LUCA RICOLFI LA METTE GIU’ DURA: STIAMO BENE PERCHE’ I DANE’ SONO DEI NONNI O DEI PADRI E UN ESERCITO DI SEMI SCHIAVI E’ AL NOSTRO SERVIZIO, DAI BRACCIANTI IN NERO, AI PRECARI, ALLE BADANTI SENZA PERMESSO DI SOGGIORNO, AGLI STAGIONALI…… MA NON DURA, NON PUO’ DURARE.
Il sociologo non dà semplici opinioni, cita dati e cifre, incontrovertibili. La classe media oggi: famiglie più ricche, figli need, cioè bisognosi del superfluo e senza progetto alcuno in testa. Sullo sfondo lo sfascio della scuola. Ma soprattutto il crescente divario fra chi ha tutto e chi non ha niente. Non si può generalizzare, ne’ essere pessimisti, ma riflettere sull’analisi di Ricolfi è necessario per capire dove stiamo andando.
Come si concilia la fine della crescita economica con l’ affermarsi di un consumo opulento di massa? Come possono stare insieme due fenomenologie apparentemente opposte come quella dei Neet e dei ristoranti pieni? Alle domande che in diverse occasioni ci siamo posti un po’ tutti arriva oggi una risposta secca del sociologo torinese Luca Ricolfi: «L’ Italia è un tipo unico di configurazione sociale. È una “società signorile di massa”, il prodotto dell’ innesto di elementi feudali nel corpo principale che pure resta capitalistico».
La vis polemica di Ricolfi è conosciuta e apprezzata da tempo ma nel suo ultimo lavoro, La società signorile di massa (La nave di Teseo) il sociologo torinese si è dato un obiettivo più ambizioso: una rilettura delle basi sia antropologiche sia materiali di una società dove il numero di cittadini che non lavorano ha superato ampiamente il numero di quelli che lavorano, l’accesso ai consumi opulenti ha raggiunto una larga parte della popolazione e la produttività è ferma da 20 anni. Nella definizione che fa da titolo all’ intero lavoro Ricolfi riconosce un debito culturale nei confronti del suo antico maestro Claudio Napoleoni.
Ad alimentare i consumi sono per prime le rendite, la fonte su cui da sempre nobili, proprietari e classe agiata hanno poggiato le loro vite. Siamo diventati signori senza essere stati capitalisti. È tra gli anni Ottanta e i primi anni Duemila che la ricostruzione di Ricolfi colloca i passaggi-chiave verso una società opulenta, che poi descrive così: «Non l’auto ma la seconda auto con gli optional. Non la casa, ma la seconda casa al mare o in montagna. Non la bici ma le costose attrezzature da sub o da sci.
Non le solite vacanze d’agosto dai parenti ma weekend lunghi e ripetuti. E ancora: i corsi di judo, l’apericena, i mega schermi piatti. Un consumo che eccede i bisogni essenziali, supera il triplo del livello di sussistenza». Come testimoniano anche i 107 miliardi di spesa per il gioco d’ azzardo, il 65% di vacanze lunghe, un’ auto e mezza per famiglia, le ripetizioni a manetta per i figli, il 36% iscritto a palestre e centri fitness e la cifra-monstre di 8 milioni di consumatori di sostanze illegali.
Questa società signorile, che consuma più di quanto produca, a Ricolfi appare indubitabilmente malata e si regge su tre pilastri. La ricchezza reale e finanziaria accumulata dai nonni, la distruzione della scuola e, infine, la formazione di un’infrastruttura schiavistica, un esercito di paria al servizio dei Signori.
Nel 1951 la ricchezza media della famiglia italiana era di circa 100 mila euro, negli anni ’90 era salita a 350 mila – grazie al debito pubblico e alle bolle speculative immobiliari – e oggi viaggia su quota 400. «La ricchezza è cresciuta più del reddito» annota Ricolfi. Che riserva parole durissime allo stato di (cattiva) salute della scuola.
È stata l’istruzione senza qualità a generare il fenomeno della disoccupazione volontaria che il sociologo riassume simbolicamente nella storia di un pizzaiolo piemontese tra i migliori d’ Italia che in otto mesi non è riuscito a coprire un posto da cameriere nel suo locale. «I titoli di studio rilasciati dalla scuola e dall’università sono eccessivi rispetto alle capacità effettivamente trasmesse – rincara Ricolfi – La scolarizzazione di massa ha moltiplicato il numero di aspiranti a posizioni sociali medio-alte ma il numero di tali posizioni resta invariato».
I giovani però possono permettersi di rifiutare offerte di lavoro che giudicano inadeguate perché nonni e padri hanno accumulato una quantità di ricchezza senza precedenti. Infine il lato oscuro della società signorile: la «struttura paraschiavistica», quella parte della popolazione residente, per lo più straniera, collocata in ruoli servili a beneficio dei cittadini italiani. Chi sono i paria di Ricolfi? Lavoratori stagionali spesso africani, prostitute, colf, dipendenti in nero, facchini della logistica, muratori dell’Est.
Un esercito di 2,7 milioni di persone che genera surplus e eroga servizi a famiglie e imprese e «senza i quali la comunità dei cittadini italiani non potrebbe consumare come fa». Ma l’Italia dei Troppi Signori e dei Tanti Paraschiavi ha un futuro? La sentenza di Ricolfi non lascia adito a dubbi: «Il nostro stupefacente equilibrio è destinato a rompersi, la stagnazione diverrà declino. La società signorile è un prodotto a termine».
AL FESTIVAL DI ROMA L’ULTIMA FATICA CINEMATOGRAFICA DI MARTIN SCORSESE ALL’ALTEZZA DELLA SUA FAMA E CON UN CAST STELLARE- UNA SINTESI MIRABILE DELL’ AMBIENTE MAFIOSO NELLA SECONDA META’ DEL SECOLO SCORSO IN USA, FRA AFFARI E POLITICA- A CHI SONO PIACIUTI QUEI BRAVI RAGAZZI E C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA NON SE LO LASCI SFUGGIRE- SOLO IL 4, 5 e 6 NOVEMBRE NELLE SALE, POI NEXFLIX.
“E così è…” dice a un certo punto il boss
Russ Bufalino, cioè Joe Pesci, al suo killer di fiducia, Frank Sheeran detto
“Irishman”, cioè Robert De Niro. La stessa frase la possiamo dire anche noi
alla fine di questo lunghissimo nuovo film di Martin Scorsese, The Irishman,
l’unico che davvero aspettavamo di vedere alla Festa di Roma. “E così
è…”. Non so se è davvero un capolavoro come scrivono i critici inglesi e
americani, ma certo è un piacere per lo spettatore più vecchio vedere queste
oltre tre ore di puro cinema di Martin Scorsese, con una sceneggiatura perfetta
di Steven Zaillan, il montaggio della mitica Thelma Schoonmaker, la musica di
Robbie Robertson e un cast stellare: Robert De Niro, Joe Pesci e Al Pacino, …
Ma ci sono anche Harvey Keitel, Stephen Graham, Bobby Cannavale e vecchi amici
come Ray Romano, Dominick Lombardazzo.
