IL RICORDO DI UN SORRISO

IL RICORDO DI UN SORRISO

Il mondo di Marisa Merz, secondo Ludovico Pratesi

LUDOVICO PRATESI RACCONTA L’ARTISTA RECENTEMENTE SCOMPARSA A TORINO. UNA DONNA SENZA ETÀ, UN PO’ ADULTA E UN PO’ BAMBINA, CAPACE DI TRASFORMARE GLI OGGETTI PIÙ BANALI IN OPERE.

Marisa Merz - Ph. courtesy La Biennale di Venezia
Marisa Merz – Ph. courtesy La Biennale di Venezia

È scomparsa il 19 luglio 2019, all’età di 93 anni, Marisa Merz, tra le più importanti artiste italiane del Novecento, riconosciuta a livello internazionale e unica donna del movimento dell’Arte Povera. Moglie di Mario Merz, che conobbe e sposò negli anni ’50, madre di Beatrice, presidente della Fondazione Merz, le sue opere sono state esposte nei musei più importanti del mondo, come lo Stedelijk di Amsterdam, il Ludwig di Colonia, il Pompidou di Parigi, il Metropolitan di New York, il Madre di Napoli e il Castello di Rivoli di Torino. Nel capoluogo piemontese Marisa Merz nacque, nel 1926, e vi trascorse la sua vita, traendo ispirazione anche per il lavoro. L’esordio negli anni ’60, alla storica galleria Sperone, quindi all’Attico, a Roma, con le sue opere pienamente ascrivibili alla ricerca poverista, reinterpretata, però, attraverso una raffinata poetica della tradizione artigianale, più che industriale, evitando certi freddi intellettualismi della corrente minimale. 

Il mondo di Marisa Merz era la sua casa studio a Milano, affacciata sul Parco Sempione. Andai a farle visita dopo la morte di Mario, intorno alla metà degli anni Duemila, e rimasi colpito del fatto che l’appartamento era un insieme di stanze piuttosto grandi, dalle pareti affollate di opere di dimensioni diverse: volti appena abbozzati, disegnati o dipinti su pareti che assomigliavano alle iconostasi bizantine. Marisa si muoveva con calma, come se avesse abolito la fretta dalla sua esistenza, e apriva le porte delle varie stanze: lo studio di Mario, il suo, un grande salotto, le camere da letto. Inutile spiegare né raccontare il loro contenuto: mobili e oggetti erano carichi di storie e memorie, in una sorta di caos generativo.

Sigaretta sempre in bocca, sguardo apparentemente vago ma in realtà pronto a cogliere ogni dettaglio, Marisa assomigliava a quelle figure che compaiono spesso nelle opere recenti di Kiki Smith: donne senza età, un po’ adulte un po’ bambine, capaci di attraversare tempo e spazio con una leggerezza consapevole e un po’ magica. La capacità di trasformare gli oggetti più banali in opere, assemblandoli tra loro secondo arcane traiettorie, per dar vita ad un’arte che si nutriva di un quotidiano addomesticato ma sempre rispettato. “Quando l’occhio è alla montagna le mani al filo di rame gli occhi sono la montagna” diceva Marisa, e in questa frase è racchiuso il senso del suo lavoro: una combinazione tra sguardo, gesto e materia. Quando ho visitato la mostra The Sky Is a Great Space al Metropolitan di New York

Marisa Mertz, senza titolo, Tate Gallery

nel 2016 ho visto lavori piccoli e intensi che non conoscevo. Sembravano aver lasciato lo studio a malincuore, desiderando solo di volerci rientrare, riprendendo il loro posto tra altre centinaia, disposti secondo un ordine segreto che solo Marisa poteva conoscere. Parafrasando Arundhati Roy, Marisa era la dea delle piccole cose. Ciao Marisa, ci mancherai.

