Da Artusi a Dickie

Da Artusi a Dickie

John Dickie, storico e giornalista

John Dickie, storico e giornalista

John Dickie è professore di Studi Italiani presso l’University College di Londra. Venuto in Italia si è trovato bene, e ha preso a studiare la nostra storia sul serio. Fuori dalle grigie mura di Cambridge, Dickie si è così fatto una fama di esperto di livello internazionale su molti aspetti della storia italiana e suoi libri sono stati tradotti in diverse lingue. mafiabrotherhoodsMolti sono su mafia, camorra, ‘ndrangheta. Il meglio dell’italian style all’altezza del meridiano di Greenwich. Scritti con uno stile e un livello di analisi e approfondimento che, seppure in linea con le regole dell’editoria internazionale, sono qualcosa di più di istant book, tanto da meritare in Italia un editore serio e impegnato come Laterza. L’Italia che descrive non è una figurina stereotipata, piena di fatti remoti visti con occhi fermi al passato, anche se alcuni luoghi comuni qua e là si ripresentano, come malattie esantematiche che è fatale contrarre, tanto da fare storcere il naso.

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Dalla famosa copertina i Der Spiegel, che tante polemiche aveva sollevato, sono passati parecchi anni. Peccato che, ancora oggi, sono i  giovani italiani a vivere di luoghi comuni sugli italiani. Secondo sondaggi, al classico pizza e mandolino, per la metà dei giovani va aggiunta l’associazione con la mafia e per uno su tre quella col bunga bunga. Perché, dunque, ce la prendiamo con i crucchi o la perfida Albione?

Con gustoJohn Dikie, una volta ambientato nel nostro Paese, di cui parla una lingua fluente, non si è fatta sfuggire l’occasione di unire sacro e profano, la storiografia con gli spaghetti. Passione accesa magari da qualche sbafata di amatriciana e  spaghetti al nero di siccia (copyright by Montalbano). Si è buttato anche lui sul cibo, fin dal 2009, ben in anticipo sull’EXPO milanese. Dalla Mafia è finito in cucina, passando per il cellaro, perché anche di vini si intende. In questo caso, parlare dell’Artusi per arrivare a Cracco e alla cucina molecolare, non gli sarà sembrato troppo stridente. Insomma, i cuochi fanno gli storici, e gli storici fanno i cuochi. Il libro (che nell’edizione 2009 ha in copertina una procace Sophia Loren) si chiama Con gusto, storia degli italiani a tavola. Così viene presentato: “Il cibo italiano, quando è al suo meglio, ha il carisma che gli deriva da un rapporto quasi poetico con il luogo e con l’identità. La ragione principale per cui gli italiani in generale mangiano così bene è semplicemente che la cucina rafforza in loro il sentimento delle origini e della identità. Le città italiane sono il luogo in cui questo legame fra cibo e identità è stato forgiato.delizia È nelle città, pertanto, che bisogna andare a cercare le fonti storiche più significative, che dimostrano come i grandi piatti della cucina italiana abbiano accompagnato i flussi e riflussi della storia del Belpaese.” Dalla operosa Milano medievale alla Ferrara rinascimentale, dai vicoli della Napoli ottocentesca alla magniloquenza della Roma fascista, una storia della civiltà della tavola italiana e non semplicemente una storia di quello che gli italiani mettono in tavola”.

Sentivamo veramente il bisogno di un libro di cucina? No? Allora tenetevi forte perché Dickie non molla, anzi raddoppia. Da gennaio condurrà per History Chanel l’ennesimo programma di cuochi allo sbaraglio, fra fornelli e televoto. Buona visione (ops!) appetito!

Richard le palle e il mondo

Richard le palle e il mondo

 

 

Richard Swanson

Richard Swanson

La storia di questo americano di Seattle che voleva palleggiare per 16 mila km è da raccontare.