Non sarà all’altezza dei suoi grandi titoli,
ma certo il livello di scrittura e recitazione è altissimo. Basterebbero tre o
quattro scene apparentemente insignificanti, come una discussione tra il Jimmy
Hoffa di Al Pacino e il Provenzano di Stephen Graham su quanti minuti si può
aspettare a un appuntamento prima di incazzarsi, dieci o quindici?, o un’altra
in auto su come si tiene il pesce in macchina per non farlo puzzare, e già
siamo nella leggenda. Stiamo vedendo un film di Scorsese, no? Ora. E’ vero che
i tre protagonisti sono tutti anziani e poco agili, e quando devono fare i
giovani l’effetto di re-aging digitale ci lascia un po’ interdetti e non può
certo nascondere i movimenti lenti di De Niro e soci.
Ma ci bastano gli sguardi di De Niro quando
cerca di mediare tra i suoi boss per non far esplodere l’inferno per scordarci
di questi effetti digitali inutili. E più che nostalgia per il cinema mi sembra
che ci sia una sorta di addio a quel grande cinema di gangster che Scorsese, de
Niro, Pacino e Pesci ci hanno regalato.
In fondo, quasi tutto il film è un po’
costruito sul rimanere a raccontare una storia di gangster, cioè a fare cinema
o a ricordare di quando si faceva il cinema, quando non c’è più nessuno di chi
lo ha veramente vissuto a sentirti, a discuterne. Inoltre Frank, l’Irlandese, è
una tomba. Non parlerà. E allora che senso ha?, gli chiedono due giovani
poliziotti. Amici e nemici sono tutti morti. Ma Frank ha una parola sola. Se
non la rispettasse tutta la sua vita non avrebbe più alcun senso. Per tutto il
film lo abbiamo visto “pitturare le case/paint houses”, cioè colorarle di
sangue delle sue esecuzioni, ubbidire agli ordini dei boss della mafia di
Philadelphia, e cercare di rimanere fedele a un suo codice morale.
Che verrà messo a dura prova quando si
troverà diviso tra l’ubbidienza al suo boss, Russ Bufalino-Joe Pesci, e
all’amicizia che lo lega a Jimmy Hoffa, cioè Al Pacino. Tratto dal romanzo del
2003 di Charles Brandt, “I heard you paint houses”, The Irishman è un grande
affresco, tra Good Fellas e C’era una volta in America, della malavita
americana tra gli anni ’50 e gli anni ’70. Una malavita così potente che può
fare eleggere presidenti, i voti della mafia andarono a John Kennedy, è la tesi
del film, in cambio dell’aiuto a riprendersi Cuba e i suoi locali, magari anche
ucciderli, controllare i sindacati, come quello dei Teamers, il potente
sindacato dei camionisti comandato da Jimmy Hoffa.
Scorsese spazia nel tempo andando
continuamente avanti e indietro. Un lungo piano sequenza ci porta dentro un
ospizio dove si trova un vecchissimo e malato Frank Sheeran. E’ Frank che
ricorda un viaggio in auto da Philadelfia a Detroit assieme al suo boss, Russ,
e alle loro mogli. Un viaggio che non è solo di piacere, devono andare a un
matrimonio, ma nasconde dei lavori da portare a termine. Ma anche un viaggio
che ci riporta indietro nel tempo, in altri anni e chiarisce, allo spettatore,
la strada verso il crimine di Frank, già eroe di guerra in Italia, poi camionista,
poi killer professionista. Frank non ha mai un cedimento, mentre la sua
famiglia, soprattutto la figlia Polly, incomincia a vederlo con terrore.
L’incontro con Hoffa, Frank è l’uomo che la
mafia gli mette come protezione, sembra aprirlo a una vera amicizia, ma Hoffa
non si piegherà a tutti gli ordini degli amici degli amici. Inutile dire quanto
siano ancora meravigliosi De Niro, Pacino e Pesci, quanto Scorsese ancora si
diverta a costruire sequenze di grande tensione con continue invenzioni di
messa in scena. Non è più il tempo di Good Fellas, non ci piacciono gli effetti
digitali, può anche non piacerci Netflix e la sua politica cinematografica,
potete trovare invecchiato De Niro, ma l’unica cosa che si può dire di questa
meraviglia è solo “E così è…”. In sala in Italia per soli tre giorni, 4,
5 e 6 novembre e poi su Netflix dal 27 novembre.
COME NELLA REALTA’ , VITA E FINZIONE STANNO INSIEME, COSI’ LE INQUADRATURE DEI REGISTI E IL SET DEGLI SCENOGRAFI ESALTANO LE POSSIBILITA’ SIMBOLICHE DELLE LOCATION
Robert Mallet-Stevens, rinomato scenografo e set designer, nel 1925, prevedeva la costretta e indispensabile collaborazione tra regia e architettura, d’altro canto «si può sperare in uno sfondo migliore per le immagini in movimento … per mettere in risalto la vita?»
Lo spazio urbano e le città hanno influenzato profondamente l’arte del Novecento, in particolare il cinema, il quale albeggia, rosso e splendente, come fenomeno tipicamente cittadino. Un insegnamento di cui i registi italiani contemporanei hanno fatto tesoro, sfruttando al meglio le possibilità scenografiche dell’arte del costruire.
In una società conformista, l’arte fa, quindi, la sua comparsa come grande eccezione: la fruizione distratta dell’architettura propria del comune cittadino non è quella delle pupille, sempre vigili, del regista, che coglie nell’oggetto architettonico una possibilità simbolica, uno scrigno in cui conservare i suoi gioielli.
Lo ha ricordato, in tempi recenti, Paolo Sorrentino, trionfatore al Dolby Theatre, in quella notte dorata del 2 marzo 2014. La grande bellezza, tanto odiata dagli Italiani quanto amata dagli Americani, si posiziona, in punta di piedi, con baricentro ben piantato, meglio di quanto qualsiasi equilibrista possa fare, tra l’immortale e silenziosa bellezza architettonica dell’eterna Roma e la stupefacente e chiassosa grammatica cinematografica sorrentiniana.
Il protagonista è Jep Gambardella, magistralmente interpretato da Toni Servillo, un giornalista con un passato da scrittore, che arrivato a Roma si lascia travolgere dalla vita mondana. E mentre a ritmo di Raffaella Carrà la vita scorre e la storia si compie, Roma, ossimoro e sintesi di rumore e silenzio, è specchio distorto dei personaggi, i quali vivono di visi di cera che il tempo non può consumare.
Una perfetta sintesi anche di colore, luce e movimento, basti pensare alla bianca tunica delle suore che scendono le scale, passando proprio davanti a un rincuorante Jep Gambardella, di nero vestito.
Un eterno ritorno alla bellezza silenziosa di una città immortale che bene prende le distanze dalla mortalità della bellezza umana, che con il tempo, veloce fugge via.
Lo stupore che vorrebbero suscitare le inquadrature sorrentiniane, come gli stucchi della Roma barocca, è tale che Luca Guadagnino, nonostante il suo talento, è rimasto a lungo sconosciuto al grande pubblico. Eppure, sebbene Io sono l’amore, film degno di nota girato all’interno di una delle ville più belle della modernissima Milano, sia rimasto un film di nicchia, stesso destino non è stato riservato a Chiamami col tuo nome.