  Articolo di Ludovico Pratesi -23 luglio 2019

Ludovico Pratesi, critico d’arte e curatore

Marisa nei ricorsi di un’amica

UN RICORDO DOLCISSIMO E PRIVATO DI SILVIA MACCHETTO: LE COLAZIONI, I RACCONTI, LE STORIE PIÙ INTIME SULL’ ARTISTA

Marisa e Mario Merz presso la Galleria L'Attico, Roma 1969 - photo Claudio Abate
Marisa e Mario Merz presso la Galleria L’Attico, Roma 1969 – photo Claudio Abate

La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più o meno altrove.
nel ciel che più de la sua luce prende
fù io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là su discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto;
che dietro la memoria non può ire.
Veramente anch’io del regno santo
né la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.

Conoscevi la Divina Commedia a memoria; credo fosse uno dei tuoi libri preferiti. Ricordo di averti chiesto se il nome di tua figlia Beatrice fosse legato a questo: ma mi sorridevi senza dare una vera risposta. Come a tante altre domande. Ci conoscemmo per caso ai tempi in cui fumavi ancora a qualche inaugurazione. Non sapevo chi fossi; mi ero appena trasferita a Torino e per caso abitavano vicine. Mi hai chiesto di venire a trovarti a casa, che era anche il tuo studio, con enormi finestre sul mercato di Porta Palazzo dove vivevi con Mario e poi sola circondata da libri e opere d’arte. Nacque per caso una profonda amicizia lontana dai riflettori dell’arte. Eri minuta e parlavi poco e a bassa voce. Sorridevi sempre. Abbiamo riso tanto insieme.

Archivio Marisa Merz, foto Renato Ghiazza

Ci incontravamo la mattina al bar sotto casa tua per un piccolo caffè, in autunno prendevi anche metà marron glacé; avevi un minuscolo borsellino con dentro qualche monetina per pagare. Quando mi invitavi a pranzo apparecchiavi minuziosamente sul tavolo a spirale di Mario e in un minuscolo pentolino mi cucinavi sempre stelline in brodo. Sono entrata così nel tuo mondo fatto di letteratura, di storia, di greci e romani, Ovidio e Marco Aurelio e di viaggi in paesi lontani – che tu hai visitato molto prima di me insieme a Mario – come il Giappone dove imparasti a realizzare la carta o l’Australia eri stata a Woga-Woga nel ‘79 dove Mario realizzò l’erbario – e di Beatrice, di quanto fossi orgogliosa di lei. E mai di arte.
Rifiutavi gli inchini e le formalità. Amavi il tuo prezioso isolamento. Potevi sembrare assente o distratta con chi si avvicinava a te con ammirazione. Inarrivabile.

Apparentemente. Eri minuta e per dipingere su grandi fogli di carta appesi al muro del tuo studio salivi su un incerto trabattello; per arrivare in alto legavi il pennello a un bastoncino e lo intingevi d’oro, argento e azzurro per dipingere angeli, arcangeli, figure celestiali che abitavano il tuo paradiso terrestre.

Marisa, ma gli angeli piangono? Forse, ma le lacrime hanno un sapore così dolce.

  Articolo di Silvia Macchetto

Silvia Macchetto, critica d’arte e curatrice, mostra il suo libro Mozzarella in carrozza
NICOLINA,VINCENZA E MARIA

NICOLINA,VINCENZA E MARIA

MAI FOTO E’ STATA PIU’ ELOQUENTE, DI COSI’ COMMOVENTE SEMPLICITA’. TRE ZIE ITALIANE, TRE BIMBI DI COLORE, UNA SOLIDARIETA’ CHE DIVIENE CURA MATERNA, SPONTANEA, SINCERA, PROFONDA COME SOLO PUO’ ESSERLO L’AMORE DI UNA MADRE.

FACCIAMOLA GIRARE, MANDIAMOLA AI NOSTRI POLITICI LOCALI E EUROPEI PERCHE’ PRENDANO ESEMPIO DA NICOLINA, VINCENZA E MARIA.

