La feroce satira di Marco Travaglio colpisce ancora
Se il guaio della Schlein è che non la capisce nessuno, quello di Meloni e Salvini è che li capiscono tutti. I loro annunci, promesse e slogan sono così semplici ed efficaci da risultare non solo facili da comprendere, ma anche difficili da dimenticare. E per loro è un bel casino, trattandosi di cazzate irrealizzabili, tantopiù quelle su un problema insolubile come quello dei migranti. Che al massimo si possono ridurre con un lungo, paziente e costoso lavoro di diplomazia e intelligence coi Paesi di provenienza, offrendo soldi in cambio di rimpatri e freni alle partenze (con la delicatezza tipica di quei regimi). Ma non fermare, almeno finché l’Occidente seguiterà a rapinarli e a usare quei Paesi come riserve di caccia per le proprie guerre per procura. Il blocco navale è facile da capire: peccato che non esista al mondo una flotta in grado di coprire l’intera costa nordafricana e, se mai esistesse, il suo arrivo in acque altrui sarebbe un atto di guerra. Infatti, finita la campagna elettorale, la Meloni ha smesso di parlarne. Ne parla ancora Salvini, che in campagna elettorale ci vive 365 giorni l’anno: continuerà a parlarne senza fare una mazza, che poi è la sua professione (ieri postava sui social un gattino morto). La Meloni aveva promesso di “inseguire gli scafisti in tutto il globo terracqueo”: siamo ansiosi di sapere quando parte, e per dove. Voleva anche spiegare ai partenti “i rischi che corrono”: potrebbe affiggere dei manifesti alla Garbatella. Intanto ha alzato a 30 anni la pena per gli scafisti e varato l’“omicidio nautico”, così imparano, tiè: purtroppo non se ne sono accorti e il nuovo reato si candida a produrre qualche processo in meno dell’oltraggio al Re. Il comandante della Guardia Costiera, Nicola Carlone, aveva anche proposto “pene più severe per chi si mette al timone dopo aver bevuto troppo”: si sa che i naufragi li provocano gli scafisti ubriachi (allo studio anche la prova del palloncino in mare aperto).
E così, fra decreti Sicurezza/cutro/flussi, commissari straordinari, guerre e paci con l’ue, la Francia e le Ong, sostituzioni etniche, complotti dalla Wagner, della Cina, di Macron, di Scholz e del Pd (come no), stragi in mare e karaoke sulla Canzone di Marinella, “svolta”, “cambio di passo”, “giro di vite”, “piano Mattei”, “piano rimpatri”, “porti chiusi”, “pugno di ferro”, “tavoli”, “cabine di regia”, “patti”, “assi” con i Paesi europei, africani e del globo terracqueo visti solo da giornali e tg, su su fino al mirabolante “memorandum con la Tunisia” dell’affidabilissimo Saied per “difendere i confini” dall’“invasione”, il governo anti-sbarchi ci ha regalato 120 mila sbarcati in nove mesi: più del doppio di quando governavano i pro-sbarchi. Se non fossero così impegnati, verrebbe da chiamare gli infermieri.
Una foto, quella che pubblichiamo, dove storia e attualità si intrecciano. L’immagine accosta casualmente i visi di due politici che più diversi non potevano essere. Un’istantanea sorprendente, come quando, nell’intrigo della boscaglia, spunta fra la sterpaglia un fiore che credevi oramai estinto.
Uno, Marco Pannella, è scomparso cinque anni fa. Un gigante della non violenza e dei diritti civili. L’altro, Matteo Salvini è sulla scena giorno e notte, ad annusare l’aria per sapere dove andare a sbattere.
La foto è stata fatta durante una manifestazione promossa da Lega e Radicali per sostenere i 6 referendum sulla giustizia che vedete accanto.
Nell’immagine, sullo sfondo, compare un anziano Pannella, aureolato dai suoi stessi bianchi capelli, un poco emaciato, il viso sfocato e teso nella foga oratoria che, ricordiamo, era quasi sentenziante, a tratti implacabile, tanto definitiva era la logica che la reggeva. Oramai leggendario.
In primo piano c’è Salvini, indossa la maschera anticovid con il marchio immancabile del tricolore. E’ serio, chiuso, quasi pensieroso. Forse, dopo il Papeete, qualcuno dei suoi lo vorrebbe così sempre, meno irruento e spaccamondo.
La politica, ai tempi del divorzio e dell’aborto, era passione civile, che per definizione non si compra, non guarda ai sondaggi, non è un futile innamoramento, un leticare gli istinti, ma è utopia e realismo insieme, rivolta com’è alla mente e al cuore, pronta ad ogni pulito compromesso.