Da subito successo di botteghino, Chiamami col tuo nome, forse per aver colto il momento propizio d’uscita data la tematica trattata, forse per un cast tanto giovane quanto lucente, è apparso in tanti festival internazionali, fino ad arrivare anch’esso all’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale nel 2018.
Chiamami col tuo nome racconta la storia di Elio Perlman, diciassettenne ebreo italoamericano, che trascorrendo le vacanze estive nella campagna del nord Italia con i suoi genitori incontra Oliver, ventiquattrenne ebreo americano di bell’aspetto, intelligente e spigliato.
Se a colpire è certamente l’originalità con cui Guadagnino tratta la tematica omosessuale, ricevendo l’approvazione del grande pubblico nonostante il tema caldo e sempre sul filo del rasoio, l’attenzione che egli riserva al dettaglio scenografico e fotografico rimane una firma indelebile del suo cinema, che non viene meno neanche qui.
Ancora una volta gli occhi dei registi italiani ci servono per vedere meglio le belle forme dell’Italia: già Villa Necchi Campiglio, poco dopo l’uscita del film Io sono l’amore, grazie al contributo del FAI, è stata riaperta al pubblico, così anche la villa disabitata a Moscazzano, protagonista assoluta di Chiamami col tuo nome, è diventata in seguito uno dei luoghi più visitati del nord Italia. Casi da manuale di cineturismo.
Villa Vimercati Griffoni Albergoni, protagonista del film premio oscar, è una villa nobiliare del ’500 della famiglia Vimercati, a sud di Rovereto a Moscazzano, nata inizialmente come fortezza. Luca Guadagnino e Violante Visconti, pronipote di Luchino Visconti, hanno arredato le stanze vuote della villa con mobili di antiquariato e tessuti Dedar, conferendole un’atmosfera di vissuto. Inoltre nel giardino hanno piantato alberi di pesche e albicocche, rilevanti durante più scene del film e simbolo dell’amore dei protagonisti. Pensiamo alle inquadrature degli alberi da frutto, ma anche e sopratutto all’evoluzione della pesca, che durante il film matura insieme all’amore che prova Elio per Oliver, fino ad arrivare alla sequenza della masturbazione mediante il frutto stesso.
La casa è ora in vendita e la notizia ha fatto scalpore: d’altronde chi non vorrebbe dal proprio padre un discorso simile a quello che il padre di Elio riserva e regala al figlio? Chi non sogna la bellezza spensierata di quell’estate, tra bicicletta e bagni in piscina, circondato dalle campagne sorridenti del nord Italia?
Nonostante un riscontro di pubblico certamente meno enfatico, non è da meno Io sono l’amore. Se la Roma di Sorrentino è eterna bella e decadente, discreta elegante e impeccabile è la Milano di Guadagnigno: dalla stazione centrale ricoperta di neve, passando per gli imponenti palazzi di Porta Venezia, immortalati nel loro perfetto equilibrio, fino ad arrivare alla sbigottente bellezza della Villa Necchi Campiglio.
Luca Guadagnino fa davvero dell’arte del costruire il colore più bello della sua tavolozza. Villa Necchi Campiglio, progettata da Piero Portaluppi, noto architetto milanese, è stata scelta per raccontare le vicende della famiglia Recchi, appartenente all’alta borghesia industriale lombarda.
Per quanto sembrerebbe la destinazione perfetta di un viaggio tormentato e difficile, la scelta della location è stata del tutto casuale: ciò che il regista cercava era «un ambiente molto rigoroso, neutro all’esterno e ricco all’interno, severo ma allo stesso tempo dorato e caldo», come esplicitato dal regista stesso in un’intervista per il «Corriere della sera».
Villa Necchi Campiglio, dimora storica costruita agli inizi del ’900, pomposa ed elegante, risulta fin da subito la soluzione perfetta per essere contrapposta alla semplicità e alla verginità della natura e dei luoghi dove vive Antonio. Sanremo, Dolceacqua e Castel Vittorio diventano, allora, la via di fuga per Emma, bene interpreta da Tilda Swinton, da una vita fredda e spoglia di ogni sentimento.
In questa carrellata, da perfetti location manager, alla scoperta delle architetture da film non si può dimenticare Paolo Virzì, che bene ha colto l’importanza di ciò che fa da sfondo alla purezza formale ed estetica dei progetti filmici. Non è un caso che i cantieri firmati Virzì sono quasi sempre in Toscana, regione-palcoscenico di una commedia umana che ha un sapore familiare. Forse perché è quella casa che Virzì stesso ha abbandonato in favore della capitale dove ora vive.
Pensiamo a La pazza gioia, punto fermo della maturità del regista, che nel 2017 ha conquistato il David di Donatello, mettendo la sua firma su miglior regia, miglior film e migliore attrice protagonista. Sicuramente la prova attoriale di Micaela Ramazzotti e di Valeria Bruni Tedeschi ha semplificato il compito al regista, che ha portato nelle sale uno dei film italiani più belli di quell’anno.
La pazza gioia racconta l’amicizia tra Beatrice e Donatella, due donne ricoverate in una clinica psichiatrica che insieme decidono di fuggire e iniziare un’avventura destinata a cambiare le loro vite per sempre. Una fuga girata in luoghi che il regista conosce bene e ama, che hanno formato e plasmato il suo cinema quasi fossero il blocco di marmo che l’artista deve scavare e modellare per creare arte.
Nel 2015 il regista e sua moglie Michaela Ramazzotti si recano a Viareggio per un sopralluogo durante il Carnevale, dove si trovano casualmente a girare una delle sequenze più belle ed emozionanti del film, affidandosi, come solo l’impronta neorealista italiana avrebbe saputo fare, a comparse locali.
Viareggio, in quanto «gioia e divertimento durante l’estate ma anche profonda depressione e malinconia che dà il mare nel periodo di autunno ed inverno», nelle parole del regista, si fa punto focale di una storia intensa e commovente, che senza mezze misure arriva dritta al cuore, facendoci divertire e sorridere un minuto prima, piangere e innervosirci il minuto dopo.
A rubare l’attenzione di chi guarda La pazza gioia, quindi, oltre alla simpatia struggente delle due protagoniste, sono certamente le location in cui viene girato il film. Villa Biondi, comunità terapeutica per donne con disturbi mentali, affascinante e solare, è in realtà una tenuta agricola abbandonata fuori Pistoia, circondata da vivai.
La villa dove risiedono i genitori di Beatrice e dove le protagoniste si incontrano per la prima volta prende il nome di Villa Mansi di Segromigno in Monte. Costruita nel ’600, apparteneva al marchese Raffaello Mansi, famosa per la sua elegante architettura e per il fascino dei suoi giardini. Ad ornare il sorridente aspetto della villa numerosi affreschi, che proprio in favore del film furono restaurati.
Insomma Villa Biondi era il posto ideale per sfuggire alla crudeltà svilente del mondo che ci circonda: una tenuta troppo bella per essere reale, «un po’ vera e un po’ sognata».
