicchetto ogni tanto, magari nel rigore della cella, non doveva essere sgradito.

San Benedetto allora così detta: “ Ben si legge che il vino ai monaci assolutamente non conviene; pure perché ai nostri tempi è difficile che i monaci ne siano persuasi, allora ciò acconsentiamo, in modo però che non si beva fino a saziarsi”. Chissà se sarebbero bastate, al frate cellario, in questo caso, le pur capienti botti di alcuni cantine conventuali. La Regola stabiliva, per la precisione, una razione pro capite giornaliera equivalente al nostro quartino.   

Il pensiero va al romanzo di Eco Il nome della rosa, capostipite del genere giallo storico erudito, all’abbazia localizzabile probabilmente in Val di Susa, e in particolare a due dei personaggi che compaiono nel libro: il cellario, appunto, Remigio da Varagine e il dolciniano Salvatore, crapulone, deforme e ripugnante, fornicatore e gran bevitore.

Una scena del film Il nome della Rosa

Nel romanzo non ci sono pagine dedicate al vino e all’arte di vinificare, che pure ci sarebbero state bene, vista l’attitudine dei frati.

Ma alcuni personaggi sembrano in preda ad una eccitazione dionisiaca, ad una perenne ansia espiatoria.

Fra queste spicca Salvatore lo sguattero, una figura che ricorda, per i tratti fisici e per la misteriosa lingua che farfuglia mischiando latino volgare, dialetto francofono, parole auliche ed ecclesiastiche, un vero e proprio satiro, simbolo di ogni eccesso.

In fondo se c’è nel libro una morale questa può essere che ogni eccesso rovina: frate Jorge per l’eccessivo amore per Dio, i crapuloni e incontinenti per l’eccesso dei piaceri. Una morale sulla quale, di fronte all’ennesimo bicchiere di vino, varrà la pena riflettere.

Frate Guglielmo, unica figura interamente positiva del romanzo, risponde al novizio che lo interroga: “Cosa vi terrorizza di più della purezza? chiesi- La fretta, rispose Guglielmo”. (pag. 388 Bompiani 1980).

Frate Guglielmo, interpretato da Sean Connery

Un indiretto elogio alla lentezza, che avrebbe fatto di Guglielmo un buon vignaiolo e un ottimo enologo, viste le sue attitudini alla calma e alla riflessione, il pensiero originale, la curiosità, l’amore per l’ordine e per le piccole cose.

Nel Medioevo col crescere dei consumi si infittiscono le regole per vinificare e mescer il vino, temi già trattati da Carlo Magno nel suo editto De Villis. Gli statuti medioevali disciplinano minuziosamente  la composizione della bevanda, stabilendo che non possa contenere spezie o zuccheri.

Si stabilisce, ad esempio, che il vino novello, quello da consumare fra novembre e dicembre, deve essere segnalato all’ingresso della taverna da un rametto di ulivo o altra pianta, tradizione ancora in uso, specie nelle zone rurali del sud d’Italia. Forse è da questa antica usanza che prende nome “foglietta” il bicchiere di vino.

Nelle hosterie (da host, cioè ospitante) vengono servite pietanze particolarmente adatte alle bevute: ad esempio minestra di fagioli secchi, servita salata, lo scapece, pesce fritto e poi marinato in sale e aceto.

Legumi, zuppe, farinate vengono servite comunemente anche sulle tavole dei ricchi, anche se di contorno ai piatti più costosi, a base di carne e selvaggina, accompagnato dai vini più invecchiati e pregiati.

Il cibo assume un forte valore simbolico di status, come ci ricorda Massimo Montanari nel suo Alimentazione e cultura nel Medio Evo” Laterza 1988, ma attorno alla tavola rotonda della taverna cade ogni distinzione sociale. Il villano e il nobile sotto la frasca, accomunati nell’eccitazione benefica del vivo, fanno proprio l’invito di Orazio aduna gioia, magari frugale, ma per brevi attimi incondizionata.

Le qualità curative del vivo crescono nella credenza popolare e nella pratica quotidiana con l’affinamento delle tecniche di vinificazione e con la creazione, all’inizio nei conventi e nelle abbazie, per curare l’anima dopo avere curato il corpo, poi ad opera degli speziali a fini commerciali, di bevande a base di vino o alcool, con aggiunte di additivi, principi attivi della vecchia farmacopea, varianti utili ad incontrare i gusti dei consumatori.

