LA VITA AGRA E LA GRAPPA GIALLA: RICORDO DI LUCIANO BIANCIARDI

LA VITA AGRA E LA GRAPPA GIALLA: RICORDO DI LUCIANO BIANCIARDI

Luciano Bianciardi è stato uno scrittore, giornalista, traduttore, bibliotecario, attivista e critico televisivo italiano. Contribuì al fermento culturale italiano nel dopoguerra, collaborando attivamente con varie case editrici, riviste e quotidiani. Amava il Risorgimento sfacciato della camicia rossa e le battaglie di Garibaldi con il sigaro in bocca.

Ammirava i braccianti e i miniatori delle sue maremme. Detestava i ragionieri milanesi, il disordine della grande città neocapitalista, le segretarie secche del terziario avanzato, gli intellettuali larghi, autorevoli e prudenti. E mentre tutti lodavano i grattacieli, i supermercati e il fatturato del Boom, lui scriveva isolato contro “la diseducazione sentimentale del Miracolo economico”, proclamandosi anarchico, provinciale e guastafeste. Per i suoi molti disincanti di italiano solitario, Luciano Bianciardi amava il Risorgimento. Non quello di Cavour, re degli inchiostri politicanti, ma quello sfacciato di Garibaldi che vinse tutte le sue battaglie in campo aperto, con il sigaro tra i denti, sempre sapendo che avrebbe perso l’ultima: destinazione gli scogli spumeggianti di Caprera, incorporati alla solitudine dell’esilio. Gli piaceva immaginare l’epopea delle piazze di Palermo e Napoli, liberate, con le bandiere in festa. La fatica dei soldati semplici (…), i ragazzi, in camicia rossa, morti per l’ideale, quando ancora l’ideale brillava in purezza, prima di diventare lo spento bottino dei re piemontesi e del loro esercito sceso a occupare il Meridione con tasse e baionette. Gli piaceva la rivoluzione di popolo anche quando resta inconclusa, irretita dalle cautele delle classi dirigenti, dagli opportunismi, dai tradimenti politici, dai vantaggi personali, come sarebbe accaduto una seconda volta, proprio davanti ai suoi occhi, con la Resistenza tradita, anche quella lampo di un riscatto incompiuto, dopo la guerra persa e vent’anni di tragico stordimento fascista. Lui nel fascismo c’era nato, anno 1922, e c’era cresciuto, senza mai prendere nulla sul serio, se non a vent’anni il massacro della guerra, poi le macerie di una Italia transitata dalle camicie nere delle adunate, al nero dei funerali e della fame, eppure velocissima, dopo la pace, a
sbiancarsi d’abito, ammaestrata dallo stesso conformismo di prima, benedetta dallo stesso prete.Luciano Bianciardi

Diceva che era stato il padre Atide a trasmettergli il lungo incanto per il Risorgimento, l’epica dei Mille, il cuore puro di Garibaldi. C’era voluto il lento Dopoguerra di provincia a fargli rimpiangere davvero quella stagione di vite mirabolanti in gioco, di speranze comuni a una intera generazione, e a voltare quelle delusioni del passato, nell’insofferenza per il presente. Che per lui era già diventato il matrimonio, il primo figlio, le passeggiate notturne con gli amici a discutere della vita che scappa, di un quieto vivere che lentamente soffoca. Fino a quel fatidico pomeriggio di maggio, quando il boato squassa la miniera di Ribolla, 43 minatori bruciati in un istante dal grisù, impossibile continuare la vita di prima, impossibile accontentarsi delle lacrime e della retorica dei funerali. Non provare – come lui provava, seduto sui gradini del Duomo – una “tremenda incazzatura” contro i vivi, contro la rassegnazione, contro la sabbia del presente. Ma il furore, forse, non sarebbe bastato a convincerlo di lasciarsi alle spalle l’insopportabile Grosseto. Ci voleva l’amore per Maria Jatosti e poi una scrivania nella nascente casa editrice Feltrinelli, lassù a Milano, a perfezionare quel distacco dalla vita di prima. A far salire anche lui su quel treno, anno 1954, come stavano facendo tanti altri giovani intellettuali che dalle provincie arrivavano nella nuova capitale dell’industria culturale