NON SERVE BLOCCARE I PORTI, MA ALLARGARE LE BRACCIA.

Foto trttta dalla pagina Facebbok di Filippo Rossi
STORIE DA INDOSSARE

STORIE DA INDOSSARE

Cinque fotografe per un “Soggetto nomade”. Sguardi al femminile a Palermo

CENTRO INTERNAZIONALE DI FOTOGRAFIA, PALERMO – FINO AL 22 SETTEMBRE 2019. DOPO IL DEBUTTO AL MUSEO PECCI DI PRATO, UN’INTENSA MOSTRA RACCONTA A PALERMO TRENT’ANNI DI MUTAMENTI SOCIALI E CULTURALI, IN UN’ITALIA IMMORTALATA DA CINQUE GRANDI FOTOGRAFE. TRA FEMMINISTE E ICONE DEL CINEMA, UNA CARRELLATA DI FACCE NOTE O COMUNI, INDAGANDO L’IDENTITÀ FEMMINILE CONTEMPORANEA.

Cristiana Perrella, curatrice della mostra

Inquieto, proteiforme, aperto alle differenze: nella sfida del nomadismo c’è l’antidoto a un’idea di potere come vincolo e stereotipo, esercizio coercitivo tra il corpo e l’immaginazione. Il principio di libertà si declina qui sul piano del diritto e lungo le geografie del desiderio. Ed è intorno a questo Soggetto nomade – femminile ma non solo, singolare e plurale, identitario e ribelle – che Cristiana Perrella ha costruito una bella mostra, presentata al Pecci di Prato e poi al Centro Internazionale di Fotografia di Palermo.
Identità femminile e ricerca artistica, tra il 1965 e il 1985, per cinque autrici e un centinaio di fotografie in bianco e nero. Tra la folla di ritratti emerge il volto di un’Italia che cambia a suon di lotte per l’emancipazione sociale, culturale, sessuale, per la consapevolezza dei corpi, tra volontà, rispetto e piacere, per la partecipazione civile, l’accesso al lavoro e all’istruzione, e contro il sistema mafioso o il dominio patriarcale. E la fotografia, in questa storia collettiva di turbamenti e di conquiste, è testimonianza bruciante, erranza del margine, strategia del proibito e del candore.

Paola Agosti, Roma, 8 marzo 1977 © Paola Agosti
Paola Agosti, Roma, 8 marzo 1977 © Paola Agosti

STORIE DI RISCATTI E DI RIVENDICAZIONI

Dai travestiti su cui Lisetta Carmi posò il suo sguardo umano ma non compassionevole, curioso e privo di forzature, dissolvendo il giudizio morale nella gioiosa simmetria fra erotismo e quotidiano, fino alle donne e le bambine di una Sicilia che Letizia Battagliaimmortalò, con la sua miscela di ferocia e tenerezza, negli anni della mafia al potere, dei manicomi appena chiusi, delle scintille e delle miserie urbane. Ci sono gli scatti di Paola Agosti, che documentò dibattiti, sit-in e cortei dei movimenti femministi, raccogliendo voci e visi di donne che avevano fatto la Resistenza, operaie, contadine, le figlie e le madri, generazioni dialetticamente coese nella volontà crescente di rivendicazione; e poi i volti di attrici, artiste, scrittrici, che Elisabetta Catalano contribuì a consacrare nel firmamento delle moderne icone, unendo la forza del glam al magnetismo intellettuale. Infine, con Marialba Russo, i maschi truccati e abbigliati da femmine durante il carnevale campano, nel gioco di una virilità sospesa per un giorno solo, scivolando impercettibilmente verso un doppio così vicino, così lontano.

