«Fidatevi: la flat tax si può fare davvero, e senza costi. L’ importante è usare la testa». Nicola Rossi, docente di economia politica, ex senatore del Partito democratico, già presidente dell’ Istituto Bruno Leoni, è considerato l’ inventore italiano della flat tax. O meglio, è stato il primo a mettere nero su bianco un progetto organico per introdurre la «tassa piatta» nel sistema fiscale del nostro Paese.
Noi della Verità ne approfittiamo per chiedergli una sorta di vademecum, in un momento in cui una proposta del genere, visti i chiari di luna, sembra poco più che un miraggio. Secondo Rossi la proposta di Matteo Salvini è accettabile, «purché non si faccia debito». La sinistra? Il professore sembra darla per persa: vede la flat tax come fumo negli occhi, ancora accecata da «pregiudizi ideologici».
È stata una campagna elettorale burrascosa. E adesso ci attendono mesi roventi sul piano economico. Come è stata trattata la questione fisco nelle ultime settimane? «Non bene. Considero quella fiscale una delle riforme più urgenti per il Paese. Ma è un pessimo segnale il fatto che del fisco ci ricordiamo solo sotto elezioni. E dopo, ciò che si fa, è ben lontano dai nostri bisogni».
Lei insiste molto sulla necessità di «azzerare», più che di modificare, le norme fiscali. Quali sono i difetti peggiori del nostro sistema? «Il nostro fisco ha 70 anni, e mostra tutti i limiti della sua età. L’ ultima riforma risale all’ inizio degli anni Settanta. Abbiamo fatto aggiunte qua e là, abbiamo messo qualche pezza, ma ormai il tessuto non tiene più. È un labirinto che andrebbe semplificato, se solo qualcuno trovasse il tempo e il coraggio di farlo. È inefficiente, iniquo, non produce gettito, ed è straordinariamente pesante. Insopportabile».
E dunque, proprio per semplificare le cose, lei ci ha fatto conoscere la leggendaria flat tax. Nella sua formula quante aliquote ci sono: due, tre, quattro? «Una sola per tutti».Una sola? Non avremmo più bisogno dei commercialisti. «Aliquota singola al 25%. Contemporaneamente, prevedo una no tax area pari a 7.000 euro per il singolo. E questo significa che l’ aliquota effettiva, tenuto conto anche di eventuali detrazioni, sarebbe ancora più bassa».
Sembra bellissimo. L’ obiezione fondamentale: con una sola aliquota facciamo un regalo ai ricchi. Cosa risponde? «Questo è uno dei tanti miti da sfatare. È esattamente il contrario. I regali ai ricchi li stiamo facendo adesso, con il sistema attuale».
Come sarebbe? «È molto semplice: l’ imposta sull’ Irpef in Italia è l’ unica imposta veramente progressiva, e in realtà si applica solo ai lavoratori dipendenti e ai pensionati. Le persone davvero abbienti non hanno redditi da lavoro, ma da capitale, da attività finanziarie o da immobili, e pagano un’ aliquota molto simile a quella che ipotizzo io per la flat tax. Per farla semplice: oggi, per i ricchi, l’ Italia è il Bengodi».
E i vari bonus e detrazioni? «Stesso discorso. Le considero conquiste con cui alcuni gruppi di pressione hanno ottenuto benefici per sé stessi. Sono niente più che trattamenti di favore. Lei pensa che nelle periferie povere si utilizzi il bonus palestra o il bonus giardini?».
Insomma, adesso mi vuole far credere che la flat tax è di sinistra? «Certo. Il problema è che la sinistra italiana non se ne rende conto. È molto legata alle sue vecchie idee, e certe cose non riesce a comprenderle. Pensare di rendere più equo il sistema caricando i costi sull’ Irpef significa non avere gli occhi per vedere la situazione».
Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, dice che la flat tax non farebbe che aumentare le disuguaglianze. «È una favoletta. Se andiamo a vedere i numeri, l’ Italia ha un livello di disuguaglianza sociale simile a quello di 30 anni fa».
Da uomo di sinistra, come se la spiega questa resistenza dei democratici a una misura del genere? «È un problema ideologico, un pregiudizio culturale. Sono luoghi comuni che impediscono di vedere quanto iniqua sia la situazione odierna. Ci siamo abituati a pensare che l’ equità si raggiunga aumentando le tasse e colpendo i redditi: bisogna invece agire sul lato della spesa e dei consumi.
Per esempio: oggi lo Stato aiuta le famiglie abbienti che mandano i figli all’ università. Per ogni figlio diamo un sussidio pari a due terzi del costo della retta. Non ha nessun senso. I servizi pubblici devono essere fatti pagare a chi ha le sostanze per farlo. Questa è la vera progressività».
Le faccio la domanda che avrei dovuto farle all’ inizio dell’ intervista: non ci sono i soldi per finanziare la flat tax, quindi di cosa discutiamo?
«La flat tax si finanzia con tagli di spesa, e spostando il carico fiscale dall’ imposizione diretta all’ imposizione indiretta. Meno Irpef e più Iva».
Ma come: stiamo cercando 23 miliardi per scongiurare l’ aumento dell’ Iva, e lei la vuole aumentare?
«Mi viene da ridere. Quando ho proposto di portare l’ Iva al 25% tutti erano preoccupatissimi, adesso invece potrebbe arrivare al 27».
Quelli che dovranno riempire il carrello della spesa rideranno un po’ meno. «Togliamoci dalla testa che un aumento dell’ Iva farebbe crollare i consumi. Non è affatto detto. A una condizione, però: bisogna fare le due cose insieme. Da una parte aumentare le imposte sui consumi, dall’ altra abbattere l’ Irpef. Ogni provvedimento, ovviamente, deve essere credibile. E per essere credibile non dev’ essere fatto a debito». La sua proposta è stata riformulata in tanti modi. La Lega di Salvini propone due aliquote distinte.
«Non mi straccio le vesti se anziché un’ aliquota ne lasciano due. Il problema è che Salvini vuole finanziarla in deficit, e su questo non sono d’ accordo. Anzi, mi stupisce che un partito di destra abbia convinzioni economiche degne della peggior sinistra veterocomunista. La destra vera per me è altro».
Cioè?
«È di destra chi persegue costantemente una riduzione della presenza dell’ operatore pubblico nell’ economia».
Rossi, lei è stato senatore democratico ma mi parla come Margaret Thatcher, quando diceva che i socialisti, pur di rendere i ricchi meno ricchi, rendono i poveri più poveri.
«Certo, è così. Non voglio difendere né la sinistra, né la destra. Il punto è che nessuno in questo Paese sottolinea che probabilmente una riduzione della presenza dello Stato nella vita economica sarebbe utile e opportuna».
Questo mi lascia pensare che non è un fan del reddito di cittadinanza del Movimento 5 stelle. «Ci mancherebbe. È un provvedimento che non porterà benefici né a chi lo riceve né a chi se l’ è inventato. Oggi la gente comincia a irritarsi perché pensava di ottenere di più».
La flat tax secondo lei è una medicina che agirebbe subito sull’ economia? «Immediatamente. Le persone avranno la sensazione che le tasse sono diminuite veramente. L’ anno scorso invece, nonostante un deficit al 2,4%, ci siamo ritrovati con una pressione fiscale aumentata. Certo, dev’ essere un progetto ben pensato». Altrimenti? «Altrimenti andiamo pure avanti con gli 80 euro di Matteo Renzi: una scelta mal pensata, mal disegnata e peggio realizzata».
Ma all’ estero la flat tax funziona?
«Certo che funziona. Qualcuno si oppone dicendo che non è stata introdotta in nessun grande Paese occidentale, ma questo è risibile. È stata adottata per intero in una serie di Paesi che hanno avuto un cambio di regime, come i Paesi dell’ Est, i quali hanno dovuto riscrivere da capo le proprie regole fiscali.
Ma anche nelle grandi nazioni occidentali si assiste a una tendenza evidente. Negli ultimi 40 anni si sono andati regolarmente riducendo il numero e il livello delle aliquote. Insomma: chi da subito, chi per gradi, ma tutti stanno andando verso la flat tax». Che fine ha fatto la promessa di ridurre il cuneo fiscale? «La flat tax sicuramente contribuisce a ridurre il cuneo fiscale. Certo, bisognerebbe intervenire anche sui contributi sociali. Ma quelli potranno essere diminuiti solo con interventi in campo previdenziale che non comportano aumenti di spesa, come invece purtroppo abbiamo fatto». Si riferisce a quota 100?
«Mi sembra abbastanza inutile. Per carità, la legge Fornero era tutt’ altro che perfetta. Ma bisognava intervenire chirurgicamente: abbassare l’ età pensionabile per tutti è un errore.