Per avere esatta cognizione di cose fosse il vino d un punto di vista chimico occorrerà attendere Lavoisier, ciò nonostante la sapienza nella preparazione dei semplici l’evidenza empirica della loro efficacia, unita alle fanfaronaggine di uno stuolo infinito di botanici improvvisai, piazzisti senza scrupoli e un caravanserraglio di avventurieri di ogni risma, contribuiscono ad una diffusione incredibile…

Fracastoro nel 1555 nell’opera “De vini temperatura sententia” racconta di una disputa fra due medici veronesi (due perdigiorno nullafacenti) circa la classificazione del vino, secondo le indicazione ippocratiche, se cioè ritenerlo “caldo e umido” o “caldo e secco”. Ci consola il fatto che, persi nelle loro dispute, almeno i due non potevano fare danni sui poveri pazienti.  Nel libro V di Dioscoride, nella traduzione del Mattioli del 1568 si legge: “ liquore, vero sostentamento della vita nostra, rigeneratore de gli spiriti, rallegratore del cuore, restauratore potentissimo di tutte le facultà, operationi corporali, però meritatamente si chiama vite la pianta preziosissima, che lo produce… Ma bevuto senza modestia, senza regola (come fanno gli ebbriachi) infrigidisce tutto il corpo(…) nuoce al cervello, alla nuca, ai nervi: però causa (…) mal caduco, spasimo, stupore, tremore, abbagliamento d’occhi, vertigini(…) letargia.”

Lo stesso Mattioli consiglia ai lettori di “bersene ogni mattina a digiuno un cucchiaio” per sfruttare le qualità curative del vino.

Il ‘600 per quanto riguarda il vino è prevalentemente francese. Non erano ancora stati inventati i caffè, ma le botti che sprizzavano vino alla Croix de Lorraine o a la Pomme di Pin, costituiscono il primo esempio di locali alla moda che nei secoli della Bella Epoque renderanno Parigi celebre nel mondo.

Ben inteso, i frequentatori di allora non erano gli squattrinati artisti boemiennes dell’800-900, ma borghesi ben pasciuti, amanti della buona tavola e del buon bere. Fra di essi anche letterati eccellenti, come Racine, Molière La Fontaine.

La figura dominante nel campo enologico è in quel secolo un abate, procuratore presso l’abbazia di Hautvillers: dom Pierre Pérignon, il cui nome ricorre ancora oggi su una celebre etichetta di champagne.

Abbè dom Pérignon

Usava il pinot nero, a perfetta maturazione, libero di muffe o acini verdi: l’uva doveva essere tutta di qualità eccellente. La pressature era rapida e il mosto subito raccolto e travasato in botti. A vino fatto esso veniva travasato e chiarificato più volte. Verso maro, alla luna, dom Pérignon metteva il vino in bottiglia dove i residui di zucchero ancra presenti fermentavano in bottiglia, conferendo al vino le famose bollicine. Se dopo 18 mesi il vino non si spumantizzava, veniva venduto come vino normale.

Per resistere ala pressione le bottiglie, inizialmente a forma di mela, poi nel ‘700 a forma di pera, dovevano essere piuttosto robuste; ciò nonostante un terzo della bottiglie si rompeva.  La chiusura della bottiglia, avveniva con un tappo di legno, avvolto con canapa o tela impregnata di sego legato con una funicella sigillata con pece o cera.

I forti costi di produzione e di trasporto rendevano lo champagne particolarmente costoso: una bottiglia era capace di valere quanto quattro giorni di paga di un operaio.

Il ‘700 per la storia del vino non è il secolo giusto: l’inverno del 1709 fu terribile in Europa, e in special modo in Francia. A Parigi la temperatura si mantenne per oltre 10 giorni a -20 °C.  Si gelarono le viti e il vino nelle botti all’interno delle cantine. La penuria fu terribile e i prezzi si impennarono. Questo provocò alterazioni sui mercati e ripercussioni sociali, a riprova del ruolo centrale del vino nelle economia di allora.