Il regista è riuscito a disegnare con le immagini una mappa della Toscana, dove Beatrice e Donatella, donne fragili e forti allo stesso tempo, fuggono alla ricerca di se stesse, viaggio che Paolo Virzì stesso non si è risparmiato, ricercando l’arte dentro le sue origini.
Forse, anche per questo, il film meno riuscito e più criticato del regista è proprio il film che dalla Toscana prende le distanze. Ella & John – The Leisure Seeker racconta la storia di Ella e John, moglie e marito ottantenni, che decidono di sfuggire alle cure mediche e partire con un camper all’avventura e alla ricerca dell’emozione semplice del costruire, anche alla fine della vita, le emozioni della prima volta. Guardando il film non si trova lo stesso pendant che i sorrisi della Ramazzotti e la comicità drammatica della Valeria Bruni Tedeschi fanno con le vigne e i porti toscani. Seppure la East Coast non abbia scenari meno splendidi, a mancare sono la fierezza e la tradizione secolare in cui risplendono il cinismo e l’astuzia italiana. Ancora, Livorno e il mondo a parte, il giornale (il Tirreno) tanto presente nei film di Virzì, che più di altri registi si è dimostrato capace di ambientare nei luoghi più adatti la nuova commedia all’italiana.
WALTER VELTRONI INTERVISTA MORANDI- SCOPRITE UN GIANNI MORANDI INEDITO, TENERO E FRAGILE- UN TUFFO NEGLI ANNI DEL CANTAGIRO, PRIMA CHE ARRIVASSE LA MUSICA UNITED STATE, PRIMA DEL SESSANTOTTO- UNA BRUSCA USCITA DI SCENA A 27 ANNI, POI IL CONSERVATORIO E LA RISALITA, GRAZIE A MOGOL E AGLI AMICI CANTAUTORI
Conobbi
personalmente Gianni Morandi, che da ragazzo era il mio beniamino, un giorno
del 1981. Stavo raccogliendo contributi per un libro che si chiamava Il sogno
degli Anni 60. E mi sembrava che quel racconto non avesse senso, senza di lui.
Lo incontrai in un bar, poco lontano dal Conservatorio dove studiava
contrabbasso. Il risultato di quella conversazione è nel libro. Tornai con una
sensazione mesta. Mi sembrava che, tra il divo che all’improvviso aveva
cambiato la musica italiana e il ragazzo dimesso e un po’ malinconico che avevo
conosciuto, in mezzo ci fosse un dolore. Ma non è così.
Oggi
tutto è parametrato al successo, specie, si crede, la felicità di chi lo
raggiunge. Morandi, in questa intervista, racconta i pochi anni in cui è stato
lontano dalla ribalta come, invece, un tempo di rinascita, di rigenerazione.
Partiamo
da quel giorno al Conservatorio, che giorni erano, per te? «Erano i giorni in
cui pensavo che non avrei più fatto questo lavoro. Volevo diventare un
musicista, un produttore, addirittura mi immaginavo direttore d’orchestra. Sì,
la verità è che avevo le giornate abbastanza vuote. Non c’era molta possibilità
di lavorare. La musica era cambiata, erano arrivati gli americani, i gruppi, i
cantautori impegnati. E poi era un tempo cupo, il tempo del terrorismo. Io
avevo rappresentato gli anni Sessanta, la loro leggerezza. L’Italia delle
copertine di Sorrisi e Canzoni Tv, di Sogno, Grand Hotel… Io e la
mogliettina, il successo, insomma ero un simbolo da cancellare. Tutti noi, di
quella generazione, abbiamo patito questa specie di damnatio memoriae. Come se
il Sessantotto avesse tagliato in due la storia. C’era un prima e un dopo. Noi
eravamo il prima».
Ricordi
il momento in cui percepisti che le cose stavano cambiando?
«Nel
‘71 la follia di Radaelli aveva portato i Led Zeppelin a Milano, insieme al
Cantagiro. Lì ci fu uno scossone drammatico, capii improvvisamente tutto. Mi
davano del vecchio, urlavano che ero finito. Avevo solo ventisette anni, ma
sembrava, dopo quegli anni fantastici, che avessi già fatto tutto. Io non
capivo quello che stava succedendo. Ma anche i miei produttori erano smarriti.
Tutto era tremendamente veloce, tremendamente radicale.
Negli
studi Rca, dove Rita Pavone, Paoli e tanti altri erano trattati come degli dei,
arrivarono i cantautori. Per me, per noi, sembrava non ci fosse più spazio.
Mario Gangi, che era stato un grande chitarrista, mi disse: “Ma studia musica,
vai al Conservatorio! Fai qualcosa”. E io mi ritrovai lì, al Conservatorio di
Roma, a studiare il contrabbasso.
Riempivo
le giornate con la musica, però convivevo con la speranza di rimanere nell’ambiente
e di fare il produttore discografico, oppure di arrivare a fare il direttore
d’orchestra. Mi leggevo la biografia di Georges Prêtre, che prima faceva il
pugile, un altro invece era stato medico. Poi, come una improvvisa vocazione
che disvela il talento, erano diventati direttori d’orchestra. Facevo lo
studente. Ma non era un periodo triste. Tutte le mattine ero motivato, andavo,
riempivo le giornate, sentivo di non buttare via il tempo».
Quanti
anni è durata questa situazione?
«È
durata dal ’75-’76 fino all’ ’81-‘82 quando incontrai Mogol che, in realtà, mi
cercò perché era appassionato di calcio e voleva fare una squadra. Ma poi
scrisse una canzone per me e tutto ripartì». Tu eri in Italia, in termini di
popolarità, ciò che i Beatles erano in Inghilterra. Cosa fu vedere precipitare
tutto questo all’improvviso?
C’erano
stati segnali?
«Sì,
prima nel ’69-’70, quando andavo a fare le serate trovavo già fuori dei gruppi
di ragazzi che dicevano “Vai a cantare per i borghesi! Tu sei un compagno, ma
canti per i ricchi, noi invece non abbiamo i biglietti”. Una volta feci un
concerto ad Aulla, c’erano fuori trecento ragazzi, sono dovuto uscire da un
tetto. Erano anni difficili. Furono i primi segnali. Poi andai al Cantagiro.
Era l’edizione in cui Radaelli, ogni sera, aveva un artista importante: Tina
Turner, Donovan, Sam & Dave, una volta addirittura Aretha Franklin. Poi
arrivarono i Led Zeppelin e successe l’inferno.
Quando
arrivammo a Milano ero molto spaventato, perché sentivo che c’era qualcosa
nell’aria. Era il 5 luglio, si vedevano fuori già da giorni dei ragazzi con il
sacco a pelo che mi sembrarono improvvisamente sconosciuti, inediti. Io
conoscevo la generazione beat, che comprava i miei dischi, conoscevo i ragazzi
che avevano fatto il militare con me, tutta un’altra cosa. Ma questi erano i
nuovi giovani, parlavano lingue nuove, volevano nuova musica, avevano voglia di
cambiare il mondo. Ero terrorizzato, al momento di salire sul palco.