Viviamo di più, e quindi ci tocca lavorare di più. È sgradevole, ma è la realtà».
EMANUELE SEVERINO RIFLETTE SULLA MORTE IL CUI AVVICINARSI E’ PREANNUNCIO DELLA GIOIA-SECONDO IL FILOSOFO E’ UNA FOLLIA CREDERSI MORTALI E CONTESTA CHE QUALCOSA POSSA VENIRE DAL NULLA E FINIRE NEL NULLA. SIAMO ETERNI- IL FASCINO DELLE PAGINE DI ELIAS CANETTI E DEL DOTTOR SONNE.
“Tacere sulla morte. Per
quanto tempo resisti?”. Già, per quanto tempo? È incalzante, Elias Canetti.
Chiede a sé stesso e a noi, a noi e a sé stesso: per quanto tempo possiamo
resistere nel tacere sulla morte? E nel pensarvi? Forse quest’ultima sarebbe
stata la domanda più appropriata. Tacerne spesso si può. Non pensarvi è
impossibile. Alla domanda di Peter Gomez: “Pensa spesso alla morte?”, Vittorio
Sgarbi ha risposto: “Penso soltanto alla morte. Sapere che gli anni rimasti
sono inferiori a quelli vissuti, mi angoscia. Ma è inevitabile”. Emanuele
Severino ha una visione ostinata e contraria. Per il maggior filosofo italiano
contemporaneo, “la morte non è annientamento. Nell’eterno
apparire del tutto, in cui l’uomo consiste, la morte è il passaggio da uno
spettacolo dove gli eterni costituiscono ciò che chiamiamo ‘vita’ allo
spettacolo degli eterni che oltrepassano l’alienazione del vivere”.
Eppure, si muore. La morte non muore. Sgarbi, arrivata l’ora, non avrà più Gomez a fargli domande, ma non sarà annientato. Continua Severino: “Non può essere l’annientamento di alcunché di ciò che un uomo è stato. Ecco lì il cadavere: si crede che esso sia la prova… ‘vivente’ dell’annientamento della vita. Ma – e qui siamo di fronte a uno dei nuclei concettuali più complessi – il cadavere non è l’apparire dell’annientamento del corpo vivente, non appare che il corpo vivente sia diventato niente. Ma dopo l’apparire del corpo vivente appare il cadavere. L’esperienza, di fronte alla quale tutti, più o meno consapevolmente, si tolgono il cappello, non mostra l’annientamento delle cose.
Ho sempre usato per chiarire un poco queste affermazioni la metafora della legna e della cenere: la legna sta al vivente come la cenere sta al cadavere. La cenere è il cadavere della legna. Ma quando si esperisce la cenere, non si esperisce l’annientamento della legna. Quando si esperisce la cenere, questo esperire è il compimento di una serie di esperienze in cui appare la legna spenta, poi la legna accesa, poi la legna meno accesa, poi il suo cadavere, la cenere”.
Per Severino, avvicinarsi alla morte è avvicinarsi alla gioia:
“Siamo re che si credono mendicanti. L’uomo è eterno, ma crede alla follia che
lo dice mortale e quindi mendica la propria salvezza dal baratro del niente
presso un Dio oppure, come accade ora, presso la scienza”. Si ostina, invece,
Canetti, strappando e riscrivendo persino i comandamenti. “Non morire (il primo
comandamento)”. Vietato morire. Ribellatevi al peccato della morte. Non cedete
al desiderio della morte, alla pulsione di morte. Ma nel 1994 Canetti è morto
davvero, lasciando a noi, a chi non smette di frequentare i suoi libri,
l’incombenza di continuare la buona battaglia.
Non metto in discussione solo il Cristianesimo, ma tutta la civiltà occidentale e la sua filosofia, secondo la quale noi veniamo dal nulla e finiamo nel nulla. Questa è l’ essenza del nichilismo. No, ognuno di noi è un dio con la convinzione di essere contingenza, ombra di un sogno. L’ uomo è una povera cosa: lo dice Pindaro, lo dicono Shakespeare e Leopardi, è il clima creato da Bertolt Brecht. In realtà siamo l’ eterno apparire del destino. I nostri morti ci attendono come le stelle del cielo attendono che passino la notte e la nostra incapacità di vederle se non al buio. Siamo destinati a una Gioia più intensa di quella che le religioni e le sapienze di questo mondo promettono. Il mendicante è il nostro essere convinti, per esempio, che io stia farneticando, perché le cose reali sono questo mondo, l’ Europa, l’ Italia, i rapporti economici, giuridici, sessuali. Mentre il fondo dell’ uomo consiste nella sua permanenza assoluta. Con la morte noi superiamo lo stato di mendicità: la morte ci consente di oltrepassare il senso del nulla». Intervista Pier Luigi Vercesi Corriere sera 31.12.2018
Utopia, si è detto e si è scritto. Non si è taciuto sull’utopia canettiana. Sulla sconfitta canettiana. Ma perde davvero chi muore, lasciando un’opera aperta, immortale? Perde davvero chi ha costruito un’opera, ha lanciato un guanto di sfida senza poterla condurre fino in fondo? È davvero utopico chi vuole annientare la morte? Che cos’è la vita se perde il gusto dell’utopia, il gusto di sfidare ciò che sembra inscalfibile, irremovibile, imbattibile? Se è vero che siamo ormai finiti, per dirla con Bauman, nella rete della retrotopia, incapaci di puntare davanti ma con lo sguardo perennemente rivolto indietro, quando si stava meglio anche quando si stava peggio, porsi l’obbiettivo temerario di sconfiggere la morte non solo diventa lecito, ma necessario, addirittura urgente. Ma quale morte? Quella biologica? I corpi, presto o tardi, scienza o non scienza, sono destinati a logorarsi. È possibile eliminare ogni altra forma di morte? È possibile sottrarre a ogni altra forma di morte la potenza energetica, il terreno quotidianamente coltivato per rinforzarla e sostenerla? Bisogna scegliere. C’è Karl Kraus e c’è il dottor Sonne. C’è l’attività strabordante, con l’innata matrice assassina e ingorda di sangue, e c’è l’attività-passiva, priva di ambizione e di potere.
Priva di morte. Importante è non morire prima di morire, non consegnarsi alla morte, non farsi guidare dalla morte mentre si vive. Kraus è impregnato di morte, il dottor Sonne no. Ma chi è il dottor Sonne? Chi è quest’uomo che “parlava come Musil scriveva”? Bisogna leggere Il gioco degli occhi e subire il fascino della solare figura canettiana. Sonne, infatti, vuol dire sole. L’opposto del buio. L’opposto della morte.
Iniziamo da quelli degli allievi, poi passiamo a quelli dei professori, sì perchè ce n’è per tutti negli esami di maturità in corso – Fra analfabetismi di andata e di ritorno, incapacità a capire un testo, elogio dell’incultura, cosa sarà mai il futuro?
Esame che vai, strafalcioni che trovi. La Maturità 2019 non
fa eccezione. La nuova formulazione dell’esame di Stato, infatti, non l’ha reso
immune agli errori (in molti casi orrori) pronunciati e scritti dai maturandi
durante le prove. Skuola.net ha fatto il tradizionale sondaggio ‘sotto banco’
in cerca dei più esilaranti scivoloni andati in scena dinanzi alle Commissioni.
A spifferarli i loro compagni di classe – in totale sono stati circa 6mila –
che hanno voluto contribuire alle segnalazioni. Nessuna materia è stata
risparmiata, i maturandi hanno colpito e affondato tutti i segmenti del loro
percorso di studi. Senza distinzioni o trattamenti di riguardo.
Letteratura sballata: dal “poeta water” al Luigi
XIV di Pirandello
La letteratura, italiana e internazionale, è senza dubbio un
evergreen di tutte le compilation di strafalcioni che si rispettino. E anche
quest’anno i ragazzi sono stati all’altezza dei loro predecessori. Iniziando da
uno dei poeti più presi di mira durante questa Maturità: Gabriele D’annunzio,
che se per qualcuno è stato uno dei primi “estetisti” d’Italia (ormai un
classico), per altri invece – nascondendo forse un velato insulto – è
definibile come “poeta water”. Per non parlare del povero Giovanni Verga, a cui
tolgono la paternità dei Malavoglia, affermando come l’opera sia nata dalla
penna di Italo Svevo. Ce n’è anche per l’amatissimo Luigi Pirandello, il cui
famoso Enrico IV si è trasformato in Luigi XIV; in fondo si tratta sempre di un
nome con un numero a fianco.