Accanto al mercato principale, bevande, infusi, pozioni, elisir a base di vino, già note nell’antichità e poi sviluppate nei conventi, trovano una ascesa direttamente proporzionale alle malattie, pestilenze, disordini esistenziali e sociali.

E’ il momento d’oro dei medici erboristi, dei chimici, dei ciarlatani alla Dulcamara.

Dulcamara, personaggio dell’Elisir d’amore di Donizzetti

Nel 1717 il medico Castore Durante, nel suo Herbario Nuovo, valuta le proprietà medicamentose della vite selvatica:” la radice bollita e bevuta in due cucchiai annacquata con acqua marina, purga l’umidità del corpo. Il succo degli acini abbellisce il viso delle donne, caccia le lentiggini e fa cadere i peli, giova alla dissenteria e può essere utile come dentifricio”.

Un vero e proprio toccasana, una farmacopea concentrata, cui fin dal 1631 d’altra parte Francesco Poma non aveva esitato ad attribuire virtù anche contro la pestilenza.

Ma si apprestava ad arrivare la seconda parte del secolo, il ‘700 appunto detto poi l’età dei lumi.

La ragione dei filosofi sa essere confusa da sola senza bisogno dei fumi dell’alcool: fu guerra dichiarata, senza quartiere. Diderot, D’Alembert, Rousseau, Voltaire, Condillac, insomma tutti i più brillanti spiriti del tempo diedero addosso ai bevitori, irrazionali per definizione!

Voltaire decretò che il vino è contrario alla lucidità dello spirito, l’ebrezza è contraria alla salute e dannosa alla Ragione e non ce ne fu più per nessuno.

Voltaire

Qualcuno ricordando Galeno e Ippocrate tentò il recupero, rifugiandosi nel vino medicamentoso, ma piombò nella tristezza e nel dispiacere, proprio le malattie dell’animo umano che gli illuministi volevano curare con la Ragione.

Erano d’altra parte quelli i tempi in cui si aveva del vino, da un punto di vista chimico-fisico un’idea molto approssimata:  nel 1751, anno di pubblicazione della Encyclopédie  si crede che il vino sia composto da sale, zolfo, spirito infiammabile, acqua e terra. Dovevano ancora arrivare Lavoisier e Chaptal per dimostrare che il vino non è altro che carbonio, idrogeno e ossigeno fermentati.

Il principale romanzo storico italiano di Don Lissander non parla specificamente del vino, ma degli osti.

Per lo più vengono descritti come gente pratica, scaltra, attenta. La loro morale e il giudizio sugli uomini è descritta con poche parole: i galantuomini sono quelli che bevono il vino senza criticarlo, pagano senza tirare sul prezzo e se devono dar di mano, o peggio, lo fanno fuori dall’osteria.

Manzoni usa gli effetti del vino, quando se ne abusa, in una scena del 14 capitolo del libro che vede per protagonista Renzo Tramaglino.

Dopo l’assalto ai forni, evento storico cui ha casualmente assistito, rimanendone coinvolto, Renzo è agganciato da uno sbirro che lo porta in una osteria. La giornata era stata clamorosa, un bicchiere tira l’altro, al giovane si scioglie la lingua e arringa agli astanti, lanciando accuse ai potenti.

Persi gli ultimi barlumi di lucidità, Renzo è pronto a cadere nella rete dello sbirro che, con uno strattagemma sul nome da mettere sulla tessera del pane, gli fa confessare il proprio.

Ma l’800 è il secolo della psicoanalisi, una nuova finestra dalla quale i romanzieri possono guardare nel profondo l’animo umano.

L’inconscio e il vino in che rapporti stanno? In quasi tutte le culture ambedue aprono la strada a quelle intuizioni e a quello stato dello spirito che permettono di superare i limiti abituali, attingendo nel profondo della natura umana. Il vino era stato a lungo un simbolo di prestigio sociale, uno viatico per ogni simposio in cui la sua “loquacità” permetteva di affrontare discorsi alati e impegnativi sul mondo e sulla società.