C’erano
Milva, Lucio Dalla, persino i Vianella. Radaelli era stato un pazzo a pensare
che potessero convivere i Vianella e i Led Zeppelin… Fischiarono tutti, anche
Lucio. Quando arrivai sul palco esplose un boato, mai sentita una cosa del genere.
Radaelli mi guardò sorridendo: “Vedi che accoglienza ? E tu avevi paura”. Non
aveva capito. Era un boato al contrario: un gigantesco, stentoreo, definitivo,
collettivo “ No”». Cosa cantavi lì? «Ti facevano fare un piccolo medley. Io
avevo C’era un ragazzo, Here’s to you, pezzi che immaginavo in sintonia, anche
politica, con quei ragazzi. Ma non bastò. Pensai di iniziare con C’era un
ragazzo. Da sotto mi urlavano solo “ Vai via!”.
Cominciarono
ad arrivare pomodori, di tutto. Distrussero il palco. Quaranta milioni di
danni. Lì si capì che era cambiato tutto. Uno spartiacque. Dopo tentai di fare
delle cose, ma non funzionavano. Migliacci, il mio produttore, aveva scritto
delle grandi canzoni, ma ora era smarrito, indeciso. La stessa Rca si sentiva che
non aveva più un grande progetto che mi riguardasse. Quando entravo negli studi
sulla Tiburtina, prima, era come se entrasse una divinità. Ora mi guardavano
come imbarazzati. Poi, dalle sale di registrazione, si sentivano note e parole
nuove. Battisti, che in quegli anni alla Rca cominciava ad esplodere. E poi
tutti gli altri: erano i primi anni di Renato Zero, di Cocciante e dei nuovi
cantautori, Lucio, De Gregori, Venditti, Baglioni… Tutti lì, alla Rca.
Celebrati come noi solo qualche anno prima».
Sono
stati anni amari…
«Tentammo
di fare un musical che si intitolava Jacopone da Todi, pensando che così avrei
mostrato una mia nuova immagine. Peggio che peggio, ci rimisi anche un sacco di
soldi. Intorno al ’74-’75 ero già in crisi con mia moglie, le cose non
andavano. Sembrava ci fosse solo buio. Mi chiedevo: “Io adesso cosa faccio?”.
Perché non sapevo fare niente, sapevo fare il ciabattino. Ma potevo rimettermi
a fare il ciabattino? Quattro soldi ce li avevo perché mio padre mi aveva
insegnato a metterli da parte. Sia per pagare le tasse, sia per il futuro,
“perché tanto questa cosa finisce”.
Queste
parole un po’ mi aiutarono, mi avevano fatto comunque stare con i piedi per
terra, quando tutto sembrava in rosa. Aveva ragione mio padre, doveva arrivare
quel momento. Ma, quando sembravo immerso in un gorgo, arrivò il Conservatorio.
Mi ricordo l’esame di ammissione. Avevo solo la quinta elementare, così
sostenni l’esame serale per prendere la terza media. Scrissi un tema su
Beethoven, che mi ero studiato bene. Quegli anni difficili io li ho presi sul
serio. Era un momento delicato per me, perché mio padre era morto, proprio nel
’71».
Morì
durante una tua tournée…
«Quell’estate,
a Ferragosto, Aragozzini mi chiese di andare a fare uno spettacolo a Caracas.
Aragozzini ci aveva già accompagnato in Giappone nel ’64 insieme a Gianni
Boncompagni, che faceva il fotografo. Eravamo un gruppo di italiani: Nico
Fidenco, Jimmy Fontana, io, Michele, Jenny Luna, Gino Paoli, Gianni Meccia. Una
tournée trionfale. Musica italiana con i giapponesi che cantavano i nostri
testi. Aragozzini mi chiese di volare in Venezuela a fare un mio spettacolo.
Andammo.
Io però avevo una serata il 21 agosto in Sicilia, a una festa di patrono. Avevo
due biglietti a disposizione. Decisi di portare mio padre. Lui non era mai
andato in aereo, mai andato in America. Per lui era una curiosità. Voleva
vedere com’era la culla del capitalismo. Prima di partire, l’11 agosto, venne
Stefano Bonaga. Lui, tra l’altro, era nipote di Enzo Biagi. Venne a Monghidoro
a parlare con mio padre. Discutevano fitto di politica, Bonaga era più giovane,
fresco, frizzante, mio padre invece era un conservatore, ortodosso, addirittura
era stato stalinista. Questo mi viene in mente adesso, parlando con te.
Partiamo, mio padre emozionato. Facciamo la serata, ma lui non era molto
contento di come mi avevano accolto. Era stata una serata strana, c’erano un
po’ di italiani, un po’ di venezuelani, ma freddini. Papà non era contento.
Aragozzini
gli dice “Io vado a New York, perché non vieni con me ?”. Rassicurai mio padre:
“Vai, io devo tornare perché ho questa serata a San Salvatore di Fitalia”. Così
lui rimase e io tornai in Italia. Adriano e mio padre dovevano salire su un
aereo il 17 mattina. Mio padre non lo prese. Morì di infarto nella notte.
Cazzo, sono a casa mia a Tor Lupara con i musicisti a provare il concerto e
arriva questa telefonata.
Mi
è crollato il mondo. Aragozzini lo ha riportato, fu molto gentile. Quando ho
visto il volto di mio padre, la bara si apriva all’altezza del viso, ho
ripensato ai suoi sacrifici e ai suoi sogni. Tutti e due grandi e belli».
Quindi
nello stesso periodo muore tuo padre, ti separi da tua moglie e conosci una
crisi professionale. C’era motivo di sbandare…
«Niente
alcol, niente droghe. Magari giocavo a carte, in quel periodo difficile».
Per
cercare di vincere, almeno al tavolo verde?
«Probabilmente
sì. C’era un gruppo, a Roma. Un ristoratore, uno della Lazio e giocavamo. E mi
ero fissato, pensavo davvero di fare il giocatore. Sai, quei momenti di
sbandamento. Perché era troppo. Era stata una cosa così netta, così violenta,
improvvisa che, pur avendo le spalle da contadino piantato coi piedi per terra,
anche io vacillavo…».
Però
avevi anche 27 anni…
«Ma
era da quando avevo tredici anni che giravo e avevo cominciato ad essere
autonomo. Non dovevo sbagliare. Per fortuna quel momento durò poco, perché poi
mi capitò una disavventura sul gioco: mi misero in mezzo, persi una cifra
notevole, mi spaventai e riuscii a smettere. Forse il Conservatorio mi ha
aiutato, anche in questo».
Abituato
a fare tutti i giorni delle serate, cosa facevi quando finivi di studiare ?
«Dovevo
studiare: lezioni di teoria, di contrabbasso, di storia della musica, di
solfeggio… E, minimo, dovevo stare due ore sul contrabbasso. Il contrabbasso,
se tu lo senti nella grande orchestra è fondamentale, ma da solo… Mi facevano
fare questi esercizi, poi le scale, infinite volte, e non veniva mai, non
sembravi mai intonato. Io lì mi sono affinato proprio nell’intonazione. Grazie
anche a Quinzio Petrocchi, un professore di canto corale appassionato di Bach
che poi morì assurdamente in India, schiacciato da un elefante.