Non solo italiana, colpita anche la letteratura inglese
Neanche Dante hanno lasciato riposare tranquillo: c’è
infatti chi ha attribuito a lui la composizione del X Agosto (che invece è di
Pascoli), e chi, più audace, l’ha definito come uno dei più noti ebrei
italiani. Sugli autori più recenti non è che vada molto meglio: parlando di
1984 di Orwell, una ragazza ha chiamato ripetutamente in causa il protagonista
Will Smith (proprio lui, l’attore) invece che Winston Smith; evidentemente si
tratta di una sua grande fan. Excursus sugli strafalcioni letterari che si
conclude con uno studente sin troppo zelante che, scegliendo come traccia del
tema l’analisi del testo sul componimento di Ungaretti, leggendo il sottotitolo
“Mariano, 1916”, ha interpretato quella specifica come nome proprio invece che
luogo, citando così più volte all’interno del suo elaborato tale Mariano, il
caro amico defunto di Ungaretti.
Non solo storia: i maturandi prevedono il futuro
Anche in storia i maturandi si sono dati da fare,
interpretando passato, presente e futuro a modo loro. Infatti non si sono
limitati a stravolgere le battaglie avvenute nel passato, indicando ad esempio
Italia e Germania alleate durante il primo conflitto mondiale o proclamando
Mussolini governatore d’Italia nel 1915, ma sono andati anche a fare previsioni
su un nostro ipotetico futuro, tirando fuori una – nella loro testa
evidentemente non troppo improbabile – terza guerra mondiale e collocandone
addirittura l’inizio (già avvenuto) in India. Una fantasia da far invidia.
Tuttavia, neanche la storia più antica si è salvata: per uno studente Tito
Livio in realtà altro non era che uno degli Imperatori romani, mentre per un
altro Garibaldi visse attorno al 1300.
Sulla storia recente i ragazzi improvvisano
Ma gli strafalcioni storici più creativi, a nostro avviso,
sono stati soprattutto due, entrambi sulla Guerra Fredda e sull’interpretazione
dell’aggettivo “fredda”: secondo il primo maturando, l’aggettivo è riferito al
fatto che la Guerra fu combattuta “senza sentimento”, in maniera crudele e
distaccata; mentre per il secondo, un po’ più pratico, la Guerra è così
chiamata perché ha avuto come luogo di svolgimento la Siberia. Forse aveva
informazioni che noi ignoriamo.
Domande dai prof: a volte meglio non rispondere
I più ammirevoli (per modo di dire) sono, però, i ragazzi
che hanno avuto il coraggio di rispondere ai propri professori in modo
divertente, a volte irriverente. Probabilmente per allentare la tensione del
momento. Come quel maturando che ha dato la risposta che chiunque sogna di dare
alla domanda della professoressa, nel suo caso commissario esterno di
matematica: “Facciamo un esercizio sulle derivate?” ha chiesto lei; “No,
grazie!”, ha educatamente ribattuto lui. O come quella ragazza che, invece, ha
tentato un salvataggio in extremis, purtroppo non riuscendoci e facendo così un
eclatante autogol: “Parlami della rivoluzione di febbraio”, le ha
chiesto il docente. E lei: “Forse intende dire quella di ottobre, quella
di febbraio non esiste” (risposta sbagliata). Ma il vincitore è stato il
maturando che è riuscito a confondere un nome quasi inconfondibile –
evidentemente a causa delle troppe serie tv viste – e al posto di Pablo
Picasso, ha detto che Guernica è stata dipinta da Pablo Escobar.
Cittadinanza e Costituzione nuovo ostacolo dell’orale
Un capitolo a parte, infine, merita la materia new entry dell’esame orale post riforma: Cittadinanza e Costituzione, bersagliata da ogni lato. C’è chi infatti davanti alla richiesta della commissione di iniziare un discorso sull’argomento si è mostrato molto perplesso, chiedendo poi delucidazioni: “Ma Cittadinanza di italiano o di storia?”. Molteplici pure le segnalazioni di studenti totalmente impreparati sulle attuali cariche dello Stato, a partire dal Presidente della Repubblica: molti non riescono a citare neanche un nome, molti altri invece cercano di sopperire a questa mancanza, tirando fuori nomi quanto meno fantasiosi. La top 3? Un ragazzo ha candidamente risposto Conte, sbagliando il colpo di qualche grado; un altro ha parlato di Matteotti (tutt’altro destino il suo); il terzo non solo ha sbagliato personaggio (confondendolo nuovamente con Matteotti, chissà perché poi…) ma ne ha addirittura storpiato il cognome, soprannominandolo Matteozzi.
Povero Pitagora, è stato rimpiazzato da Petrarca. Un errore
può capitare a tutti. Ma è ovvio che, quando capita a un docente di dire uno
strafalcione, per gli studenti scatta la rivalsa. Ancora di più se la
castroneria esce fuori proprio durante l’esame di maturità. In quel caso è
proprio da ricordare. Così i maturandi del 2019, di cui Leggo ha già riportato
le gaffe più imbarazzanti, hanno deciso di raccontare al sito specialistico
skuola.net gli orrori in cattedra durante gli orali. Anche i commissari infatti,
probabilmente stremati dal caldo e dalla durata delle prove, si son lanciati in
in bizzarre teorie.
Qualche esempio? Quell teorema di Pitagora che è diventato
«il teorema di Petrarca». Un lapsus dovuto alle nuove prove multidisciplinari?
Forse. Ma allora che dire del campione di ciclismo Gino Bartali, protagonista
di una traccia dello scritto di italiano? Per un commissario si trattava di uno
sportivo degli anni ’80. Peccato che la stessa traccia d’esame facesse
riferimento proprio all’impegno di Bartali durante il nazismo nella difesa
degli ebrei.
Un caso particolare riguarda il poeta Giuseppe Ungaretti: un
professore di Scienze ha insistito per attribuirgli Ossi di seppia di Eugenio
Montale, mentre una professoressa di italiano ha voluto accreditargli la
stesura del Mastro Don Gesualdo, di Giovanni Verga. A far sobbalzare tutti
sulla sedia, però, è stata una docente che gli ha attribuito addirittura
l’Infinito. Peccato che sia una delle opere più celebri, se non la più celebre,
di Leopardi ed è stata ampiamente trattata durante l’anno scolastico per la
ricorrenza dei 200 anni.
Per Storia e Geografia le cose non sono andate meglio:
«L’America si trova a est del mondo» ha spiegato un professore, mentre un altro
ha assicurato che Il Venezuela è uno degli Stati dell’Asia. Per una docente la
sconfitta di Caporetto è avvenuta durante la Seconda Guerra Mondiale che, a sua
volta, sarebbe scoppiata perché Hitler ha invaso Pearl Harbor.
Brutte prestazioni anche per Fisica con una docente secondo
cui la forza di gravità è uguale a 10, mentre un professore di Matematica, dopo
aver dato un esercizio da svolgere a un candidato, si sarebbe rivolto vero il
collega di Scienze ammettendo con candore: «Controlla tu, io con i numeri mi
confondo».
LETTERATURA E BOTTIGLIA: PERCORSI NARRATIVI TRA STORIA, COSTUME E ARTE – LO SPAZIO DEL VINO NELLA VITA DELL’UOMO – ” EMPI IL BICCHIER CHE E’ VUOTO/VUOTA IL BICCHIER CHE E’ PIENO/NON LO LASCIAR MAI VUOTO/NON LO LASCIAR MAI PIENO. “
Come poche altre, la civiltà del bere è allocuzione ricca di
rimandi e di suggestioni.
In essa si condensa e stratifica l’intera storia dell’umanità.
Fin dalle più remote testimonianze, l’atto dell’uomo che beve risponde ad un
bisogno elementare che sovente si accompagna ad un rito, un evento sociale, un
valore da tramandare, un ricordo da cancellare, un patto da suggellare,
un’amicizia da consolidare.
Primo fra tutti, nell’incertezza primordiale di una natura
ostile, il legame con il trascendente, con Dio.
L’uso delle bevanda, più specificamente del vino, nei riti
sacri, propiziatori o funebri, negli sponsali è diffuso in ogni epoca e in ogni
letteratura, fin dalle epoche più arcaiche.
Nel Vecchio Testamento (genesi 9:20) si racconta di Noè che
pianta la vigna sul monte Ararat, quello stesso dove si salva dal diluvio
universale e sulle cui creste ancora oggi archeologi fantasiosi ricercano
l’Arca.
Vicino a Montevarchi, in provincia di Arezzo, in un deposito
di lignite, sono stati ritrovai i resti fossili di tralci di vite datati a 2
milioni di anni fa.
Residui vinosi sono stati trovati all’interno di una giara
di terracotta, di circa 9 litri di capacità, venuta alla luce in un villaggio
neolitico nel nord dell’Iran.