Il volto di Pannella ha la sfrontata incoscienza di un pioniere, con la sua inconfondibile, umile e sommessa prepotenza; un viso aperto su un futuro più reale del vero, che egli sempre seppe additare con tenacia e coraggio.
Quello di Salvini è una maschera da sciarada, una decalcomania, la caricatura dello pseudo eroe che teme di essere preso a pernacchie, come nella commedia napoletana. Il volto di un capitano che si stacca dalla realtà per aderire allo spirito dei tempi, immerso nel ciarpame della volgarità, nello sguaiato vociare dei socialmedia, universo in cui dà il meglio di sé.
IL DADO E’ TRATTO: LA LEGA ENTRA NEL GOVERNO DRAGHI- LA SPREGIUDICATA SVOLTA DI MATTEO SALVINI VOLUTA DA GIORGETTI CHE PROFETIZZAVA: ” il governo Conte cadrà, il centrodestra non è pronto a governare, un governo «con dentro i migliori, guidato dal migliore», cioè Draghi, può servirci anche a cambiare l’immagine internazionale della Lega, e dare a Salvini la credibilità e l’affidabilità che ancora non ha. “
Segnatevi questa data: 6 febbraio 2021, festa di santa Dorotea, patrona dei giovani sposi e della corrente più moderata e centrista della Dc. Sarà tattica, sarà strategia, il dado comunque è tratto. È come se Salvini si fosse accorto ieri per davvero, per la prima volta, di guidare il primo partito italiano; e che tutto il lavoro fatto, tutte le felpe, i comizi, le polemiche, i processi, i papeete, rischiano di diventare inutili se il patrimonio di consenso acquisito in questi anni non viene ora investito nel governo della più grande emergenza del dopoguerra.
Così, in una sola mattinata, dimenticando per un attimo Lampedusa, Borghi&Bagnai e Marine Le Pen, il segretario della Lega ha messo la freccia e ha imboccato la corsia di sorpasso, superando innanzitutto se stesso e i suoi cliché. Si è presentato come il baricentro della politica italiana, e quindi perno di un gabinetto di unità nazionale. Per sostituirsi ai Cinquestelle, che ne avevano la forza ma non la vocazione; e al Pd, che ne ha la presunzione ma raramente la forza.
Naturalmente si può dire che è una mossa. E sicuramente lo è. È chiaro che serve a mettere nell’angolo la sinistra, che all’improvviso ha paura di andare al governo, e fuori dall’inquadratura la Meloni, che balla da sola. Non ha posto pregiudiziali contro nessuno, e così ha disinnescato quelle degli altri verso di lui. L’ipotesi che entri nel governo ha gettato nel panico il partito di Conte, che è nato per tenerlo fuori.
Si può anche sospettare che ai suoi dieci minuti da statista faranno come sempre seguito i riflessi condizionati del populista, duri a morire in uno cresciuto a pane e social. Ma quando si decide di passare dall’opposizione al governo non è mai solo tattica. C’è di più.
C’è innanzitutto la società: gli interessi e gli elettori che la Lega oggi rappresenta. Il Nord, insomma. Salvini in questi anni ha preso i voti dei ceti produttivi, dei borghesi di Forza Italia, e ora deve dare risposte. A questa gente sicurezza e lotta ai clandestini vanno bene, ma non bastano. Di certo non bastano ora che l’economia sprofonda. Citofonare Zaia per ulteriori spiegazioni.
E poi c’è la politica, quella che non si consuma nello spazio di un sondaggio. Il 16 dicembre, quasi due mesi fa, Giancarlo Giorgetti faceva con il cronista del Corriere tre considerazioni: il governo Conte cadrà, il centrodestra non è pronto a governare, un governo «con dentro i migliori, guidato dal migliore», cioè Draghi, può servirci anche a cambiare l’immagine internazionale della Lega, e dare a Salvini la credibilità e l’affidabilità che ancora non ha. Una profezia.
D’altra parte, fare l’antieuropeo per partito preso oggi, mentre dall’Europa stanno per arrivare centinaia di miliardi, porterebbe allo stesso isolamento che pagò il Pci negli anni 50, facendo l’antiamericano mentre il Piano Marshall innescava il «miracolo italiano». E poi Draghi non è Monti: l’altro Mario venne per tagliare, questo per spendere. Nel suo discorso di ieri, Salvini ha insistito non a caso su ciò che lo porta verso l’ex presidente della Bce: anche lui è uno “sviluppista”, con lui si può parlare di cantieri, di lavoro, di taglio delle tasse. Del resto Draghi è anche l’uomo che ha aperto la strada a una forma di condivisione del debito in Europa: oggi per la prima volta i soldi dei tedeschi e dei francesi possono essere investiti in Italia. Ma se noi falliamo nell’usarli bene, cioè per rilanciare la nostra economia e così aiutare anche quella tedesca e francese, questa sarà l’ultima volta. E dopo si tornerà all’Europa che non piace a Salvini, quella dell’austerità punitiva. Draghi gliel’ha detto, più o meno in questi termini: capito perché anche i “nazionalisti” devono sperare che il mio tentativo abbia successo?