Quando
cantavamo insieme Lucio mi diceva “Ci hai rotto i coglioni, sei troppo
intonato”. Lucio ha eseguito Vita insieme a me. Gli dissi: “Lucio, ma così è
stonato!”. Lui mi rispose: “La gente vuole anche le cose sporche. Non gliene
frega nulla dell’intonazione”. Io ero preciso, persino troppo. L’ho cantata
dieci volte, ma non avevo il feeling. Ero intonato, ma lui le dava anima. Anche
nella tournée con Baglioni ho pensato: questo me lo mangio. Invece siamo
arrivati sul palco. Micidiale. Ha una potenza vocale invidiabile. Ogni volta
che facevamo una nota acuta io lo sfidavo tenendola al massimo della lunghezza.
Lui mi guardava per dire: dove vai? E se io smettevo, allora dopo due secondi
smetteva anche lui. Claudio mi diceva: io ti invidio l’intonazione. Anche lui.
Il merito era del contrabbasso…».
Ricordi
il primo concerto che hai fatto nella nuova vita?
«Era
al teatro Aurora a Roma. Fausto Paddeu, un impresario, un giorno mi disse:
“Facciamo questi spettacoli, invitiamo un po’ di gente, poi d’estate le feste
de l’Unità”. Mi dispiaceva lasciare il Conservatorio, avevo acquisito
conoscenza, sicurezza e anche i professori ora mi salutavano col sorriso. I
soldi erano sufficienti, non sono uno che spende tanto, la casa l’avevo già
pagata. Insomma, resistevo. Ma cantare era la mia passione.
Al
teatro Aurora facciamo questa serata che si chiamava Cantare. Paganti ottanta.
Allora io chiamo tutti i miei amici di Tor Lupara, loro vengono in massa. Avevo
un mio amico che mise un banchetto con le cassette degli Anni 70 e 80. Le
vendeva a cinquemila lire. Ne smerciò due. Dovevamo stare due settimane, la
seconda serata avevamo cinquanta paganti. Facevamo molta fatica, però fu una
bella esperienza. Facevo questi concerti, vedevo la gente per strada che mi
riconosceva, però avevo la sensazione che mi guardassero non dico con
commiserazione, ma quasi. Come a dire “ma questo, che fine ha fatto?”. Avevo
questa sensazione, ma forse ero io, ero io dentro. Però mi sentivo vivo».
Poi
arriva Canzoni stonate…
«Tra
una partita e l’altra Mogol scrive questo testo. Aldo Donati aveva una melodia
e andammo da Melis, il geniale patron della Rca, con la canzone. Per dirti
com’era feroce Melis… Ascolta, dice che è bellissima, e poi, guardando solo
Mogol “allora: la passo alla Ferri, ti faccio sentire io come viene”. Melis era
brutale, ma lo apprezzavo. E spesso aveva ragione. Rimasi molto male e Mogol
disse “ma è un bravo ragazzo… rifacciamo l’arrangiamento, proviamo”. Chiamò
Shel dei Rokes a lavorarci. Lui l’ha ammorbidita e l’ha fatta diventare una
bella canzone. Però non succedeva niente, dal punto di vista delle vendite.
Mogol
poi scrisse qualche altro pezzo e cercammo di mettere insieme un album. Mimma
Gaspari, allora capo ufficio stampa, tifava per noi e caldeggiò la promozione
del disco. Melis disse: “ Va bene, ci lavori, se vende ventimila copie le diamo
un premio”. Diciassettemila, ne facemmo. Renato vendeva un milione di copie,
Lucio lo stesso, Baglioni non ti dico, io diciassettemila copie. Però fu un
piccolo segno. Cantavo alle feste de l’Unità, ma quando cominciavo Canzoni
stonate, la gente restava incerta perché era delicata, diversa da quello per
cui ero conosciuto. Mi urlavano sempre “Facci La fisarmonica!”».
In
quel periodo inizia la prima serie televisiva… «Era la storia di un uomo
separato dalla moglie con i figli che rimangono a vivere con lui. Il regista,
Murgia, cercava il protagonista e una segretaria della Rai disse “prendete Morandi:
è separato, i figli sono con lui. È la sua storia”. Il regista insistette. Ma
io volevo ancora diplomarmi, anche se poi sono arrivato a un centimetro ma non
ce l’ho fatta, e stavo ricominciando a cantare. Alla fine mi convinse e firmai
un accordo per farlo in due mesi. Voglia di volare andò in onda ed ebbe un
grande successo. La gente, a casa, probabilmente mi ha rivisto lì e ha pensato
fossi tornato, come Ulisse. Poi girammo il secondo, Voglia di cantare. Era la
storia di un cantante in crisi che ritornava. Usammo Uno su mille. Musica e
televisione, intrecciati, mi fecero ritrovare un pubblico largo». Quanto
vendette ? «Vendite enormi, no. Tre, quattrocentomila. Non un milione di copie,
ma neanche le diciassettemila dell’album precedente o le due cassette del
teatro Aurora…».
Nella
prima fase quanti dischi hai venduto?
«Penso
tra i ventotto e i trenta milioni, ma anche di più. Poi c’è tutto l’estero che
sfugge al controllo. Io ero fortissimo in Sudamerica. Una volta io e Jimmy
Fontana, lui con Il mondo e io con Non son degno di te, arrivammo in Argentina.
Ci accolsero come due star. E così in Brasile, Perù, Venezuela. Poi tutti i
Paesi dell’Est, come la Russia, la Bulgaria. Anche lì stampavano milioni di
dischi, ma non pagavano nessuno». Torniamo agli inizi. Quando hai capito che
potevi farcela? «Mah, intanto io non ho mai avuto la fiamma della musica. Un
po’cantavo con mio padre, mio padre era un canterino».
Cosa
cantava?
«Gli
piaceva moltissimo Solo me ne vo per la città. Poi un po’ di Fred Buscaglione,
Natalino Otto che cominciava a fare lo swing. Lui batteva sempre il cuoio,
perché prima di risuolare le scarpe la pezza di cuoio va indurita, e quindi,
mentre batteva, cantava. Avevamo un libretto con i pezzi di Sanremo e li
cantavamo insieme».
Com’era Monghidoro allora ?
«Era
uno dei quattro comuni emiliani amministrati dalla Dc. In piazza c’era sempre
conflitto, specie con il macellaio fascista. Erano quegli anni… Il prete una
volta mi mandò via dalla processione, il venerdì santo. Non andavo a messa, mio
padre non mi mandava. Mentre la nonna era supercattolica. Mi portava sempre la
dottrina e mio padre la nascondeva. E lei me ne portava un’altra. È andata
avanti così, per anni».
Tuo
padre com’era ?
«Un
uomo rigoroso e generoso. Mi mandava a fare la spesa e mi dava i soldi contati.
Centosettantacinque lire per sette etti di pasta, venticinque lire l’etto. E
cento lire per il macinato. Erano le monetine da cinque lire, quelle con il
pesce sopra. Papà era il responsabile della diffusione de l’Unità. E di nove
testate del partito. Aveva sempre tutto scritto, su un quadernetto. Serissimo,
era fantastico. Mentre andavo a fare la spesa fischiettavo per strada e c’era
il barbiere, Lino Lanzoni, che mi ascoltava. Ogni tanto mi metteva sul
seggiolino e mi faceva fischiare. Cominciai così».