Con l’800 il vino è ricondotto in una dimensione soggettiva, la ciucca è utile per chiudersi in sé stessi, il diaframma alcoolico è un estremo tentativo di rifiuto del mondo corrotto, ostile e nello stesso tempo per sottrarsi alle vertigini della psicoanalisi, alle sue impietose, imbarazzanti diagnosi.

Il vino non viene, in buona sostanza, visto in se stesso, ma nel suo rapporto con la persona, per gli effetti che ha sulla psiche e per gli effetti liberatori delle pulsioni interiori, così acutamente indagate da Freud.

Sono naturalmente i poeti che per primi innalzano il vino ( e più in generale le droghe) a soggetto letterario, dotato di sue proprie virtù, quasi di un’anima,  medium necessario lungo la stretta e scoscesa strada del rifiuto della realtà decadente e della ricerca della solitudine.

Senza vino, afferma Baudelaire in opere  dai titoli eloquenti, quali Le fleurs du mal, Paradis artificiels, Un mangeur d’opium, il mondo sarebbe più vuoto, perdendo una delle scoperte essenziali per l’umanità.    

Ma il legame che unisce letteratura e bicchiere è di vecchia data e supera oceani e continenti.

Baudelaire

Qualche anno prima della stesura dei Paradis artificiels moriva agonizzante a soli 39 anni Edgar Allan Poe, distrutto dagli stenti e dalla sua dipendenza all’alcool: quante delle sue storie macabre e agghiaccianti sono nate fra i fantasmi dell’alcool? Più che un vero bevitore, afferma Tommaso Pincio nel suo blog, Poe era un bevitore compulsivo e che non reggeva l’alcool; pieno di buoni propositi, una volta accostato alle labbra il primo bicchiere, poi si apriva per lui l’abisso.

Sempre per rimanere oltreoceano, pensate che fino al 1988 cinque su sette premi Nobel per la letteratura americani erano alcolizzati: Eugene O’Neill, William Faulkner, Ernest Hemingway, Sinclair Lewis. (e il quinto?)

Hemingway

Per non dire della sbronza di birra a cinque anni di Jack London, dell’intima familiarità di Truman Capote per la bottiglia, di Scott Fitzgerald, a lungo compagno di sbronze di Hemingway.

Chi non ricorda la disperazione di Fernanda Pivano, la scrittrice torinese, grande traduttrice della beat generation, di fronte a Jack Kerouac eternamente balbettante, traballante sulle gambe, durante un viaggio promozionale in Italia.

Il romanzo principale di Kerouac Sulla strada, ma soprattutto Big Sur, sono la descrizione delle discesa agli inferi della dipendenza ad alcool e droga. Non c’è impaccio, né rimorso per il perenne stato di allucinazione in cui l’autore vive, anzi, la beat generation teorizza la necessità per l’artista di stimoli allucinogeni ai fini creativi. Le opere discontinue, a tratti oscure e degli esiti discutibili, di autori come Kerouac, Bukowski, Ginzburg (e), a altri dimostrano che autoreferenzialità annacquata da alcool o mescalina non sono gli ingredienti giusti per fare opere destinate a durare.

Kerouac e Ginzburg

Certo, il vizio può prendere chiunque, ma per gli psichiatri di più gli scrittori perché l’atto di scrivere è solitudine, lavoro tormentoso, che induce a bere, magari inconsapevolmente. Senza la bottiglia a fianco il bianco della pagina è terrorizzante. Diventa una questione di ispirazione, eterna angoscia per molti di loro.

Questa tesi giustificazionista è smentita da una vera autorità in materia alcoolica, Steve King, scrittore di successo planetario, secondo il quale non esiste questo principio di causa-effetto: gli scrittori bevono perché gli piace, non bisogna essere per forza persone creative e deboli moralmente, basta essere alcolisti. Un alcoolista sincero, il King.

Stephen King

Dopo la pubblicazione nel 1899 dell’Interpretazione dei sogni e nel 1901 di Psicopatologia della vita quotidiana, diversi sono gli scrittori che si ispirano alla psicoanalisi, fra tutti Svevo, Joyce, Kafka.

Il nuovo protagonista è un malato, speso un inetto afflitto da una nuova malattia che affonda nella incapacità di adattarsi alla vita e al mondo. E’ il vino, che ruolo ha? E’ la chiave per aprire il mondo dell’inconscio e dell’autoanalisi?