«Non puoi governare l’Italia se non fai parte delle forze di governo in Europa», gli sussurrava da tempo la voce di dentro di un “consigliere” liberale, per traghettarlo da Perón a Pera. Chissà se, ora che le carte della politica sono state tutte rimescolate, quel professore verrà ascoltato anche su un altro punto: intestarsi l’intero centrodestra, e sceglierne uno con una storia spendibile. A Salvini mancano ancora molte cose per riuscirci. Ma per cominciare, dice un nostalgico del Pdl che ieri gli ha fatto i complimenti, potrebbe guidare nel prossimo giro di consultazioni una delegazione unitaria del centrodestra di governo, con Berlusconi e i popolari, e senza la Meloni. Dimostrerebbe così di essersi emancipato dalla paura che l’ha attanagliato in questi mesi: avere un concorrente a destra. Anche perché dai sondaggi non pare che ci siano molti italiani entusiasti di andare sull’Aventino. Stare al governo può anzi dare un dividendo; e nessuno lo sa meglio di Salvini, che al Viminale ha visto raddoppiare i suoi consensi.
Anche se non sarà il «governo dei migliori», agli italiani interessa che sia un governo migliore del precedente. Salvini non può rifiutare una scommessa così.
Articolo di Antonio Polito per il Corriere della Sera
Nel Paese dei Senzamemoria, giornaloni e giornalini continuano a spacciare la fiaba
del centrodestra che diserta l’antimafia e chiede le dimissioni del presidente Nicola
Morra per le inesistenti offese a Jole Santelli. E nessuno ricorda il vero motivo della
guerra di Salvini & c. a Morra. La frase sulla defunta presidente della Calabria viene
usata come pretesto (questo sì oltraggioso) per nascondere ben altro: il 5Stelle ha il
grave torto di aver convocato Salvini in Antimafia ormai due anni fa, nel dicembre
2018, appena la commissione si insediò. All’epoca era per un’audizione di routine
sulle strategie antimafia dell’ allora ministro dell’interno, ovviamente inesistenti
(per fortuna se ne occupò il suo collega Bonafede).
Poi la Lega, a furia di riciclare il peggio della vecchia politica, finì invischiata in vari
scandali di criminalità organizzata. E Morra riconvocò più volte il Cazzaro Verde, non
più come ministro, ma come capopartito. Lui il 12 giugno 2019 dichiarò: “Certo che
andrò in commissione Antimafia”. Lo stanno ancora aspettando. Quel giorno era
stato arrestato a Palermo Francesco Paolo Arata, ex deputato FI, consulente di
Salvini che l’aveva candidato a direttore dell’arera (l’autorità di controllo
sull’energia), nonché padre di Federico, consulente di Giorgetti a Palazzo Chigi e
organizzatore del viaggio di Salvini negli Usa: l’accusa era di corruzione in concorso
col compare Vito Nicastri (pregiudicato per tangenti e indagato – e poi condannato
in primo grado – per mafia come amico di Messina Denaro), mentre un’inchiesta
della Procura di Roma gli contestava una tangente al sottosegretario Siri, poi cacciato da Conte.
Di questo Morra lo chiamava a rispondere, ma anche delle rivelazioni del pentito Agostino Riccardo sull’appoggio elettorale dato alla lista Noi per Salvini dal clan rom dei Di Silvio a Latina per le Comunali del 2016. Tra i politici non indagati ma citati nell’inchiesta per l’appoggio del clan Di Silvio c’erano Francesco Zicchieri, vice-capogruppo leghista alla Camera, e Matteo Adinolfi, eletto a Terracina, poi promosso coordinatore provinciale della Lega e ora eurodeputato. Figurarsi l’imbarazzo di Salvini a rispondere in Antimafia del sostegno degli odiati “zingari” ai suoi fedelissimi; a giustificare la scelta di un consulente come Arata per il programma energetico della Lega; e anche a spiegare perché non costituì parte civile il Viminale al processo Montante (l’ex presidente di Confindustria Sicilia poi condannato a 14 anni in primo grado). Infatti scappa dall’antimafia da due anni: mai messo piede. E ora vuol farci credere che ce l’ha con Morra per una frase sulla Santelli. Come si dice dalle sue parti: ma va a ciapa’ i ratt.