“C’era
un ragazzo” come ti arriva da Mauro Lusini?
«Venivamo
da successi enormi. In ginocchio da te vendette un milione e quattrocentomila
copie, Non son degno di te più di un milione, Se non avessi più te
settecentocinquantamila. Riunione: “Dove abbiamo sbagliato?”. Pensa oggi se uno
vendesse settecentocinquantamila copie di un disco, fiumi di champagne… Era
troppo raffinata. E quindi avevo fattoMa quando si fa sera grande successo
anche quello, Notte di Ferragosto. Arriva Migliacci: “Sai che oggi ho sentito
una canzone fantastica? Ho scritto i testi in cinque minuti”. L’autore era Mauro
Lusini, da Siena, e la cantava in inglese maccheronico. Le parole non avevano
senso, ma Rolling Stones ce l’aveva già messa lui.
Migliacci
scrive il testo di getto: C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i
Rolling Stones, girava il mondo veniva da. Mogol dice sempre che, quando la
musica è giusta, le parole sono già dentro. Mi vengono i brividi ad ascoltare
questa canzone: “La devo cantare io”. Ma Franco mi ricorda che io cantavo In
ginocchio da te e La fisarmonica.“Non puoi parlare di un morto nel Vietnam.!
Stiamo scherzando?”. Io mi impunto: “La devo fare a tutti i costi”. Mauro
Lusini, giustamente, voleva inciderla. Decidiamo di farlo tutti e due.
Arriviamo a questo compromesso. È stata la prima volta che mi sono impuntato,
prima avevano fatto tutto loro. Poi ci sono state le censure, dovevamo dire
ta-ta-ta invece di Vietnam…».
Qual
è il giorno della tua vita che vorresti rivivere ?
«Ne
ho vissuti talmente tanti… È difficile sceglierne uno. Quando prendevo la
corriera da Monghidoro per andare a Bologna, anche se mi faceva male allo
stomaco, con tutte quelle curve. Il giorno che è nata Marianna o quello in cui
ho conosciuto mia moglie Anna. O la maratona di New York. Ti sembrerà strano,
ma, quando sono arrivato, ho avuto un attimo di esaltazione».
E
qual è il giorno che invece non vorresti rivivere?
«Il
giorno della morte di mio padre, sicuramente. Il primo choc grande della mia
vita. Anche, professionalmente, la serata dei Led Zeppelin mi ha ferito. Però
ho capito che nella vita serve anche il dolore».
Tu,
in questo tempo livido, dai l’impressione di essere una persona felice, anche
nell’uso dei social.
«Sono
sempre stato abbastanza ottimista, positivo, ho sempre trovato del buono, anche
nei momenti meno felici. Adesso con i social non ho fatto altro che essere me
stesso. Quando ho messo la prima foto, in cui sbucciavo i fagioli, è successo
un casino. Ne ha parlato persino il telegiornale. Allora mi sono accorto che la
gente ha talmente voglia di sorridere… Quando io in teatro non voglio cantare
Fatti mandare dalla mamma, le persone ci rimangono malissimo. Tu la canti e
loro sorridono. Se puoi dare allegria, perché non farlo?
La
gente ha bisogno di leggerezza. Forse perché è appesantita da tanti problemi.
Vivere oggi è difficile, la vita di ognuno è impegnativa. Io mi ritengo un
fortunato. Il treno è passato molte volte per me. Se anche ho perso il primo,
poi è passato il secondo e il terzo. Rimango diciotto anni senza essere
sposato, poi incontro Anna, che mi dà un entusiasmo enorme. Di cosa posso
essere invidioso o deluso?».
Che
cosa non ti piace del tempo che stiamo vivendo?
«La
maleducazione. Il non rispetto dell’uno con l’altro. Cristo diceva ama il
prossimo tuo come te stesso. Basterebbe, ma non ce la facciamo. Mio padre mi
diceva sempre che io dovevo lavorare, perché il lavoro nobilita, e dovevo
lottare, essere una persona onesta e soprattutto rispettare il prossimo. La
maleducazione lui non la sopportava. Oggi vedi troppa gente egoista, capace
solo di pensare al proprio giardino. È così bello aiutarsi, sentirsi squadra.
Invece non sappiamo ascoltarci. Mentre io parlo con te non ti ascolto, sto già
pensando a quello che ti voglio dire io, è tremendo. Invece se ti abitui ad
ascoltare, è molto più bello. Io ho sempre fiducia che i nuovi ragazzi ci
salvino. La speranza arriva sempre da loro».
Qual
è la canzone che ti sarebbe piaciuto scrivere?
«Canterò
Futura, nello spettacolo a Bologna. Mi sembra enorme, quella canzone. Mi
commuove, ogni volta».
DISEGNARE LE NOTE E LEGARE I SUONI CON LO SPAGO- VINICIO CAPOSSELA DALLE OSTERIE AL POVERO CRISTO: UN CANTICO PER TUTTE LE CREATURE, PER LA MOLTEPLICITA’, PER COLMARE LA FRATTURA FRA UOMO E NATURA.
Intervista a Vinicio Capossela: «Imparai a suonare in
chiesa, per amore della nipote del parroco»
Il
cantautore: «Il mito di mio padre era Celentano: quando l’ho incontrato mi sono
inchinato davanti a lui. La Rete? La tratto come faceva mia nonna in Irpinia
con la tv: gli metteva una tendina sopra, lo considerava un intruso in casa»
«Ho imparato
a suonare i primi accordi sull’armonium in parrocchia: ero segretamente
innamorato di Maria Grazia, la nipote del parroco».
Vinicio Capossela non è semplicemente un musicista, ma un po’ antropologo ed
enigmatico filosofo. Le sue ballate sembrano riferirsi a mondi lontani, come la
città dov’è nato, Hannover. «Sono stato pochissimo in quella città, non ho
fatto nemmeno in tempo a imparare le parolacce in tedesco, perché poi sono
cresciuto in Emilia Romagna. I miei genitori, originari dell’Irpinia, erano
emigranti».
Che
mestiere faceva suo padre in Germania? «I lavori più umili e più faticosi,
quelli che potevano fare solo gli emigranti. Ma era appassionato di musica,
tanto che mi chiamo Vinicio in omaggio a un fisarmonicista degli anni ‘60, che
mio padre apprezzava tanto. Un giorno si presentò a casa con un giradischi e
con dei 45 giri che erano bellissimi, coloratissimi. Il suo mito era Adriano
Celentano, se lo sognava di notte e, quando molti anni dopo io incontrai il
famoso cantante in una trasmissione televisiva, dov’ero stato invitato, mi
inchinai di fronte a lui come fosse una divinità: era l’omaggio che mio padre
avrebbe voluto fargli».
Quando
ha deciso che avrebbe fatto il musicista?