Cosa abbia il potere di smuovere gli uomini ce lo dicono i romanzieri e gli psicologi: l’ambizione, il potere, il denaro, l’amore e la carità, il prendersi cura degli altri. Richard Swanson sarebbe stato bene in un romanzo, ma non a lieto fine; nella vita, infatti, Richard è stato sfortunato. Di mestiere investigatore privato, invasato per il calcio, aveva un suo sogno: regalare un pallone da calcio ai ragazzi poveri del mondo. Il potere di consolazione e di riscatto dello sport lo conosciamo tutti. Fare squadra rincorrendo un pallone a volte è preludio a un diverso grado di socializzazione e di solidarietà. Ottenere questi risultati con pochi spiccioli è un’idea brillante e l’ennesima dimostrazione di cosa può inventarsi il pragmatismo americano. Come facesse Richard a conciliare i pedinamenti con il palleggio o le trasferte della sua squadra del cuore, non lo so. Sospetto che fosse più attaccato al pallone e al suo sogno, piuttosto che alle investigazioni su corna, tradimenti, spionaggio industriale, indagini patrimoniali.  Nella foto che accompagna il suo profilo trovi quello che già ti aspetti: un giocane atletico di circa 35 anni, calzoncini corti, zaino a tracolla, un largo sorriso a illuminargli la faccia abbronzata, l’immancabile pallone sotto il braccio. Per realizzare il suo progetto Richard aveva fondato il One World Futbool Project, e i 16 mila km da percorrere a piedi fino a Rio de Janeiro erano il mezzo per farlo conoscere e trovare adesioni.

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Le spiagge di Lincoln City Oregon

Le spiagge di Lincoln City Oregon

Durante il Medioevo, in cui il tempo per giocare era evidentemente poco, dovendo la gente procurarsi di che vivere, scansando le prepotenze e le malattie, più che sognare, andava di moda il fervore religioso, che un poco ci assomiglia. Affidarsi a Dio e alla sua misericordia era il chiodo fisso dei tanti pellegrini che giungevano per le indulgenze a Roma, risalivano i lidi adriatici o si inerpicavano sulla strada per Santiago di Compostela. Nessuno avrebbe scarpinato così a lungo, fra tante insidie, per un sogno, un atto di solidarietà, un gesto di amore. Erano lussi che allora nessuno si poteva permettere, se non i potenti imperscrutabili, i ricchi stravaganti o le capricciose cortigiane. Nemmeno i religiosi, che infatti se ne stavano, ben protetti e pasciuti, nei loro conventi.

Richard aveva mosso i primi passi il primo di maggio. Era giunto nell’Oregon, seguendo la mitica US Route 101, fino a Lincoln, una piccola cittadina, che si anima d’estate di un turismo popolare e di pensionati e si rintana nell’umido inverno del Pacifico.

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Il settimanale del posto, il The News Guardia, ricorda l’incidente, avvenuto verso le 10 di mattina, lungo la 101 piuttosto trafficata. Un pink-up trunck guidato da un 52 enne, sobrio, ha investito e ucciso Richard che camminava dal lato sbagliato della strada, pare per guardare il mare.

Aveva fatto solo 430 dei 16 mila km che voleva percorrere. Lassù ora potrà farlo senza timore del traffico, guardando l’oceano e le favelas dove i ragazzi non hanno perso la speranza di ricevere un suo pallone indistruttibile.

 

 

 

Se…….

Se…….

https://www.youtube.com/watch?v=jlJKiInKh6Y

 

Pochi secondi di ascolto, qualche immagine raccolta da un drone valgono più di mille telegiornali, resoconti, reportage. La realtà della guerra è sempre peggio di ogni immaginazione. L’espressione “macerie fumanti” non è purtroppo, in Siria e altrove, una esagerazione giornalistica. Pochi secondi, poi finalmente si capisce tutto: migranti, bimbi affogati, la disperazione di perdere casa, la fuga di popolazioni dolenti verso la speranza, il lavoro, una nuova vita.

Viene alla mente un’ altra grande tragedia, l’Olocausto. Vengono alle mente i versi di Primo Levi. Potremmo dire con l’anno nuovo che “questo è stato”? Che mai più sarà? Federico Rampini, giornalista di Repubblica, scrivendo dall’America, afferma che il caos è e sarà la caratteristica del secolo appena iniziato. Il caos “creativo” di Silicon Valley è però una cosa, la guerra invece non è mai buona e non prepara che il silenzio della morte.

“Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.”

 

 

 

Carol e Therese

Carol e Therese

 

Il regista Todd Haynes

Il regista Todd Haynes

“Quando pensi di aver toccato il fondo, ti accorgi di aver finito anche le sigarette”. Fosse anche per questa frase, magnificamente recitata da Cate Blanchett dopo uno scontro col marito, Carol, diretto dal Todd Haynes di Lontano dal Paradiso con massima grazia, e scritto da Phyllis Nagy adattando il romanzo di Patricia Highsmith (che si firmò all’epoca Claire Morgan) “The Price of Salt”, ha tutto il nostro rispetto e si merita sia il  premio a Cannes per la miglior attrice a Rooney Mara (ex-aequo con la Emmanuelle Bercot di Mon Roi), sia le cinque candidature ai Golden Globes, sia tutte le nominations che ha già in tasca, comprese quelle che sicuramente avrà agli Oscar.