Articolo di Marco Travaglio per il Fatto Quotidiano
In copertina: opera di Andy Warhol ispirata a De Chirico
MA COS’E’ LA DESTRA, COS’E’ LA SINISTRA, CANTAVA GIORGIO GABER- SIAMO ANCORA QUI A DOMANDARCELO, FRA MINI SCISSIONI, LO IUS SOLI CHE VA E VIENE, I VOLTAFACCIA DEL M5S, LE FABBRICHE CHE CHIUDONO E I MEDICI CHE MANCANO, LE CITTA’ SOTT’ACQUA, MENTRE SALE LO SPRED E CHISSA’ COSA CI ASPETTA- COSI’ LA PENSA GEPPETTO.
Dunque Renzi se ne è andato, lasciando il PD. Ennesima
scissione a sinistra,…l’ultimo che resta spenga la luce!. E ritornano in
mente quelle innumerevoli del secolo passato. Tutte finite più o meno presto,
subito cagionevoli e malconce. Ma questa è diversa, e non solo perché avviene a
freddo. Per decifrarla dobbiamo però collocarla nell’attuale scenario politico
e, se ci sono, capirne le ragioni.
Quelle personali sono presto dette: Renzi non si è mai
rassegnato a farsi da parte dopo la sconfitta referendaria, che non gli ha insegnato
niente. Ambizione e superbia sono gli aspetti predominanti del suo carattere,
un carisma il suo che non attrae voti, capace di suscitare solo nemici o
subalterni. In ampie interviste sui
principali giornali, richiesto dei motivi del distacco, il senatore di Rignano
non ha saputo dire altro che del suo disagio di ospite occasionale e sopportato
del partito. Mentre Italia Viva, priva di un disegno accattivante e innovativo,
fa una fatica boia a distinguersi nella confusa arena partitica, nonostante i
continui strattoni che Renzi dà al carro del governo, già traballante di suo.
Quelle politiche sono invece più interessanti. Gli
ingredienti in gioco sono parecchi. Vediamoli.
Il declino berlusconiano lascia in un mare di incertezza coloro
(sempre più pochi) che ancora si aggrappano al suo Caraceni.
Chi ha capito che la sua leadership è di quelle che si consumano
con il venir meno del fondatore e non ammettono delfini, ha già preso il largo
o ha da tempo tirato i remi in barca. L’Avventura è finita, è durata un
ventennio, possibile grazie ai soldi di Silvio e agli spazi resi liberi,
letteralmente nel cuore di una nottata, dal crollo dei partiti di massa della
prima repubblica sotto i colpi di Tangentopoli.
Renzi successore del Cavaliere per l’elettorato orfano del centrodestra?
Sarà da vedersi, forse per qualche speranzoso ex parlamentare di quella sponda,
in quanto ai voti persi…vedremo. Una cosa è il Palazzo, dove i trasformisti
pullulano, una cosa le urne.
Certo, la mossa di Renzi e l’uscita di scena del Berlusca,
impediranno, a destra, due cose: la ricostituzione del centrodestra moderato e europeista
caro ad Arcore e, trovando argine al centro, causerà l’inevitabile slittamento
della Lega su un’area politica e di progetto sempre più radicale,
antieuropeista e sovranista, una destra dominata da Salvini col contorno di
Fratelli d’Italia. Il progetto di un Salvini che copre l’intero arco
costituzionale, come asso pigliatutto al nord e al sud, è per fortuna sventato
sul nascere, nonostante il crollo di un M5S allo sbando.
E a sinistra? L’attuale segretario Zingaretti, sta sgombrando il campo da quel che resta del progetto ulivista e delle bizzarrie renziane. Non più l’ansia di rottamare, ma un ricambio prudente e moderato di linea e di uomini. Troppo poco. Anche sulla discontinuità nel governo e nel programma del Conte bis, alla fine si è visto com’è andata. Per riconquistare i consensi perduti servirebbe uno come Landini, il cui intervento ha incendiato la convention del PD, tenutasi a Bologna dal 15 al 17 novembre 2019.
Alla sinistra italiana servirebbe un uomo concreto e
determinato, magari col coraggio di uscire dal coro, dagli eufemismi, qualcuno
che avesse fantasia e gusto del rischio, e che usasse un linguaggio schietto e
comprensibile a tutti. Ma non c’è e non si vede all’orizzonte. Il rientro dei
transfughi antirenzisti di Leu quando avverrà (ma dipende della legge
elettorale) rimetterà insieme i cocci di qual che rimane, con la tristezza di
trovarsi pochi, come quattro amici al bar.
Salvini è l’epifenomeno di questa crisi, un pifferaio magico come tanti altri in passato. Forse sarà inevitabile che arrivi al governo, cioè che l’Italia tocchi il fondo della sua crisi, ideale e sociale ad un tempo. Facciamocene una ragione, ma non smettiamo di lottare per affermare le nostre idee, e facciamolo con la forza della speranza, quella che sa che nella crisi stanno le ragioni di una rinascita.
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