Lisetta Carmi, I Travestiti, 1965 © Lisetta Carmi. Courtesy Galleria Martini & Ronchetti
Lisetta Carmi, I Travestiti, 1965 © Lisetta Carmi. Courtesy Galleria Martini & Ronchetti

La fotografia”, scriveva Carmi, “mi è servita per capire chi ero io e chi sono gli altri. Non esistono comportamenti obbligati se non in una tradizione autoritaria che ci viene imposta”. Ancora il potere al centro del discorso antropologico ed esistenziale. Ancora la fotografia come dispositivo plurale, con cui rubare storie da indossare e da collezionare, liberamente. Le rotte sono quelle nomadi della contestazione e della riscrittura di sé, fra il tempo che si fa istantanea implacabile e il mondo intorno che continua a cambiare.

Elisabetta Catalano, Laura Antonelli sullo sfondo “The End”opera di Fabio Mauri, anni ‘70 © Elisabetta Catalano. Courtesy Archivio Elisabetta Catalano
Elisabetta Catalano, Laura Antonelli sullo sfondo “The End”opera di Fabio Mauri, anni ‘70 © Elisabetta Catalano. Courtesy Archivio Elisabetta Catalano
Letizia Battaglia, Geraci Siculo , 1980
Letizia Battaglia, Geraci Siculo , 1980
Letizia Battaglia, La bambina con il pallone, quartiere la Cala, Palermo , 1980
Letizia Battaglia, La bambina con il pallone, quartiere la Cala, Palermo , 1980
Lisetta Carmi, I Travestiti, la Gilda, 1965 71 © Lisetta Carmi. Courtesy Galleria Martini & Ronchetti
Lisetta Carmi, I Travestiti, la Gilda, 1965 71 © Lisetta Carmi. Courtesy Galleria Martini & Ronchetti
Marialba Russo, Travestimento, 1975-80
Marialba Russo, Travestimento, 1975-80
Paola Agosti, Roma, 25 aprile 1976. Tullia Todros all'incontro nazionale collettivi femministi sui consultori © Paola Agosti
Paola Agosti, Roma, 25 aprile 1976. Tullia Todros all’incontro nazionale collettivi femministi sui consultori © Paola Agosti

Articolo di Helga Marsala -Tratto dal sito Artribune.com. (http://www.artribune.com). In copertina una foto di Marialba Russo: Travestimento del 1977

Da 54 a 79 anni, una vita per la Giustizia?

Da 54 a 79 anni, una vita per la Giustizia?

Un uomo ha cinquantaquattro anni la mattina in cui riceve un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Ne ha cinquantacinque quando, nella stessa indagine, finisce in prigione per nove mesi e ai domiciliari per tredici. Ne ha cinquantasette quando viene scarcerato. Ne ha sessantadue quando viene pronunciata l’assoluzione in primo grado.

Ne ha sessantatré quando la procura fa ricorso. Ne ha quasi sessantaquattro quando viene condannato in appello. Ne ha sessantasei quando la Cassazione ordina la ripetizione dell’ appello definendo la sentenza di condanna un perfetto esempio del modo in cui una sentenza non andrebbe mai concepita né scritta. Ne ha sessantanove quando l’ulteriore appello lo assolve.

calogero mannino

Ne ha settanta quando la procura oppone un nuovo ricorso. Ne ha quasi settantuno quando la Cassazione lo assolve in via definitiva. Ne ha settantadue quando viene indagato nell’ ambito della (presunta) trattativa fra Stato e mafia con l’ accusa di attentato a corpo politico dello Stato. Ne ha settantatré quando viene rinviato a giudizio.

Ne ha settantasei quando, con rito abbreviato (e si sottolinea abbreviato), viene assolto in primo grado. Ne ha settantasette quando la procura fa ricorso in appello. Ne ha settantanove quando viene assolto anche in secondo grado, due giorni fa. L’uomo, che fra un mese compirà ottant’ anni, si chiama Calogero Mannino, è stato cinque volte ministro democristiano e da venticinque anni e cinque mesi è sotto il sequestro di uno Stato incivile.