Gian Giacomo Feltrinelli

(…). Quasi tutti con lavaligia di cartone piena di libri e idee, poco tempo per la nostalgia. Salvo Luciano. Che quella rabbia se la portava dentro, come una sua personale predisposizione, sapendo che non sarebbe mai stata troppo comune alla sua generazione, come non lo fu quella dei garibaldini. E dunque trovandosi da subito spiazzato nella Milano delle cento fabbriche, delle cento miniere, delle cento case editrici “arredate come profumerie”. Un provinciale fuori posto. Un “anarchico individualista” che vestiva strano, parlava colto, poteva accoglierti con un abbraccio o con un grugnito. Un eccentrico che viveva (scandalosamente) con una donna non sposata e una famiglia tradita. Un visionario ingenuo. Ma anche un irritabile idealista che parlava troppo, specie al lavoro, della grande città come di una “giungla merdosa”. Dove vivere è sempre più complicato, perché “i soldi ti corrono dietro e ti scappano davanti”. Specie dopo il licenziamento dalla Feltrinelli, per reciproca insoddisfazione, quando gli tocca scalare il fine mese con il duro lavoro del traduttore a cottimo, inseguendo cambiali, figli, bollette che scadono.

Da quella fatica Luciano estrasse il meglio, la trilogia della rabbia – Il lavoro culturale, L’integrazione, La vita agra – scritta di notte in compagnia della grappa gialla e di certe ossessioni che viravano il suo sguardo al nero, all’insofferenza. Facendogli intuire, molto prima di Pier Paolo Pasolini, anche se più confusamente, i veleni del consumismo, il vuoto dell’omologazione, la solitudine dell’uomo dentro al rumore della folla. Con La vita agra arrivano i soldi e il successo, quello vero, che non è più solo “il participio passato di succedere”. Arriva un po’ di fama, qualche festa, qualche vacanza. Ma anche lo stupore per la inaspettata circostanza che la sua invettiva gli spalanchi i sorrisi e i salotti: “Invece di mandarmi via da Milano a calci nel culo come meritavo, mi invitano a casa loro”. E poi: “Finirà che mi pagheranno uno stipendio per fare l’arrabbiato”. Lui quello stipendio non lo vuole, gli sembra un cedimento, un altro passo verso la definitiva integrazione piccolo borghese in una Italia che non gli piace.

Non sopporta la chiesa democristiana e quella comunista, le ideologie, le piccole mafie dei premi, le virgole dei letterati da convegno, le cordate. Rifiuta un ingaggio al Corriere della Sera (…). Bazzica i notturni milanesi, Jannacci, il Santa Tecla, il Derby Club. Frequenta giornalisti sportivi, pittori matti, fotografi squattrinati (…). Nell’Italia bigotta scrive di rivoluzione sessuale e anarchia. Elogia l’ozio, contro il calvinismo milanese (…). A metà dei Sessanta abbandona Milano. Fa l’errore di scegliere Rapallo. Finisce dentro le sue piogge e i suoi bar, dove beve Campari e mastica chiacchiere da nulla. Si incanta ai suoi tramonti, mentre lassù a Milano arrivano i primi sprazzi del ’68 che hanno musica e parole per lui già vecchie, già sentite. Guarda e non capisce. Non gli piacciono gli studenti in piazza, né il nuovo conformismo della protesta. Così che avendo vissuto una sua rivoluzione dei costumi in anticipo, di colpo si ritrova in imperdonabile ritardo. È in quel ritardo che tornano a balenare il Risorgimento e le sue storie. Belle da scrivere. Belle da raccontare. Come una vacanza. Come una nostalgia delle tante cose perdute – nella lunga apnea milanese e poi ligure – che non hanno mai smesso di abitargli dentro. (…) Scrive di quegli anni lontani (…) sapendo che quel passato contiene la chiave del presente. Un presente collettivo, che riguarda la nostra Italia imperfetta, “lacerata e divisa”, tra Nord e Sud, ricchi e poveri, analfabeti e dotti. E un suo presente privato, di provinciale che dopo tanti anni, cerca in quelle pagine, in quelle emozioni, la strada del ritorno. Non avrà abbastanza energia per intraprenderlo davvero quel ritorno. Distratto da troppa solitudine. Prigioniero di troppi bicchieri, troppi brindisi tristi alla sicura sconfitta (…). E consegnandoci le pagine finali di un Garibaldi – uscito postumo – dove per l’ultima volta raccontava l’esilio del generale, per non parlarci del suo.

Articolo di Pino Corrias, Il Fatto quotidiano

Per notizie sullo scrittore: www.fondazionebianciardi.it

ARTE E RICICLO

ARTE E RICICLO

Questa artista ricicla materiali da imballaggio per costruire abiti rinascimentali


L’artista interdisciplinare JONGMANS SUZANNE usa le sue abilità come scultorice e costumista per creare capi riciclati da materiali di imballaggio come polistirolo, fogli di plastica e segmenti di spessa pellicola a bolle.