«L’ho desiderato sin da bambino. Ero attratto dagli strumenti a tastiera, così
come i ragazzini della mia età amavano il pallone o la bicicletta… Amavo in
particolare l’organo e, siccome ovviamente non ne disponevo, disegnai su una
tavola i tasti, scrivendoci sopra i rispettivi suoni: blin, blon, blen… Non
solo: prendevo le cassette di frutta vuote, le univo con lo spago per mimare un
impianto di amplificazione».
I primi
maestri? «I maestri veri sono quelli che incontri
nella vita, gli altri semmai sono dei punti di riferimento, che per me sono
stati Luigi Tenco, Tom Waits, Fabrizio De André… Il mio primo incontro
significativo nella vita è stato con un giovane insegnante di liscio, che
sapeva suonare e mi insegnò i primi rudimenti al pianoforte. Però nei paesi
dell’Emilia Romagna, come quello dove vivevo io, Scandiano, e dove sono tuttora
residente, a quell’epoca dominava il ballo non solo nelle balere, ma nelle
feste dell’Unità, ai matrimoni… Si mangiava tanto e si ballava allo
sfinimento… E io guardavo ammirato quelle coppie che si scatenavano e
sudavano, sudavano… si squagliavano di sudore… gli uomini, come spugne
imbevute d’acqua, erano costretti a togliersi la giacca, poi la camicia…».
Tanta
passione per la musica, ma lei ha studiato economia all’università di Parma…
«Questa materia mi interessava per il suo carattere sociale».
In che
senso, scusi?
«Intendiamoci, non l’economia da ricchi, ma quella che parla dei salari, dei
diritti dei lavoratori, delle disuguaglianze, delle rivendicazioni sindacali…
insomma, volevo capirne i meccanismi per rendermi utile alla comunità».
Però ha
cambiato strada e ha abbandonato gli studi economici. I suoi genitori sono
stati contenti di avere un figlio musicista o lo avrebbero preferito impiegato
magari in banca?
«Ogni genitore ambisce, per il proprio figlio, al posto fisso, ne è attratto
come da un centro di gravità… Devo dire, però, che non ho avuto opposizioni
particolari da parte loro, perché non avevo un’azienda familiare da portare
avanti e il vantaggio di avere poco è che hai meno da perdere… sei più libero
nelle scelte. Mio padre si limitò a dire una frase lapidaria: “Vinicio meglio
di così non poteva venire. Peggio di così non poteva venire”».
Le
prime esibizioni non riscossero grande successo…
«Dica pure fischi… nella Bassa padana mi capitava di suonare dappertutto,
anche nelle osterie. Una volta andai a suonare insieme a un gruppetto in un
circolo punk a Modena e un tizio, di cui ricordo solo gli anfibi che portava ai
piedi, schifato dalla nostra esibizione, si alzò e, andandosene, esclamò: siete
la morte».
Si è
scoraggiato?
«Assolutamente no. Il rapporto con il pubblico è sempre rischioso. Il guaio è
quando diventa condizionante e quindi, pur di compiacerlo, rinunci alle tue
scelte per farne altre, cambi i tuoi programmi. Un artista deve intraprendere
il suo cammino, tra fischi e applausi, accettando la fatica di farsi accettare
per ottenere consenso. Non sono un elitario, tuttavia secondo me è peggio
quando ci si adegua alle richieste del pubblico: il rischio, come canta Ivano
Fossati, è di fermarsi ad ogni lampione. La stessa cosa avviene in politica».
Cioè?
«Non sono partitico, ma politico, ogni gesto che facciamo è politico. Il fatto
di delegare, degradare la politica a una macchina del consenso, dove siamo
tutti tirati per la giacchetta, è la maniera più limitata. Non si può ridurre
la figura del politico a quello che si fa i selfie in piazza e non si può
ridurre un cittadino a colui che mette una crocetta sulla scheda del voto.
Ripenso alla figura di Enrico Berlinguer, che parlava da solo, davanti a
milioni di persone ed era capace solo con le sue parole di porsi come un vero
leader».
Altri
tempi. La realtà attuale è un’altra.
«Purtroppo, ma il reale non coincide con il vero. La dittatura dell’attualità,
che ci costringe a esprimere opinioni per esempio attraverso i social è
ineludibile e insopportabile. Quello che mi preoccupa è l’abuso dell’immagine
rispetto alla parola: le immagini che dilagano in rete, sono immagini che
mettono in circolazione le pulsioni più basse e possono anche fare molto male
alle persone. Ecco, io preferisco avere un rapporto mediato con la “bocca della
verità” che è la rete, uno strumento meraviglioso che richiede un alto senso di
responsabilità. E allora sopra a quelle immagini ci metto una tendina, così
come facevano mia nonna o le mie zie in Irpinia che sul televisore ci mettevano
la tenda, perché lo consideravano un intruso in casa: si sentivano osservate da
quel catafalco che dominava in camera da pranzo».
Il suo
ultimo album si intitola «Ballate per uomini e bestie». Chi sono gli uomini, e
chi le bestie?
«Appartengono entrambi allo stesso genere umano. La bestia, infatti, non è solo
l’animale selvaggio, quello destinato all’arena, bensì la persona che si
comporta male, aggredendo il prossimo nella lotta per la sopravvivenza, facendo
prevalere la legge del più forte. Bestia è un termine ampio, comprende anche il
maleficio, non a caso è pseudonimo del diavolo».
Insomma,
qual è il confine tra gli uomini e le bestie?
«Ciò che ci rende uomini è la cultura, il rispetto delle regole, il sapere
stabilire dei limiti per stare insieme in una convivenza pacifica. Il confine,
ovvero la differenza, è tra civiltà e barbarie».
Chi è
«Il povero cristo», che dà il titolo a un brano dell’album?
«Non sono credente, non sono sorretto dalla Fede, ma sono sensibile al sacro,
alla ritualità e leggo con attenzione le Scritture. La religione ci offre delle
chiavi di comprensione più dell’uomo che di Dio. D’altronde, Dio stesso si è
fatto uomo».
Posso
farle una domanda impertinente?
«Dica pure».
Lei in
palcoscenico è sempre provvisto di cappello. È una questione che riguarda il
costume di scena oppure si tratta di pura e semplice civetteria, per nascondere
la calvizie?
«È davvero un po’ impertinente questa domanda, che nessuno mi ha mai fatto… —
ride —. Ora le spiego: non è civetteria, è una forma di travestimento, il più
pratico che esiste da portare in giro nelle tournée. Di cappelli ne ho tanti,
di varie fogge e diversi colori, ma sono facili da trasportare, perché occupano
poco spazio, tranne alcuni che sono più ingombranti, insomma… un teatrino
portabile! Però la loro funzione è soprattutto un’altra: con i cappelli si
creano dei personaggi, si trasmettono delle suggestioni, rappresentano una
vestizione delle mie canzoni… In altri termini, sono degli ottimi compagni di
lavoro che accompagnano certe stagioni della vita. Dunque, non sono coperchi
per la calvizie».
Nato ad
Hannover, cresciuto a Scandiano, poi in giro per il mondo. Si sente un apolide?
«Non mi sento fuori dalla polis, dalla comunità. Credo di essere apolide come
qualunque uomo contemporaneo. Semmai ho il vantaggio di essere pluripolide: di
comunità ne ho parecchie».