Mattia Feltri per “la Stampa”

ETERNAMENTE INFEDELE

ETERNAMENTE INFEDELE

Non so vivere secondo un modello e non potrò mai servire da modello ad alcuno; invece, quel che farò sarà vivere la mia vita come mi piace, qualunque cosa accada. Non ho principi da sbandierare, ma qualcosa di assai più prezioso, qualcosa che sta dentro di noi, che brama solo di vivere, che sa gioire, e preme per uscire alla luce». (Lou Salomè)


Scrittrice, poetessa, intellettuale, psicologa, controverso archetipo di militante femminista e di esempio di emancipazione. Secondo alcuni fu un Faust in gonnella, poco interessata a gingillarsi con parole vuote. Secondo altri una donna coraggiosa che rifiutò le convenzioni borghesi della sua epoca, con grande coraggio, usando spregiudicatamente il suo fascino, che fece innamorare metà degli intellettuali europei del 900.

Lou Salomé

Tre uomini, per lei, tentarono il suicidio: due ci morirono; il terzo no, e diventò suo marito. Lou von Salomé fu la più edotta sciupauomini del XIX secolo, famelica allumeuse di artisti e intellettuali, regina delle gattemorte nella scintillante Mitteleuropa.

Precocissima, fulminante fu la sua carriera di seduttrice seriale: nata nel 1861 sotto il segno dell’ Acquario, in una famiglia di nobili russi di origini baltiche, Lou intortò per primo il suo precettore, Hendrik Gillot , rigido pastore evangelico, disposto a rompere il suo matrimonio pur di ottenere la mano dell’ allieva. Ma niente: lei si negò, inaugurando una lunga serie di due di picche, cuori infranti, spasimanti sull’ orlo di una crisi di nervi.

Agli uomini (si) concedeva poco, tenendosi ben stretta la propria verginità: la perse a 36 anni, probabilmente con Rainer Maria Rilke , che aveva 14 anni meno di lei. Prima del poeta, però, aveva già fatto strage in mezzo continente.

Lou Salomé con Paul Rée e Friederich Nietzsche

Il suo talento per i triangoli amorosi – geometrico, precisissimo – si rivelò a poco più di vent’ anni, nella Roma salottiera del 1882, in cui fu introdotta dalla scrittrice Malwida von Meysenbug, che la presentò a Paul Rée e Friedrich Nietzsche , amici e filosofi. E l’ amore sbocciò, con l’ uno e con l’ altro, alternativamente in una santissima “Trinità”. Fu un amore platonico, si capisce: niente sesso, solo elucubrazioni.

Il primo a essere scaricato fu proprio Nietzsche, che per lei spese parole lusinghiere – “Una fanciulla molto singolare acuta come un’ aquila e coraggiosa come un leone” -, salvo poi ricredersi, una volta cornuto e scornato (si era anche proposto di sposarla): “È una scimmietta magra, sporca e nauseabonda, con quel seno inesistente e quell’ atrofia sessuale”, appuntò furibondo mentre abbozzava Così parlò Zarathustra.

Lou con Carl Andreas

Con Rée la liaison durò di più, quasi un lustro di peregrinazioni e fughe e tormenti in mezza Europa: anch’ egli le chiese la mano, ottenendo in cambio un secco diniego. Si lasciarono, lui fu ritrovato – cadavere – nel 1901, annegato nel fiume Inn, in Svizzera: un suicidio forse per amore di Lou.

Nel 1886, mentre finiva l’ amore con Paul iniziava quello con Friedrich , non Nietzsche, ma Carl Andreas , un orientalista tedesco, l’ unico che, dopo un tentato suicidio (sempre per amore di lei), riuscì a portarla all’ altare, trasformandola in Lou Andreas-Salomé: “Un Faust in gonnella, poco interessata a gingillarsi con parole vuote.

Quello che voleva era scoprire la forza nascosta che regge il mondo e ne guida la corsa: conoscerla, farla propria, amarla”, così la descrisse il marito nel libro My sister, my spose.