Si può dire che l’uomo a inventato il vino? Sì e no.
Di certo la vite è pianta spontanea, come spontanea sarà
stata la prima fermentazione del liquido dell’uva, magari innescato di qualche
lievito.
La trasformazione poi del metanolo in vino, nella bevanda
come oggi la conosciamo e apprezziamo, è tutta un’altra storia, che non poteva
essere scritta senza la mano dell’uomo.
Nella storia della letteratura la prima testimonianza
dell’uso di bevande alcooliche la troviamo incisa sulle 11 tavolette di argilla
che raccontano il mito di Gilgamesh il sovrano sumero, per due terzi divino e
per un terzo uomo, grande amatore (secondo gli studiosi ha inventato lo ius primae noctis). Chissà quale parte
della sua natura identitaria lo spingeva ad allietare il gargarozzo: quelle
divine o quella umana?
Il vino, certo confortava il viaggio agli inferi di Kha,
l’architetto dell’antico egizio, la cui tomba fra le poche trovate intatte, è
ora conservata al museo Egizio di Torino.
Osiride è dio della fertilità e della morte, quindi colui che consente la vita e che la spegne,
pesando i cuori nell’oltretomba, dando in pasto ad un mostro quelli che erano
più pesanti di una piuma.
Ebbene, si narra che proprio Osiride insegnasse agli egizi
la coltivazione della vite e la produzione del vino.
Le testimonianze letterarie sulla vite e la produzione del
vino in ambiente greco e romano sono abbondantissime, a volte sotto forma di
frammenti, altre volte come snodi narrativi per motivare l’azione o descrivere
l’ambiente, all’interno di famosi poemi, come l’Odissea,IIiade, Eneide.
Omero così descrive il giardino di Alcinoo: “ Ivi una vigna
è anche piantata feconda/di grappoli; parte di questi seccavano al sole/ su
aprica terrazza, spiccati, e fanno di altri vendemmia/ e altri li pigiano; uve
più avanti/ acerbe pendono in fiore, altre imbrunano” (odissea VII).
Orazio, liberto quindi schiavo liberato, dalla nativa Venosa
non porta solo l’aglianico, ma un vero e proprio culto per la vite: nel Carme I.18
esorta l’amico Quintilio Varo a coltivare la vigna “voce di Dioniso, padre di
amore di bellezza”. Fra una libagione e l’altra, meditando sulla frenetica vita
dell’urbe non ancora eterna, Orazio nel Carme II-11 si rivolge a Quinto Irpino
per incitarlo a bere il vino perché “..sperde i vecchi pensieri che consumano”.
Nel Carme I,11, vv 6-7 Orazio esorta” filtra il vino, poiché la vita è breve
rinuncia alle speranze lontane”, …..
Sulla diffusione del mito di Dioniso, ucciso dai Titani
appena nato e dalle cui ceneri sparse nasce la vite, abbiamo testimonianza
diffusa nel materiale archeologico e nei reperti attici, corinzi, italioti, nei
quali il dio è raffigurato ebro e danzante sotto pergolati, inseguito della
baccanti.
Lo sviluppo della viticultura a Roma avvenne grazie alla
importazione di nuovi vitigni dalla Grecia e, specie con Augusto, alla
stabilità politica e all’assegnazione delle terre ai veterani. Ben presto
viticoltura e enologia rappresentarono aspetti importanti dell’economia romana,
come testimoniano i trattati di agricoltura da Catone a Varrone a Lucio Moderato Columella, allo stesso
Virgilio e i ritrovamenti di Ercolano e di Pompei.
E’ probabile che compagno di libagioni di Orazio, magari
allo stesso desco di Augusto, sia stato il poeta Ovidio, relativista ante litteram, una sorta di bunga bunga
latino, mondano e salottiero, tre matrimoni, poeta ufficiale di Augusto fino
alla caduta in disgrazia, sulla quale sono fiorite molteplici congetture. Ovidio,
sfuggente sul punto, nella sua Ars
amatoria I 237-244, si limita ad affermare: “il vino dispone l’animo
all’amore e lo rende pronto alla passione” . Aggiungo ai possibili motivi delle
caduta la più verosimile: una sbornia colossale e una confessione troppo
esplicita all’augusteo ospite (in vino veritas, appunto).
Un Catullo in stato di alterazione alcoolica è quello che incita
un coppiere a versagli non acqua, ma un calice di Falerno: “ tu via, dove vuoi,
vattene, acqua rovina del vino; con gli estremi va a stare. Questo è puro
Bacco”. (Carme 27). Provenendo da Verona è assai probabile che Catullo abbia
avuto precoce dimestichezza con il vino, nel tentativo di trovare conforto dal
travagliato amore per Lesbia.
L’affinità fra corpo e vino si rinviene nella consuetudine
ancora attuale, quando si versa un po’ di vino, di inumidirsi le dita e
toccarsi reciprocamente in segno benaugurante . Spandere il vino per farne
sprigionare le proprietà vivificanti e miracolose è credenza che risale
addirittura ad età arcaica e documentata durante i simposi greci.
Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia XXII,114
racconta di Augusto che chiede all’ultra centenario Pollione Romilio il segreto
della sua buona salute: “all’interno col vino, all’esterno con ‘olio” risponde
il vecchio. Lo stesso Plinio, secondo quanto riporta Manica Nanetti nel suo Del corpo del vino, elencava i vini
conosciuti dai romani in circa 80 qualità pregiate e cento di normale qualità.
Né poteva mancare Virgilio, il poeta bucolico per
eccellenza, che nel II libro della Georgiche elenca le qualità dei diversi
vini, fornendo consigli su come scegliere il terreno adatto, sulla zappatura,
sui sostegni, sulla potatura della vite e sulla raccolta.
“Ci sono le vigne di Taso, ci sono le uve di Marea, bianche,
s’addicono queste a terreni grassi, quelle a terre più fini;
e la psitia migliore per il passito e il lageo leggero,
che alla fine fa barcollare e impaccia la lingua,…
…. Vi sono le viti aminee, vini robustissimi,
a cui cedono il passo quello di Tmolo e persino il Faneo, re
dei vini..
Il vino romano, a causa delle scarse tecniche di
conservazione, era un liquido assai diverso di quello attuale: sciropposo,
molto alcoolico e dolce, a volte col sentore resinoso che prendeva dai
recipienti di terracotta in cui veniva conservato. Com’è testimoniato in
numerosi scritti, il vino veniva bevuto allungato con acqua e mischiato a miele
o altre spezie.
Lorenzo Bianchi, ricercatore, sull’Osservatore Romano del
dicembre del 2005, ricorda la prima esplicita menzione al fenomeno della
transustanziazione, una epigrafe di otto versi collocata nella basilica di San
Lorenzo Fuori le Mura in Roma che recita: “Il vero sangue è sull’altare e
sembra vino”.
Come non ricordare la centralità del vino nella liturgia
cristiana, fin dal suo esordio sul Vangelo: ricordiamo che i famosi ultimi che saranno primi sono gli operai
che lavorano una vigna (Matteo 20, 15), che la vigna sarà data ai vignaioli che
la sapranno far fruttificare ( Matteo 21,17) mentre il primo miracolo di Gesù è
quello della trasformazione dell’acqua in vino per le nozze di Cana ( Giovanni 2,1-11).
In tale occasione, curiosa è l’affermazione che Gesù fa allo
sposo, che suona così: gli altri danno prima il vino buono, poi quello meno
buono, tu sei fortunato perché puoi dare tutto vino buono. E’ la testimonianza
storica di una pratica invalsa già allora: presi dai fumi del vino puoi dare
agli avventori qualsiasi intruglio.
Durante l’ultima cena Gesù si rivolge ai discepoli dicendo:
“io sono la vera Vite e il mio padre è il vignaiolo.. Io sono la Vite e voi i
tralci,,”(Vangelo di S. Giovanni 15).
Il significato mistico è evidente: la vite è la chiesa, gli
apostoli devono fruttificarla, come i tralci devono crescere, recare grappoli,
alimentare la cena del Signore. Solo una cultura fortemente legata alla cultura
e alla pratica della coltivazione dei vigneti poteva suggerire all’ebreo
palestinese Gesù di Nazareth una similitudine così diretta.
Crollato l’impero
romano, le campagne restano a lungo incolte, inselvatichite. I villani lasciano
i poderi insicuri e si rifugiano nelle città, nasce l’economia curtense. I
vassalli dispongono di tanta terra da coltivare e la indispensabilità del vino
ai fini eucaristici, spingono gli ordini religiosi a coltivare le vigne e a
perfezionare le tecniche di vinificazione, alcune delle quali ancora in uso
adesso.