Più spesso è un espediente per esplorare una dimensione psichica di maggiore libertà che permette lo snodo narrativo e la catarsi; altre volte è un elemento di sottofondo, una specie di greve sentore che permane tra le righe.

Voglio fare, tra i tanti, tre esempi: La coscienza di Zeno, Sotto il vulcano e La leggenda del santo Bevitore.

Il protagonista del romanzo di Svevo è un represso che solo per effetto del vino riesce a esprimersi, rivelandosi a se stesso come in una metamorfosi. Ma le idee sono le stesse, i suoi ragionamenti restano invariati, solo ora si esprime senza paure o inibizioni: “quando ho bevuto troppo, io analizzo i miei conati come quando sono sereno e probabilmente con lo stesso risultato.”

In queste pagine di Svevo Il vino è un elemento allegorico (la metafora del sangue del protagonista), un effetto momentaneo non una medicina che guarisce, ma che, come una prova, costruisce l’evidenza esteriore  di una psiche malata dalla incapacità di vivere.

Il romanzo di Malcolm Lowry è del 1947, dieci anni prima della sua morte.

Malcolm Lowry

Sul risvolto dell’edizione italiana di Feltrinelli, si legge: “in apparenza, è un romanzo sul Messico, la pietosa epopea di un alcolizzato che si dibatte contro i fantasmi della sua mente…o magari è un romanzo d’amore… Certi lo considerano un romanzo sulla gelosia.. altri una allegoria sulla Redenzione…. Lowry autorizza ogni interpretazione, dice di essersi ispirato alla Anime morte per arrivare a questo curioso risultato: una Divina Commedia ubbriaca”. Una eccellente definizione.

Sono parecchi i punti del romanzo dove c’è il vino, lo si acquista, lo si beve in solitudine o in compagnia, è un forte richiamo dal fondo di oscure cantine polverose;  ma è l’intero romanzo a rispecchiare la visione alterata del mondo che solo uno sguardo alticcio può dare.

Non c’è episodio o personaggio che sfugga a questa inevitabile regola, che non appaia descritto come visto attraverso le lenti deformate dell’alcool, le sue ebbrezze traballanti, le sue sghembe illusioni ottiche, che diventano illusioni sentimentali, speranze frustrate, paure e angosce.

Il romanzo autobiografico di Joseph Roth è del 1939, il primo di anni tragici per l’Europa, l’inizio del finis Austriae. Tradotto in un bello e delicato film di successo da Olmi nel 1988. Del romanzo preferisco parlare nella sezione Ciac, si gira! dedicata al vino nel cinema. Per i curiosi segnalo che non è il solo romanzo di Roth intriso di alcool, perché una bella dose la potete trovare anche il La marcia di Radetzky.

Joseph Roth

Fra gli altri romanzi significativi di questa breve carrellata fra letteratura e bevute vale la pena ricordarne per cenni alcuni, che magari potete cercare fra gli scaffali.

Il fondo della bottiglia, di George Simenon, prolifico scrittore francese, noto come creatore del commissario Maigret, ma anche per non lesinare in forti bevute ( l’ultima moglie è alcoolizzata), è un libro in cui l’alcool è il protagonista sotterraneo. L’inchiesta si snoda in modo sordido, fra cadaveri sotterrati e aborti clandestini. L’alcool è sempre sullo sfondo, costante assillo per i suoi temuti effetti, tanto per l’indagato, quanto per il commissario, che è nervoso, si preoccupa dell’alito, si oppone e vince a fatica al forte richiamo di un bistrot. L’indagato, che è un medico, è la sua cattiva coscienza: “il vino, la birra, l’alcool, ne ha diminuita la quantità?” gli domanda, e Maigret risponde:” ho raggiunto un risultato: vergognarmi quando ho in mano un bicchiere di birra o cavados. Quando sono in mezzo a due inchieste rimango dei giorni a non prendere che un po’ di vino a tavola”.

George Simenon

Il libro Il potere e la gloria, forse il migliore fra quelli scritti da Graham Greene, il preferito dal presidente Obama, messo a lungo all’indice dal Sant’Uffizio, si svolge ancora una volta in Messico, dietro le orme di un prete alcolizzato e in fuga, dopo aver copulato con una donna e averla messa incinta.