Pur longevo e finché morte non li separò, anche il matrimonio non fu mai consumato; la donna aveva altro per la testa: viaggiare e flirtare. La sua più famosa passione da adultera fu per il poeta Rainer Maria Rilke, un giovane toy-boy 21enne per lei già 36enne: si conobbero in vacanza a Wolfratshausen, in Baviera, nel 1897, e rimasero insieme per quattro anni, viaggiando molto, amoreggiando anche. Fin carnalmente.

Rainer Maria Rilke

Dopodiché le déluge: “Fosti il sublime che mi ha benedetto. E diventasti l’ abisso che mi ha inghiottito”, scrisse lui nel 1910. Perse la donna, ma almeno ritrovò la poesia. Lei, invece, perse solo la verginità. O forse no: l’ altro principale indiziato della deflorazione è Friedrich (il terzo della storia) Pineles , medico viennese, con il quale Lou avviò una relazione intermittente, as usual, concedendo però le proprie grazie.

I due si lasciarono proprio per un incidente di percorso, quando, nel 1902, lei abortì accidentalmente dopo essere rimasta incinta.

Donna di fascino, Salomé non fu solo mantide, ma anche raffinata intellettuale: istruita, ciarliera, mondana, ispirò molti artisti e scrittori del tempo. Soltanto il vecchio Lev Tolstoj la trattò con indifferenza e scarso ardore; viceversa incantato fu il lubrico drammaturgo tedesco Frank Wedekind, l’ennesimo lumacone, rifiutato dopo le sue esplicite avance in una camera d’ albergo: con un pizzico di malizia, il teatrante si vendicò con Lulù, la tragedia di una femme fatale spregiudicata e libertina.

Sigmud Freud

La vera Lou, però, occultò sempre, scientemente, il suo temperamento lascivo e la sua doppia vita di lesbica occasionale e festini da una notte e via, “la migliore cosa del mondo, che procura soddisfazioni divine e ci rigenera ogni volta”. Salomé teneva troppo alla propria immagine di donna altera e algida, nobile e fredda, e a letto ritrosetta; la reputazione era tutto per lei: a parte i succitati, i suoi spasimanti furono perlopiù uomini mediocri o sconosciuti, abilmente sottaciuti poiché la signora se ne “vergognava”.

Frank Wederkind

Tra i meno noti fidanzati ci furono il filosofo Hermann Ebbinghaus , il sociologo Ferdinand Tönnies e lo psichiatra Viktor Tausk , un altro che morì suicida anche per motivi sentimentali, anche per colpa di Salomé. Conobbe Tausk durante gli studi di psicoanalisi, lei che riuscì persino a diventare pupilla di Sigmund Freud : il maestro rimase folgorato dall’allieva, omaggiata con l’anello d’oro destinato ai discepoli prediletti. Lei lo stuzzicava: “Immorale come sono, ricavo sempre il massimo piacere dai miei peccati”. Ma il dottore non ci cascò del tutto: “L’ amavo molto ma, stranamente, senza un’ ombra di attrazione sessuale”.

Lou Salomé

Lou nel frattempo diventò psicoanalista, non disdegnando nemmeno la scrittura: tra le sue opere, alcune – come Erotica e L’ umano come donna – diventarono bestseller dell’ epoca; altre furono importanti da un punto di vista storiografico, più che letterario (vedi la biografia dell’ ex sodale Nietzsche). Nonostante la nutritissima collezione di morosi, Salomé restò insieme solo con uno: suo marito, al cui fianco morì nel 1937, poco prima di compiere 76 anni sotto il segno dell’ Acquario: “Sono eternamente fedele ai ricordi, non agli uomini”. Ma – che beffa – è proprio per questi, gli uomini, che verrà ricordata.

Camilla Tagliabue per il “Fatto quotidiano”

La copertina riporta il manifesto dell’ennesimo film su Lou Salomé del regista Cordula Kablitz-Post, presentato al Festival di Berlino nel 2016.

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