San Benedetto, nella sua Regola, con una buona dose di
realismo, sa che opporsi all’uso del vino nei conventi sarebbe una partita
persa prima di giocarla.
La Regola è quella riassunta nel motto ora et labora ed è comprensibile che seppure i lavori più pesanti
fossero affidati ai postulanti o agli
artigiani del convento, di certo ai monaci un cicchetto ogni tanto, magari nel
rigore della cella, non doveva essere sgradito.
San Benedetto allora così detta: “ Ben si legge che il vino
ai monaci assolutamente non conviene; pure perché ai nostri tempi è difficile
che i monaci ne siano persuasi, allora ciò acconsentiamo, in modo però che non
si beva fino a saziarsi”. Chissà se sarebbero bastate, al frate cellario, in
questo caso, le pur capienti botti di alcuni cantine conventuali. La Regola
stabiliva, per la precisione, una razione pro capite giornaliera equivalente al
nostro quartino.
Il pensiero va al romanzo di Eco Il nome della rosa, capostipite del genere giallo storico erudito,
all’abbazia localizzabile probabilmente in Val di Susa, e in particolare a due
dei personaggi che compaiono nel libro: il cellario, appunto, Remigio da
Varagine e il dolciniano Salvatore, crapulone, deforme e ripugnante,
fornicatore e gran bevitore.
Nel romanzo non ci sono pagine dedicate al vino e all’arte
di vinificare, che pure ci sarebbero state bene, vista l’attitudine dei frati.
Ma alcuni personaggi sembrano in preda ad una eccitazione
dionisiaca, ad una perenne ansia espiatoria.
Fra queste spicca Salvatore lo sguattero, una figura che
ricorda, per i tratti fisici e per la misteriosa lingua che farfuglia
mischiando latino volgare, dialetto francofono, parole auliche ed
ecclesiastiche, un vero e proprio satiro, simbolo di ogni eccesso.
In fondo se c’è nel libro una morale questa può essere che
ogni eccesso rovina: frate Jorge per l’eccessivo amore per Dio, i crapuloni e
incontinenti per l’eccesso dei piaceri. Una morale sulla quale, di fronte
all’ennesimo bicchiere di vino, varrà la pena riflettere.
Frate Guglielmo, unica figura interamente positiva del
romanzo, risponde al novizio che lo interroga: “Cosa vi terrorizza di più della
purezza? chiesi- La fretta, rispose Guglielmo”. (pag. 388 Bompiani 1980).
Un indiretto elogio alla
lentezza, che avrebbe fatto di Guglielmo un buon vignaiolo e un ottimo enologo,
viste le sue attitudini alla calma e alla riflessione, il pensiero originale,
la curiosità, l’amore per l’ordine e per le piccole cose.
Nel Medioevo col crescere dei
consumi si infittiscono le regole per vinificare e mescer il vino, temi già
trattati da Carlo Magno nel suo editto De Villis. Gli statuti medioevali
disciplinano minuziosamente la
composizione della bevanda, stabilendo che non possa contenere spezie o
zuccheri.
Si stabilisce, ad esempio, che
il vino novello, quello da consumare fra novembre e dicembre, deve essere
segnalato all’ingresso della taverna da un rametto di ulivo o altra pianta,
tradizione ancora in uso, specie nelle zone rurali del sud d’Italia. Forse è da
questa antica usanza che prende nome “foglietta” il bicchiere di vino.
Nelle hosterie (da host, cioè
ospitante) vengono servite pietanze particolarmente adatte alle bevute: ad
esempio minestra di fagioli secchi, servita salata, lo scapece, pesce fritto e
poi marinato in sale e aceto.
Legumi, zuppe, farinate vengono
servite comunemente anche sulle tavole dei ricchi, anche se di contorno ai
piatti più costosi, a base di carne e selvaggina, accompagnato dai vini più
invecchiati e pregiati.
Il cibo assume un forte valore
simbolico di status, come ci ricorda Massimo Montanari nel suo Alimentazione e
cultura nel Medio Evo” Laterza 1988, ma attorno alla tavola rotonda della
taverna cade ogni distinzione sociale. Il villano e il nobile sotto la frasca,
accomunati nell’eccitazione benefica del vivo, fanno proprio l’invito di Orazio
aduna gioia, magari frugale, ma per brevi attimi incondizionata.
Le qualità curative del vivo
crescono nella credenza popolare e nella pratica quotidiana con l’affinamento
delle tecniche di vinificazione e con la creazione, all’inizio nei conventi e
nelle abbazie, per curare l’anima dopo avere curato il corpo, poi ad opera
degli speziali a fini commerciali, di bevande a base di vino o alcool, con
aggiunte di additivi, principi attivi della vecchia farmacopea, varianti utili
ad incontrare i gusti dei consumatori.
Per avere esatta cognizione di
cose fosse il vino d un punto di vista chimico occorrerà attendere Lavoisier,
ciò nonostante la sapienza nella preparazione dei semplici l’evidenza empirica della loro efficacia, unita alle
fanfaronaggine di uno stuolo infinito di botanici improvvisai, piazzisti senza
scrupoli e un caravanserraglio di avventurieri di ogni risma, contribuiscono ad
una diffusione incredibile…
Fracastoro nel 1555 nell’opera
“De vini temperatura sententia” racconta di una disputa fra due medici veronesi
(due perdigiorno nullafacenti) circa la classificazione del vino, secondo le
indicazione ippocratiche, se cioè ritenerlo “caldo e umido” o “caldo e secco”.
Ci consola il fatto che, persi nelle loro dispute, almeno i due non potevano
fare danni sui poveri pazienti. Nel
libro V di Dioscoride, nella traduzione del Mattioli del 1568 si legge: “
liquore, vero sostentamento della vita nostra, rigeneratore de gli spiriti,
rallegratore del cuore, restauratore potentissimo di tutte le facultà,
operationi corporali, però meritatamente si chiama vite la pianta
preziosissima, che lo produce… Ma bevuto senza modestia, senza regola (come
fanno gli ebbriachi) infrigidisce tutto il corpo(…) nuoce al cervello, alla
nuca, ai nervi: però causa (…) mal caduco, spasimo, stupore, tremore,
abbagliamento d’occhi, vertigini(…) letargia.”
Lo stesso Mattioli consiglia ai
lettori di “bersene ogni mattina a digiuno un cucchiaio” per sfruttare le
qualità curative del vino.
Il ‘600 per quanto riguarda il
vino è prevalentemente francese. Non erano ancora stati inventati i caffè, ma
le botti che sprizzavano vino alla Croix de Lorraine o a la Pomme di Pin,
costituiscono il primo esempio di locali alla moda che nei secoli della Bella
Epoque renderanno Parigi celebre nel mondo.
Ben inteso, i frequentatori di
allora non erano gli squattrinati artisti boemiennes dell’800-900, ma borghesi
ben pasciuti, amanti della buona tavola e del buon bere. Fra di essi anche
letterati eccellenti, come Racine, Molière La Fontaine.
La figura dominante nel campo
enologico è in quel secolo un abate, procuratore presso l’abbazia di
Hautvillers: dom Pierre Pérignon, il cui nome ricorre ancora oggi su una
celebre etichetta di champagne.
Usava il pinot nero, a perfetta
maturazione, libero di muffe o acini verdi: l’uva doveva essere tutta di
qualità eccellente. La pressature era rapida e il mosto subito raccolto e
travasato in botti. A vino fatto esso veniva travasato e chiarificato più
volte. Verso maro, alla luna, dom Pérignon metteva il vino in bottiglia dove i
residui di zucchero ancra presenti fermentavano in bottiglia, conferendo al
vino le famose bollicine. Se dopo 18 mesi il vino non si spumantizzava, veniva
venduto come vino normale.
Per resistere ala pressione le
bottiglie, inizialmente a forma di mela, poi nel ‘700 a forma di pera, dovevano
essere piuttosto robuste; ciò nonostante un terzo della bottiglie si
rompeva. La chiusura della bottiglia,
avveniva con un tappo di legno, avvolto con canapa o tela impregnata di sego
legato con una funicella sigillata con pece o cera.
I forti costi di produzione e
di trasporto rendevano lo champagne particolarmente costoso: una bottiglia era
capace di valere quanto quattro giorni di paga di un operaio.
Il ‘700 per la storia del vino non è il secolo giusto:
l’inverno del 1709 fu terribile in Europa, e in special modo in Francia. A
Parigi la temperatura si mantenne per oltre 10 giorni a -20 °C. Si gelarono le viti e il vino nelle botti
all’interno delle cantine. La penuria fu terribile e i prezzi si impennarono.