Un altro libro bello quanto sconosciuto è Maria Zof di Paola Drigo, scrittrice veneta, siamo nel 1937 la storia, delicata e feroce, è ambientata in Carnia, terra aspra di confine e di guerre. Un romanzo in cui un’ adolescente, che sboccia all’amore, viene deturpata dalla miseria e dall’abiezione umana di un padre-padrone incestuoso e in cui la grappa pare ancora una volta essere, oltre che l’illusoria consolazione al dolore, una ancestrale giustificazione morale.

In Appuntamento a Samarra, di John O’ Hara, l’appuntamento col destino avviene in fondo nella maniera più loffia, per una serie progressiva di gaffe, piuttosto che con un grande gesto tragico. Lo sfondo è la provincia americana, una città in cui tutti si conoscono e il gesto di tanti ubriachi, come gettare il whiskj in faccia a un amico, può aprire la porta della perdizione. Il protagonista si avvita su se stesso e i suoi eccessi, più che dissolutezza di costumi o anticonformismo estremo, sembrano servire solamente a ottundere la percezione del punto in cui la trappola scatta e il destino si realizza. Un grande affresco sui luoghi comuni di una America gretta di buone famiglie intolleranti, una parabola etilica ancora fortemente imparentata con il proibizionismo, quella con la bottiglia avvolta pudicamente in un sacchetto di carta.

John O’ Hara

L’alcool in questi romanzi non sembra in fondo avere nulla di liberatorio, quasi che l’eccesso o l’abuso di per se stessi abbiano il potere di annullare e interrompere quella disposizione all’amore e al bello che Ovidio declamava.

Sarebbe difficile per questi autori, come per la maggioranza degli scrittori e intellettuali, inneggiare all’alcool con questi poveri distici: “Empi il bicchier che è vuoto,/vuota il bicchier che è pieno,/non lo lasciar mai vuoto,/non lo lasciar mai pieno. Cantilena popolare, che quasi scolpisce il gesto e il lento fluire del liquido dal bicchiere alla gola, serena e ribalda, come nella canzone Passa la ronda i versi: “passa la ronda dei veri alpini: e la risponde “fiaschi de vin”! Che la parola d’ordine per attraversare i camminamenti dei soldati sia anche quella per attraversare la vita? Sembrano crederlo molti dei nostri poeti di guerra, che in particolare con la grappa ebbero stretta familiarità, da Ungaretti, a Pietro Jahier, a Robert Skorpel, a Clemente Rebora, a Ugo Betti.

Ma più della poesia, dimostrare il legame indissolubile fra l’uomo e l’alcool, questo appunto dell’alpino Ugo Martegani: “la grappa poi è come il mulo. Non vanta antenati, non ha speranza di posteri. Ti scorre dentro a zig-zag come va i mulo in montagna. Puoi aggrapparti a lei se sei stanco, fartene scudo se ti sparano, dormirci sotto se c’è troppo sole. Puoi parlarle che ti risponde, piangere ed essere consolato e, se proprio hai deciso di morire, ti sorride” .

Il sorriso della grappa chi mai l’ha visto? E’ come quello misterioso e ineffabile di Monna Lisa? Fatto di quella stessa materia del sogno destinato a svanire sugli spalti di Elsinor? Oppure è l’ardente preannuncio della gioia che sarà e per sempre?

Questa dimensione esistenziale del vino e dell’alcool in generale, che così si intreccia con la quotidianità dandole sapore e peso, è una costante, come scrive Marco de Cesaris nel suo ..E giacque nudo. Il vino e la vita dell’uomo, appena edito per i tipi Laurium.

Ne troviamo espressione poetica, che è anche rimpianto esistenziale, in Cesare Pavese, nella poesia Grappa a settembre. Poche immagini che si intrecciano fra loro, scambiandosi misteriosamente qualità e attribuzioni:  la nebbia mattutina, le strade, la grappa, l’odore del tabacco e  le donne,. “Tutto si ferma e matura, al mattino si vedono solo donne che ricevono il sole come fossero frutta. Le strade sono come le donne, maturano ferme”. Poi c’è l’odore del tabacco e c’è la grappa, un nuovo sapore: “è così che le donne non saranno le sole a godere il mattino”.