Perché è uno dei grandi film della stagione e trionfo assoluto per Todd Haynes e per le sue strepitose attrici. Inutile dire che Cate Blanchett in questa storia d’amore lesbo anni ’50 è straordinaria e la sua partner Rooney Mara non è tanto da meno. La loro scena d’amore l’una tra le braccia dell’altra, anche se non è forte come le scene di sesso esplicito delle ragazze di La vita di Adele, funziona esattamente come la notte d’amore tra Heath Ledger e Jake Gillenhall in Brokeback Mountain.

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Rooney Mata e Cate Blanchett

Certo, Todd Haynes è regista troppo sottile per lanciarsi in un manifesto libertario lesbo, è più attento e interessato al suo ormai consolidato studio sull’emancipazione della donna negli anni ’50, dopo Lontano dal Paradiso e  il Mildred Pierce televisivo. Così costruisce Cate Blanchett come fosse una grande star degli anni ’40, diciamo tra Joan Crawford e Katharine Hepburn, già non più giovanissima nel cinema in technicolor del decennio successivo.

Ma da quando la vediamo sappiamo che è impossibile resistergli. E costruisce la più giovane Rooney Mara come una piccola Audrey Hepburn o una Joan Simmons, le fa vestire magnificamente da Sandy Powell, riprendere in 16 mm da Edward Lachman, e le mette in scena nel più tipico decor della New York dei primi anni ’50, mentre al cinema ancora si vede in sala Viale del tramonto di Billy Wilder.

“Sto studiando il rapporto tra i dialoghi e i sentimenti” dice nel film un giovane cinèfilo che ha visto sette volte il film di Billy Wilder. Anche Todd Haynes studia il rapporto tra i dialoghi e i sentimenti nel suo film e ogni scena di seduzione tra Cate Blanchett e Rooney Mara è giocata su dialoghi che porterebbero da tutta’altra parte rispetto all’amore. E’ Carol, vestita di verde, che da lontano si presenta e seduce la giovane commessa del grande magazzino Therese.

Rooney Mara

Rooney Mara

E alla fine sarà Therese a rovesciare l’apparizione nel mondo di Carol, ribaltando anche i ruoli di preda e predatore. Perché per tutto il film Carol costruisce una ragnatela solo apparentemente casuale dove cadrà Therese. E Therese saprà sempre benissimo di volerci cadere. Non so se c’è una vera chimica cinematografica tra le due attrici, non c’era neanche tra Audrey Hepburn e Shirley MacLaine nel lontano Quelle due di William Wyler, ma sono talmente brave che sembrano davvero far parte della New York degli anni ’50 e credibili come amanti in fuga dal marito di Carol, che ha deciso di togliergli la figlioletta.

Cate Blanchett

Cate Blanchett

Grandiosa è anche la scena che vede Carol patteggiare col marito il divorzio davanti agli avvocati, cercando di non arrivare a un processo dove si potrebbero dire cose orribili, “E noi non siamo mai state delle persone orribili, vero?” è la frase a effetto che ricorderemo per parecchio tempo.

Grande film, forse non all’altezza di Lontano dal Paradiso, ma certo della stessa potenza e importanza, per un Todd Haynes che si sente sempre più debitore a Billy Wilder, per la commedia, a William Wyler, per la messa in scena, e all’amatissimo Douglas Sirk. E’ dal 2000 che si tentava di farlo, con molti registi diversi, come Kenneth Branagh.

Phyllis Nagy ha scritto da allora ben dieci diverse sceneggiature. Se Cate Blanchett c’era sempre stata, impensabile un’altra attrice come Carol oggi, il ruolo di Therese Belivet era dapprima stato offerto a Mia Wasikovska, e solo dopo passato a Rooney Mara. Piaceranno sia alle signore dei Parioli che ai cinefili oltranzisti. Giù lacrime. E finalmente arrivano i buoni film. In sala dal 1 gennaio.

Recensione di Marco Giusti per Dagospia

 

 

 

 

Tè piace ‘u presepe?

Tè piace ‘u presepe?