Questo provocò alterazioni sui mercati e ripercussioni sociali, a riprova del
ruolo centrale del vino nelle economia di allora.
Accanto al mercato principale, bevande, infusi, pozioni,
elisir a base di vino, già note nell’antichità e poi sviluppate nei conventi,
trovano una ascesa direttamente proporzionale alle malattie, pestilenze,
disordini esistenziali e sociali.
E’ il momento d’oro dei medici erboristi, dei chimici, dei
ciarlatani alla Dulcamara.
Nel 1717 il medico Castore Durante, nel suo Herbario Nuovo,
valuta le proprietà medicamentose della vite selvatica:” la radice bollita e
bevuta in due cucchiai annacquata con acqua marina, purga l’umidità del corpo.
Il succo degli acini abbellisce il viso delle donne, caccia le lentiggini e fa
cadere i peli, giova alla dissenteria e può essere utile come dentifricio”.
Un vero e proprio toccasana, una farmacopea concentrata, cui fin dal 1631 d’altra parte Francesco Poma non aveva esitato ad attribuire virtù anche contro la pestilenza.
Ma si apprestava ad arrivare la seconda parte del secolo, il
‘700 appunto detto poi l’età dei lumi.
La ragione dei filosofi sa essere confusa da sola senza
bisogno dei fumi dell’alcool: fu guerra dichiarata, senza quartiere. Diderot, D’Alembert,
Rousseau, Voltaire, Condillac, insomma tutti i più brillanti spiriti del tempo
diedero addosso ai bevitori, irrazionali per definizione!
Voltaire decretò che il vino è contrario alla lucidità dello
spirito, l’ebrezza è contraria alla salute e dannosa alla Ragione e non ce ne
fu più per nessuno.
Qualcuno ricordando Galeno e Ippocrate tentò il recupero,
rifugiandosi nel vino medicamentoso, ma piombò nella tristezza e nel
dispiacere, proprio le malattie dell’animo umano che gli illuministi volevano
curare con la Ragione.
Erano d’altra parte quelli i tempi in cui si aveva del vino,
da un punto di vista chimico-fisico un’idea molto approssimata: nel 1751, anno di pubblicazione della
Encyclopédie si crede che il vino sia
composto da sale, zolfo, spirito infiammabile, acqua e terra. Dovevano ancora
arrivare Lavoisier e Chaptal per dimostrare che il vino non è altro che carbonio, idrogeno e ossigeno
fermentati.
Il principale romanzo storico italiano di Don Lissander non
parla specificamente del vino, ma degli osti.
Per lo più vengono descritti come gente pratica, scaltra, attenta. La loro morale e il giudizio sugli uomini è descritta con poche parole: i galantuomini sono quelli che bevono il vino senza criticarlo, pagano senza tirare sul prezzo e se devono dar di mano, o peggio, lo fanno fuori dall’osteria.
Manzoni usa gli effetti del vino, quando se ne abusa, in una
scena del 14 capitolo del libro che vede per protagonista Renzo Tramaglino.
Dopo l’assalto ai forni, evento storico cui ha casualmente
assistito, rimanendone coinvolto, Renzo è agganciato
da uno sbirro che lo porta in una osteria. La giornata era stata clamorosa, un
bicchiere tira l’altro, al giovane si scioglie la lingua e arringa agli
astanti, lanciando accuse ai potenti.
Persi gli ultimi barlumi di lucidità, Renzo è pronto a
cadere nella rete dello sbirro che, con uno strattagemma sul nome da mettere
sulla tessera del pane, gli fa confessare il proprio.
Ma l’800 è il secolo della psicoanalisi, una nuova finestra
dalla quale i romanzieri possono guardare nel profondo l’animo umano.
L’inconscio e il vino in che rapporti stanno? In quasi tutte
le culture ambedue aprono la strada a quelle intuizioni e a quello stato dello
spirito che permettono di superare i limiti abituali, attingendo nel profondo
della natura umana. Il vino era stato a lungo un simbolo di prestigio sociale,
uno viatico per ogni simposio in cui la sua “loquacità” permetteva di
affrontare discorsi alati e impegnativi sul mondo e sulla società.
Con l’800 il vino è ricondotto in una dimensione soggettiva,
la ciucca è utile per chiudersi in sé stessi, il diaframma alcoolico è un
estremo tentativo di rifiuto del mondo corrotto, ostile e nello stesso tempo
per sottrarsi alle vertigini della psicoanalisi, alle sue impietose,
imbarazzanti diagnosi.
Il vino non viene, in buona sostanza, visto in se stesso, ma
nel suo rapporto con la persona, per gli effetti che ha sulla psiche e per gli
effetti liberatori delle pulsioni interiori, così acutamente indagate da Freud.
Sono naturalmente i poeti che per primi innalzano il vino (
e più in generale le droghe) a soggetto letterario, dotato di sue proprie
virtù, quasi di un’anima, medium
necessario lungo la stretta e scoscesa strada del rifiuto della realtà
decadente e della ricerca della solitudine.
Senza vino, afferma Baudelaire in opere dai titoli eloquenti, quali Le fleurs du mal, Paradis artificiels, Un
mangeur d’opium, il mondo sarebbe più vuoto, perdendo una delle scoperte
essenziali per l’umanità.
Ma il legame che unisce letteratura e bicchiere è di vecchia
data e supera oceani e continenti.
Qualche anno prima della stesura dei Paradis artificiels moriva agonizzante a soli 39 anni Edgar Allan
Poe, distrutto dagli stenti e dalla sua dipendenza all’alcool: quante delle sue
storie macabre e agghiaccianti sono nate fra i fantasmi dell’alcool? Più che un
vero bevitore, afferma Tommaso Pincio nel suo blog, Poe era un bevitore
compulsivo e che non reggeva l’alcool; pieno di buoni propositi, una volta
accostato alle labbra il primo bicchiere, poi si apriva per lui l’abisso.
Sempre per rimanere oltreoceano, pensate che fino al 1988
cinque su sette premi Nobel per la letteratura americani erano alcolizzati:
Eugene O’Neill, William Faulkner, Ernest Hemingway, Sinclair Lewis. (e il
quinto?)
Per non dire della sbronza di birra a cinque anni di Jack
London, dell’intima familiarità di Truman Capote per la bottiglia, di Scott
Fitzgerald, a lungo compagno di sbronze di Hemingway.
Chi non ricorda la disperazione di Fernanda Pivano, la
scrittrice torinese, grande traduttrice della beat generation, di fronte a Jack
Kerouac eternamente balbettante, traballante sulle gambe, durante un viaggio promozionale
in Italia.
Il romanzo principale di Kerouac Sulla strada, ma soprattutto Big
Sur, sono la descrizione delle discesa agli inferi della dipendenza ad
alcool e droga. Non c’è impaccio, né rimorso per il perenne stato di
allucinazione in cui l’autore vive, anzi, la beat generation teorizza la
necessità per l’artista di stimoli allucinogeni ai fini creativi. Le opere discontinue,
a tratti oscure e degli esiti discutibili, di autori come Kerouac, Bukowski, Ginzburg
(e), a altri dimostrano che autoreferenzialità annacquata da alcool o mescalina
non sono gli ingredienti giusti per fare opere destinate a durare.
Certo, il vizio può prendere chiunque, ma per gli psichiatri
di più gli scrittori perché l’atto di scrivere è solitudine, lavoro tormentoso,
che induce a bere, magari inconsapevolmente. Senza la bottiglia a fianco il
bianco della pagina è terrorizzante. Diventa una questione di ispirazione,
eterna angoscia per molti di loro.
Questa tesi giustificazionista
è smentita da una vera autorità in materia alcoolica, Steve King, scrittore di
successo planetario, secondo il quale non esiste questo principio di
causa-effetto: gli scrittori bevono perché gli piace, non bisogna essere per
forza persone creative e deboli moralmente, basta essere alcolisti. Un
alcoolista sincero, il King.
Dopo la pubblicazione nel 1899 dell’Interpretazione dei sogni e nel 1901 di Psicopatologia della vita quotidiana, diversi sono gli scrittori
che si ispirano alla psicoanalisi, fra tutti Svevo, Joyce, Kafka.
Il nuovo protagonista è un malato, speso un inetto afflitto
da una nuova malattia che affonda nella incapacità di adattarsi alla vita e al
mondo. E’ il vino, che ruolo ha? E’ la chiave per aprire il mondo
dell’inconscio e dell’autoanalisi?
Più spesso è un espediente per esplorare una dimensione
psichica di maggiore libertà che permette lo snodo narrativo e la catarsi;
altre volte è un elemento di sottofondo, una specie di greve sentore che
permane tra le righe.