AMICI ARTISTI FOLLI E STRAFATTI: VI PRESENTO LA B.G.

AMICI ARTISTI FOLLI E STRAFATTI: VI PRESENTO LA B.G.

IL FASCINO INTATTO DELLA BEAT GENERATION SULLE ORME DI KEROUAC E GINSBERG– DAI RICORDI DI GARY SNYDER, POETA PREMIO PULITZER, DALL’ALTO DELLA SIERRA NEVADA, LA STAGIONE DI ON THE ROAD E DI HOWL, CHE SCOSSERO L’AMERICA BIGOTTA E PURITANA.

Non accetto visitatori», premette e promette Gary Snyder, poeta americano, 87 anni, ultimo grande protagonista della Beat Generation e della rivoluzione hippy con Lawrence Ferlinghetti e Michael McClure. Ma se a San Francisco il 98enne Ferlinghetti ancora possiede l’ omerica libreria City Lights e McClure a 85 anni ha un’ esposizione pubblica intensa, Snyder è un eremita della foresta, affilato come il freddo dei suoi altopiani. Il suo segreto mondo antico Snyder lo ha battezzato “Kitkitdizze”, come i nativi Miwok qui chiamavano la Chamaebatia foliolosa, un arbusto locale, aromatico e sempreverde.

Il poeta Gary Snyder

Arrivarci a Kitkitdizze, una bizzarra casa di legno conica e orientale, a oltre tre ore da San Francisco, è tortuoso. Sulla Sierra Nevada, oltre i mille metri, la neve resiste, come Snyder. Sotto il ghiaccio la strada è sterrata.

Snyder, premio Pulitzer per la poesia con Turtle Island, vive qui da quasi cinquant’ anni. Senza rete elettrica ma con illuminazione a kerosene, un pollaio, una sauna e un telefono alimentato da un’ antenna satellitare. «Alla fine degli anni Sessanta», insieme ad Allen Ginsberg e altri buddisti zen, «ho comprato questo pezzo di terra da un amico. Da quassù», sottolinea Snyder, «scorre tutta l’ acqua che arriva a valle nella California, verso l’ oceano. Questo è un luogo di vita».

Da quando però dieci anni fa è morta la sua seconda moglie Carole Koda, cui Snyder ha dedicato un soffice poema nell’ ultima raccolta Questo istante presente (ed. Jouvence, curata da Giuseppe Moretti), «vivo col mio cane, Emi, che dopo 14 anni mi fa ancora compagnia». Della morte Snyder non ha paura («non mi sono mai organizzato la vita come se dovessi vivere in eterno, come fanno in tanti oggi») «e non mi sento solo».

Dopo la stanchezza della corsa all’ oro, l’ area è nuovamente popolata. E oggi questi “ri-abitanti” sono contadini, post-hippy e montanari che «mi passano a trovare. Parliamo di politica oppure meditiamo insieme: ma non è una festa. La meditazione è un intervallo difficile, è l’ osservazione della propria coscienza».

Foto giovanile di Allen Ginsberg

Kitkitdizze è l’ incontestabile tempio spirituale, il codex ideologico dell’ eco-poeta Snyder: qui ci sono il suo ambientalismo puro e primordiale, il suo irriducibile naturalismo, il suo orientalismo e il buddismo zen amati sin dai primi studi di cinese e giapponese e sfamati dalle costanti trasferte giovanili in Asia.

«Noi della California e della Costa occidentale siamo diversi, da tutto e tutti», chiarisce Snyder, «da qui guardiamo al Pacifico, sappiamo che gli asiatici arrivarono ben prima degli europei attraverso il Mar di Bering. Io ho fatto il viaggio opposto: a 18 anni ho preso una nave per il Giappone e sono diventato monaco». Poi ha girato India, Cina e altra Asia, insieme alla prima moglie Masa, ad Allen Ginsberg e Peter Orlovsky, il sodale Philip Whalen e il “pionnier” della Beat Generation Jack Kerouac, che a Snyder dedicò il personaggio di Japhy Rider, mezzo hippy mezzo santone buddista, mezzo vagabondo letterario, protagonista del suo romanzo I vagabondi del Dharma, sequel tortuoso di Sulla strada.