 

 

 

Prof. Gianpaolo Donzelli, autore dell'articolo

Prof. Gianpaolo Donzelli, autore dell’articolo

In Toscana una ditta di calzature, per farsi pubblicità (?), annuncia che Babbo Natale è morto e che anche la Befana non sta bene. Alle orecchie di molti ciò è suonato come una profanazione di pessimo gusto. Quasi in contemporanea, nella ridente località valdostana Antey-St-Andrè, parroco e catechisti, all’uscita della chiesa, accolgono i bambini al grido: Babbo Natale non esiste! Chissà come l’avrebbe presa San Nicola, vescovo di Myra, il primo dei Babbi Natale della storia col nome anglofono di Santa Claus. Anche in questo caso secoli di tradizioni rinnegate. Né potevano mancare presidi premurosi nel rimuovere crocifissi e, in occasione del Natale, a proibire di fare nella scuola il presepe, per non “urtare” la sensibilità dei non cristiani. Speriamo che non ci tolgano anche Pinocchio, perché laico, superstizioso e miscredente. Episodi marginali, isolati ma che assurgono ad allarmanti sintomi del disorientamento che attraversa la società italiana. Le tradizioni, spesso misconosciute, sono abbandonate in nome di un modernismo senza capo né coda, e sovente ciò avviene nell’incuranza della sensibilità degli altri, del rispetto dell’immaginario collettivo e di quanto è radicato nella storia e nella coscienza del nostro Paese. La facilità con la quale siamo disposti a rinunciare all’archetipo tramandato per abbracciare il modello del momento, meglio se accompagnato dalla provocazione e dal sentore ubriacante dell’anticonformismo, denota la fragilità psicologica e la labilità della identità individuale e collettiva. Non avendo modelli né idee forti abbracciamo quelle degli altri, anche se non le capiamo, o le fraintendiamo, o sono l’antitesi delle idee che fino a ieri abbiamo sostenuto. Forse la debolezza delle democrazie occidentali passa anche da qui, forse non sono i nostri avversari ad essere forti e invincibili, ma noi inermi perché rinunciatari, passivi, accomodanti. Le politiche dell’accoglienza e dell’integrazione sono fallite in gran parte d’Europa perché è mancato, ai tanti emigranti pacifici e laboriosi, un modello forte di riferimento cui uniformarsi e adattarsi. Gli altri, i terroristi e i fanatici religiosi sono un’altra storia, naturalmente, in quanto è nelle cose l’impossibilità di qualsiasi integrazione con chi ti vuole uccidere.

Presepio napoletano del '700

Presepio napoletano del ‘700

Ci dobbiamo dunque interrogare perché sia successo che l’accoglienza si sia trasformata in una ospitalità senza corrispettivi, nella consegna simbolica delle chiavi di casa al primo venuto, per quanto bisognoso e meritevole di aiuto. La misericordia di cui parla Papa Francesco vuole dire sì apertura agli altri, ma in una comunione di reciproco rispetto e lealtà fra le persone. Fuori da tale comunione io non posso avere alcun obbligo o, al contrario, pretesa. Cattiva coscienza occidentale? Forse a ciò vanno collegati gli episodi ricordati, più che ad una autentica tolleranza verso chi non la pensa come noi. Rottamare Babbo Natale o relegare il presepe nel sottoscala, non spianano affatto la strada al dialogo, ma ottengono l’effetto contrario, radicalizzando le posizioni. O forse dobbiamo realisticamente ammettere che il divario di civiltà e di valori è incolmabile e ogni dialogo impossibile? Sento che questo modo di ragionare prende sempre più piede, e con esso l’ostilità e la paura. Arrivare a queste conclusioni vorrebbe dire, é bene esserne tutti consapevoli, porre le premesse per un conflitto insanabile, ritenere che quelle in corso siano le tante guerre di un unico evento mondiale. Personalmente non la penso così, la gente che incontro, anche in paesi lontani e molto diversi da noi, i loro propositi, gli impegni che assumono vanno in tutt’altra direzione. Gli uomini lavorano e si impegnano ogni giorno per la pace, per un mondo più prospero. E costruiscono ciò, fra mille problemi e difficoltà, non rinunciando a se stessi o alle loro idee, abitudini o tradizioni, ma mettendole a disposizione di tutti per l’unica sintesi possibile, sul piano della responsabilità e non su quello delle pretese.

Gianpaolo Donzelli, La Repubblica di Firenze, 23.12.2015. L’autore è neonatologo, docente universitario, presidente fondazione Mayer di Firenze. Ha pubblicato, oltre a testi scientifici,  il volume di poesie Stupore della nascita, Passigli editore, 2013 (cfr. in questo blog, sezione poesie ospiti)

 

 

 

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