Voglio fare, tra i tanti, tre esempi: La coscienza di Zeno, Sotto il vulcano e La leggenda del santo Bevitore.
Il protagonista del romanzo di Svevo è un represso che solo
per effetto del vino riesce a esprimersi, rivelandosi a se stesso come in una
metamorfosi. Ma le idee sono le stesse, i suoi ragionamenti restano invariati,
solo ora si esprime senza paure o inibizioni: “quando ho bevuto troppo, io
analizzo i miei conati come quando sono sereno e probabilmente con lo stesso
risultato.”
In queste pagine di Svevo Il vino è un elemento allegorico
(la metafora del sangue del protagonista), un effetto momentaneo non una
medicina che guarisce, ma che, come una prova, costruisce l’evidenza esteriore di una psiche malata dalla incapacità di
vivere.
Il romanzo di Malcolm Lowry è del 1947, dieci anni prima della sua morte.
Sul risvolto dell’edizione italiana di Feltrinelli, si
legge: “in apparenza, è un romanzo sul Messico, la pietosa epopea di un
alcolizzato che si dibatte contro i fantasmi della sua mente…o magari è un
romanzo d’amore… Certi lo considerano un romanzo sulla gelosia.. altri una allegoria
sulla Redenzione…. Lowry autorizza ogni interpretazione, dice di essersi
ispirato alla Anime morte per arrivare
a questo curioso risultato: una Divina Commedia ubbriaca”. Una eccellente
definizione.
Sono parecchi i punti del romanzo dove c’è il vino, lo si
acquista, lo si beve in solitudine o in compagnia, è un forte richiamo dal
fondo di oscure cantine polverose; ma è
l’intero romanzo a rispecchiare la visione alterata del mondo che solo uno
sguardo alticcio può dare.
Non c’è episodio o personaggio che sfugga a questa
inevitabile regola, che non appaia descritto come visto attraverso le lenti
deformate dell’alcool, le sue ebbrezze traballanti, le sue sghembe illusioni
ottiche, che diventano illusioni sentimentali, speranze frustrate, paure e angosce.
Il romanzo autobiografico di Joseph Roth è del 1939, il
primo di anni tragici per l’Europa, l’inizio del finis Austriae. Tradotto in un bello e delicato film di successo da
Olmi nel 1988. Del romanzo preferisco parlare nella sezione Ciac, si gira! dedicata al vino nel
cinema. Per i curiosi segnalo che non è il solo romanzo di Roth intriso di
alcool, perché una bella dose la potete trovare anche il La marcia di Radetzky.
Fra gli altri romanzi significativi di questa breve
carrellata fra letteratura e bevute vale la pena ricordarne per cenni alcuni,
che magari potete cercare fra gli scaffali.
Il fondo della
bottiglia, di George Simenon, prolifico scrittore francese, noto come
creatore del commissario Maigret, ma anche per non lesinare in forti bevute ( l’ultima
moglie è alcoolizzata), è un libro in cui l’alcool è il protagonista
sotterraneo. L’inchiesta si snoda in modo sordido, fra cadaveri sotterrati e
aborti clandestini. L’alcool è sempre sullo sfondo, costante assillo per i suoi
temuti effetti, tanto per l’indagato, quanto per il commissario, che è nervoso,
si preoccupa dell’alito, si oppone e vince a fatica al forte richiamo di un
bistrot. L’indagato, che è un medico, è la sua cattiva coscienza: “il vino, la
birra, l’alcool, ne ha diminuita la quantità?” gli domanda, e Maigret
risponde:” ho raggiunto un risultato: vergognarmi quando ho in mano un
bicchiere di birra o cavados. Quando sono in mezzo a due inchieste rimango dei
giorni a non prendere che un po’ di vino a tavola”.
Il libro Il potere e
la gloria, forse il migliore fra quelli scritti da Graham Greene, il
preferito dal presidente Obama, messo a lungo all’indice dal Sant’Uffizio, si
svolge ancora una volta in Messico, dietro le orme di un prete alcolizzato e in
fuga, dopo aver copulato con una donna e averla messa incinta.
Un altro libro bello quanto sconosciuto è Maria Zof di Paola Drigo, scrittrice
veneta, siamo nel 1937 la storia, delicata e feroce, è ambientata in Carnia,
terra aspra di confine e di guerre. Un romanzo in cui un’ adolescente, che
sboccia all’amore, viene deturpata dalla miseria e dall’abiezione umana di un
padre-padrone incestuoso e in cui la grappa pare ancora una volta essere, oltre
che l’illusoria consolazione al dolore, una ancestrale giustificazione morale.
In Appuntamento a
Samarra, di John O’ Hara, l’appuntamento col destino avviene in fondo nella
maniera più loffia, per una serie progressiva di gaffe, piuttosto che con un
grande gesto tragico. Lo sfondo è la provincia americana, una città in cui
tutti si conoscono e il gesto di tanti ubriachi, come gettare il whiskj in
faccia a un amico, può aprire la porta della perdizione. Il protagonista si
avvita su se stesso e i suoi eccessi, più che dissolutezza di costumi o
anticonformismo estremo, sembrano servire solamente a ottundere la percezione
del punto in cui la trappola scatta e il destino si realizza. Un grande
affresco sui luoghi comuni di una America gretta di buone famiglie
intolleranti, una parabola etilica ancora fortemente imparentata con il
proibizionismo, quella con la bottiglia avvolta pudicamente in un sacchetto di
carta.
L’alcool in questi romanzi non sembra in fondo avere nulla
di liberatorio, quasi che l’eccesso o l’abuso di per se stessi abbiano il
potere di annullare e interrompere quella disposizione all’amore e al bello che
Ovidio declamava.
Sarebbe difficile per questi autori, come per la maggioranza
degli scrittori e intellettuali, inneggiare all’alcool con questi poveri
distici: “Empi il bicchier che è vuoto,/vuota il bicchier che è pieno,/non lo
lasciar mai vuoto,/non lo lasciar mai pieno. Cantilena popolare, che quasi
scolpisce il gesto e il lento fluire del liquido dal bicchiere alla gola,
serena e ribalda, come nella canzone Passa
la ronda i versi: “passa la ronda dei veri alpini: e la risponde “fiaschi
de vin”! Che la parola d’ordine per attraversare i camminamenti dei soldati sia
anche quella per attraversare la vita? Sembrano crederlo molti dei nostri poeti
di guerra, che in particolare con la grappa ebbero stretta familiarità, da
Ungaretti, a Pietro Jahier, a Robert Skorpel, a Clemente Rebora, a Ugo Betti.
Ma più della poesia, dimostrare il legame indissolubile fra
l’uomo e l’alcool, questo appunto dell’alpino Ugo Martegani: “la grappa poi è
come il mulo. Non vanta antenati, non ha speranza di posteri. Ti scorre dentro
a zig-zag come va i mulo in montagna. Puoi aggrapparti a lei se sei stanco,
fartene scudo se ti sparano, dormirci sotto se c’è troppo sole. Puoi parlarle
che ti risponde, piangere ed essere consolato e, se proprio hai deciso di
morire, ti sorride” .
Il sorriso della grappa chi mai l’ha visto? E’ come quello
misterioso e ineffabile di Monna Lisa? Fatto di quella stessa materia del sogno
destinato a svanire sugli spalti di Elsinor? Oppure è l’ardente preannuncio
della gioia che sarà e per sempre?
Questa dimensione esistenziale del vino e dell’alcool in
generale, che così si intreccia con la quotidianità dandole sapore e peso, è
una costante, come scrive Marco de Cesaris nel suo ..E giacque nudo. Il vino e la vita dell’uomo, appena edito per i
tipi Laurium.
Ne troviamo espressione poetica, che è anche rimpianto esistenziale, in Cesare Pavese, nella poesia Grappa a settembre. Poche immagini che si intrecciano fra loro, scambiandosi misteriosamente qualità e attribuzioni: la nebbia mattutina, le strade, la grappa, l’odore del tabacco e le donne,. “Tutto si ferma e matura, al mattino si vedono solo donne che ricevono il sole come fossero frutta. Le strade sono come le donne, maturano ferme”. Poi c’è l’odore del tabacco e c’è la grappa, un nuovo sapore: “è così che le donne non saranno le sole a godere il mattino”.
QUI SI NARRA L’AVVENTURA DEL SIGNORE DELLE LANGHE, INGEGNERE SVIZZERINO E ROMANO D’ADOZIONE, PER L’AFFILATA E VELENOSA PENNA DI GIANCARLO PERNA
La vita avventurosa di Carlo De Benedetti si
è arricchita di un nuovo episodio, tipico del personaggio. Sotto Natale, la
magistratura ha incriminato il commercialista dell’ Ingegnere per un
investimento a suo nome nelle Banche popolari. Il fatto risale a 4 anni fa, con
Matteo Renzi a Palazzo Chigi.