Ma non lo dite a Snyder. «Perché dobbiamo parlarne? Perché?

Allen Ginsberg con Peter Orlowski

Japhy Rider non sono io, non sono io! È chiaro?». Ma è un personaggio evidentemente ispirato a lei. «Kerouac ha scritto tanti altri bei romanzi, come Il Dottor Sax, che non conosce quasi nessuno perché le persone non leggono con attenzione. I vagabondi del Dharma, anche se ha ispirato la cultura americana del viaggio e dell’ orientalismo, sicuramente non è uno di questi».

Ma, al di là dell’ aspetto caricaturale che la irrita, è vero che Kerouac le scrisse affranto dopo i suoi giudizi negativi e scene poco gradite come quella del sesso tantrico?

«Sì, mi doveva delle scuse. Ma oramai era troppo tardi.

Con Jack eravamo buoni amici, anche se mi sono reso conto di non averlo mai conosciuto fino in fondo. Jack è stato sempre un po’ sciocco, ma comunque carino e brillante a modo suo, e pure divertente. Peccato che sia poi ripiombato nella cristianità e di lì a poco sia morto. Ginsberg era sicuramente più simpatico. Basta parlare di Kerouac».

William S Borroughs con Jack Kerouac

E allora parliamo di Ginsberg: «Negli anni Cinquanta, dopo la laurea, me lo presentò Kenneth Rexroth (altro grande poeta del Rinascimento di San Francisco, ndr). Di lì nacque una bella amicizia e viaggiammo molto insieme, anche in Asia, dove incontrammo il Dalai Lama», che Ginsberg voleva iniziare all’ Lsd, «ma non sono mai stato gay, tantomeno con lui, chiaro?». Ok.

Ginsberg alla Six Gallery di San Francisco, mentre declama Urlo.

Ma Snyder è anche uno dei pochissimi superstiti della notte magica del 7 ottobre 1955 alla Six Gallery di San Francisco (oggi ristorante turistico), dove Ginsberg lesse per la prima volta lo scandaloso Urlo sobillando censura e processi: «Che momento!», esclama Snyder mentre affastella i ricordi, «eravamo tutti lì a leggere poesie che non sarebbero mai state accettate da alcun dipartimento di inglese, figuriamoci dagli intellettuali di New York. Ma oramai eravamo un’ onda inarrestabile. Un linguaggio incontenibile. Quella sera avvenne il primo vero evento pubblico di una nuova subcultura, quella della West Coast: molto più tollerante ma ribelle, eterogenea ma invasata da uno spirito estremamente libero rispetto a quella della costa orientale e cristiana. Fiorì così la tradizione orale della poesia americana del XX secolo. C’ era una sinfonia organica e silenziosa tra noi».

«Lo stesso accadde allo Human Be-in», il grande raduno a San Francisco del 1967 liberato dal soffio di Snyder in una conchiglia che seminò la rivoluzione hippy.

«Quanta gente c’ era. Quell’ Estate dell’ Amore provocò una sommossa materiale, contadina, poi radicatasi nelle campagne, come ho fatto io. Gli anni Sessanta e Settanta stravolsero ogni piano della società, della cultura e delle arti americane. Ma la più grande eredità per me è stata una nuova sensibilità per la natura».

Quella sera dell’ Urlo di Ginsberg, Snyder lesse A Berry Feast, (la festa della bacca). «Perché è il senso ultimo della natura: le bacche crescono spontaneamente nei boschi, cibano animali e persone senza che questi se ne accorgano.

È il naturale regalo della natura.

La cosa più importante che ho imparato a Kitkitdizze è studiare il comportamento degli animali. Mi fanno capire così tanto della disciplina della natura e quindi della vita. Perché noi umani siamo animali, sospesi nella congiunzione tra natura e umanità. Se ci considerassimo davvero animali, riusciremmo a rispettare e soprattutto a condividere la natura. Ecco come bisogna vivere questo nostro istante prese

Articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica

 

Un articolo sulla beat generatione e Keruoac lo potete trovare sul sito (qui) 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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