L’ Ingegnere, che di Matteo potrebbe essere
nonno, aveva preso a benvolere l’ allora promettente fiorentino. Gli faceva da
consulente economico e si vedevano di continuo. Per caso, diciamo così, seppe
dal nipotino che la riforma delle banche popolari era in dirittura d’ arrivo.
Ebbe la notizia il 16 gennaio 2015. Il 20 fu emanato il decreto.
Nelle more, si precipitò al telefono e ordinò
al trader: «Compri azioni delle popolari per 5 milioni di euro», confidandogli
che la dritta era del premier. Varata la riforma, i titoli si impennarono e l’
Ingegnere guadagnò, pare, 600.000 euro. Poiché aveva l’ aria di un insider
trading – il guadagno di chi profitta di informazioni privilegiate – la
magistratura s’ insospettì.
BInterrogati, i due fecero il gatto e la volpe. Renzi negò di avere dato indicazioni, De Bendetti di averne ricevute. Così, il rinvio a giudizio è toccato al povero commercialista per non avere denunciato l’ operazione alla Consob, pur sapendola «sospetta». Ora, è lui nelle peste. Domani, chissà. Nella vicenda, c’ è molto dell’ ottantaquattrenne De Benedetti. Il fiuto negli affari, l’ uso della politica, il gusto dell’ azzardo, l’ anguillismo giudiziario.
TRA LANGHE E SVIZZERA
Da mezzo secolo, l’ Ingegnere – detto così
per la laurea al Politecnico di Torino, sua città natale – è protagonista della
società italiana. Anche se è un po’ svizzero. Nella Confederazione sfollò con
la famiglia durante la guerra per sfuggire all’ ondata antiebraica. Si trasferì
di nuovo negli anni Sessanta, avendo tre ragazzi, Rodolfo, Marco, Edoardo, che
erano un’ esca ghiotta per i sequestratori che allora imperversavano da noi.
In seguito, ha fatto la spola tra le Langhe,
dove ha un villone, e Sankt Moritz dove ne ha un altro. Attualmente, ha doppio
passaporto. De Benedetti ha costruito un impero miscellaneo. Ha un’ holding, la
Cir, che contiene tante matrioske, nei più svariati ambiti: energia (Sorgenia),
giornali (Gedi), componenti auto (Sogefi), sanità (Kos), finanza.
All’ ingrosso, 13.000 dipendenti. Ma tutto è
ballerino nel mondo di De Benedetti. Negli anni, è entrato e uscito dalle
aziende, ha comprato e venduto, riempito, svuotato, trasformato, assunto e
licenziato in una specie di inesauribile fregolismo finanziario. L’ Ing. non ha
fatto fabbriche ma affari. La sua vocazione non è industriale ma finanziaria.
Lo scopo non è il prodotto ma i soldi.
LO CHIAMAVANO IL TIGRE
Tra gli emblemi del capitalismo italico,
Gianni Agnelli, ricco di famiglia, e Silvio Berlusconi, l’ uomo che si è fatto
da sé, De Benedetti rappresenta l’ irrequieto capitano di ventura. Un giorno
nella polvere, l’ altro sull’ altare. Dal padre, Rodolfo, ereditò una
fabbrichetta di tubi flessibili con 80 operai nella quale già lavorava il
fratello maggiore, Franco, poi senatore del Pds. I due sono sempre andati d’
amore e d’ accordo ma essendo Carlo preponderante, Franco fu detto «il resto
del Carlino».
Carlo, invece, fu detto il «Tigre». Nel 1972,
acquistò una società immobiliare, quotata in borsa, la Gilardini. La svuotò e
ne fece un’ azienda metalmeccanica. Gli Agnelli, poiché il lavoro era affine,
spiarono le mosse di De Benedetti e videro che ci sapeva fare. Le due famiglie
si conoscevano da una vita. A Torino abitavano nello stesso palazzo, poi furono
vicini nelle ville in collina, in più Carlo era stato al ginnasio con Umberto
Agnelli.
Fu così che nel 1976, Umberto offrì al
compagno di classe di fare l’ ad in Fiat. Carlo accettò, conferendo la
Gilardini in cambio di azioni. Restò però solo 100 giorni, perché si sentiva a
disagio. Gli Agnelli, diffidandone, l’ avevano infatti isolato. Il Tigre fece
solo in tempo a silurare Gianmarco Rossignolo, capo della componentistica,
liquidando come «aria fritta» le sue teorie. Si fece fama di arrogante.
L’ INTUIZIONE DELLA PANDA
A suo merito, invece, la rottamazione delle
126 e 127, utilitarie obsolete, in cambio di una novità. Andò dal designer
Giorgetto Giugiaro e gli disse: «Voglio una vettura-jeans». Giugiaro buttò giù
uno schizzo e nacque la Panda. Un altro mordi e fuggi fu nel 1981 l’ avventura
del Banco Ambrosiano.
Era una banca cattolica in cattive acque
guidata da Roberto Calvi, che l’ anno dopo finirà impiccato su un’ arcata del
Ponte dei Frati neri a Londra. De Benedetti, non si è mai capito perché, ci
entrò come vicepresidente portando in dote 52 miliardi di lire. Ne uscì 60
giorni dopo, forse avendo visto troppo, con tutti i suoi soldi, più una regalia
di 2,5 miliardi.
Di lì a poco, la banca fallì. La capatina fu
giudicata sospetta e, anni dopo, l’ Ing riportò 2 condanne per bancarotta
fraudolenta. In primo grado e in Appello. La Cassazione però lo assolse per un
vizio procedurale.
Com’ è, come non è, nei primi anni Ottanta
troviamo De Benedetti alla testa della leggendaria Olivetti di Ivrea. Era il
gioiello dell’ elettronica italiana in lenta decadenza. Il Nostro la rassettò.
Poiché la branca Usa dell’ azienda zoppicava, licenziò la responsabile Marisa
Bellisario (dopo la morte, divenne simbolo dell’ imprenditoria femminile)
dicendole: «Lei è un’ oca».
LA CRISI DELL’ OLIVETTI
Nei lustri successivi, il Tigre fece strame.
Negli anni ’90, perse l’ aggancio con lo sviluppo tumultuoso dei computer e l’
Olivetti uscì dal mercato. Licenziò migliaia di maestranze e fu ribattezzato De
Maledetti. Tutto l’ indotto del Canavese retrocesse di mezzo secolo. Per fare
cassa, De Benedetti rifilò alle Poste paccottiglie per 600 miliardi –
telescriventi vetuste, software megalitici, ecc. -, dando mazzette a un alto
funzionario.
Nel processo per corruzione, se la cavò per
il rotto della cuffia con la prescrizione. Fu anche arrestato ma rilasciato
dopo 13 ore. Il giudice che lo liberò, Augusta Iannini (moglie di Bruno Vespa)
si dichiarò anni dopo pentita di averlo fatto così in fretta. Gli è andata però
male con una condanna a 3 mesi, l’ unica passata in giudicato anche se poi
convertita in pena pecuniaria, per falso in bilancio sempre ai tempi dell’
Olivetti. Buone e meno buone, le avventure del Tigre sono infinite. Lo spazio
però è tiranno. Mi limiterò perciò a dire chi ha protetto il Nostro nelle sue
spericolatezze.
Politicamente, l’ Ing è stato un
repubblicano, vicino al ministro Bruno Visentini. Ricevette anche molti favori
dal dc Romano Prodi. Ha ampiamente bazzicato i comunisti, da Enrico Berlinguer
a Massimo D’ Alema. Tenne a battesimo il Pd di Walter Veltroni, vantandosi per
anni di esserne la tessera n.1. Ma la sua assicurazione sulla vita fu
Repubblica.
Eugenio Scalfari, il fondatore, s’ innamorò di lui. Lo chiamava con affetto, «cavalier solo». Gli tenne bordone in tutte le operazioni che ho descritte e in molte altre. Ecco uno scampolo delle sue carinerie: «Capacità di lavoro eccezionale, intuito per gli affari molto superiore alla media. È intelligente e ingenuo, furbissimo e candido, estroverso e solitario, coraggioso e bisognoso di affetto quant’ altri mai». A furia di sviolinate, lo indusse nel 1989 a comprare L’ Espresso e La Repubblica. Scalfari si beccò 90 miliardi sull’ unghia. Il socio, Carlo Caracciolo, 300. Così, De Benedetti s’ impossessò un’ altra volta di una cosa fatta da altri, fedele al principio di non crearne nessuna.