I costumi assumono la forma di berretti elaborati e di abiti con colletto alto che vengono poi fotografati su soggetti in pose che ricordano gli stili di ritratti dei secoli XV, XVI e XVII. Nello specifico l’artista olandese fa riferimento a dipinti creati da artisti come Rembrandt, Holbein the Younger e Rogier van der Weyden nelle sue fotografie in stile.

BASQUIAT

BASQUIAT

RIPENSIAMO ALL’OPERA DELL’ARTISTA NERO AMERICANO, MORTO A 28 ANNI, ORA IN MOSTRA A N.Y. – ACHILLE BONITO OLIVA NE TRACCIA LA BIOGRAFIA ARTISTICA E NE SUGGERISCE LE LABIRINTICHE ASCENDENZE

jean michel basquiat

Si intitola Defacement: The Untold Story la mostra di Jean- Michel Basquiat al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, a cura di Chaédria La-Bouvier ( fino al 6 novembre). Titolo di un’ opera dedicata allo street artist afroamericano Michael Stewart, morto dopo il suo arresto per i pestaggi della polizia. Basquiat ( 1960- 1988) è nato da padre haitiano e da madre portoricana ed è vissuto a Brooklyn fino a quattordici anni.

achille bonito oliva
Achille Bonito Oliva

Dopo tre anni a Portorico ritorna a New York iniziando la sua vita intensa e sradicata, nutrita fino al 1980 di graffitismo. Il set su cui si esprimono SAMO ( pseudonimo di Basquiat) e gli altri graffitisti è New York. Qui l’ arte è welcome, se sospende il giudizio sulla società che la accoglie. Così sono bene accetti la vistosa messinscena della Pop Art e l’ apparente cinismo della pittura fredda e distaccata di Andy Warhol.

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I graffitisti, frutto di una periferia urbana per lo più nera e portoricana, rispondono con una autentica necessità espressiva. Con quella che Norman Mailer chiama ” fede nei graffiti”, slogan politici, frasi erotiche, richiami ermetici, scrittura libera e anonima, cromaticamente aggressiva e tracciata con immediatezza. SAMO e i suoi amici si esprimono utilizzando le pareti della metropolitana, con strumenti veloci come lo spray, con colori industriali, mediante un linguaggio fatto di immagini e parole.

BASQUIAT NEW YORK TIMES MAGAZINE
jean michel basquiat andy warhol 12
Andy Warhol e Basquiat

Il risultato è una sintesi delle arti: parole, musica, danza, architettura, scenografia, movimento, che ricorda involontariamente quella definizione di arte totale che già Kandinskij e il futurismo con Marinetti avevano teorizzato. Un armamentario linguistico che con oggettiva allegria trova le sue origini anche nelle avanguardie storiche europee: la scomposizione della parola in lettere, l’ onomatopea e la parolibera futurista, l’ uso della danza dadaista e l’ aggressività del linguaggio pubblicitario. Ora egli porta sulla tela la qualità astratto- figurativa, il carattere dichiarativo e narrativo, la forza esplicita e didascalica, lo stato di confusione e aggregazione spontanea degli elementi visivi.

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Sul piano linguistico, i rimandi sono molteplici, corrono nella direzione di Willem de Kooning per il taglio figurativo delle immagini, nella direzione di Cy Twombly per quanto riguarda la grafia elementare e verso quella dell’ espressionismo astratto di Pollock, da cui il giovane artista americano recupera il furore del segno e la sua capacità di stabilire un avvolgimento dell’ immagine.

senza titolo (sceriffo) jean michel basquiat

Con una capacità di sintesi picassiana e una intelaiatura brut alla Dubuffet, Basquiat introduce nella sua epica visiva eroi neri da Malcom X a Charlie Parker, da Jesse Owens a Billie Holiday, che con la loro presenza elaborano il lutto storico di minoranze ghettizzate e magari utilizzate con falso orgoglio yankee. Le opere spesso sono divise in molti pannelli che separano superfici ricoperte di scritte, immagini e collage in rotta di collisione tra loro. Dell’ esperienza graffitista Basquiat conserva l’ immediatezza e la frontalità.

basquiat con warhol
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Ma le elabora e le filtra attraverso un senso costruttivo dell’ immagine, un sistema d’ ordine formale capace di recintare dentro il perimetro dell’ opera le diverse forze che l’ attraversano. Il disegno diventa la cifra stilistica che tempera ogni aggressività dell’ immagine. Denuncia l’ aspetto lirico e contemplativo di un giovane artista imbevuto anche di virtualità telematica. Le superfici non sono mai rigide ma pronte a slittamenti e intercambiabilità.

Bruno Bischofberger con Andy Warhol, Jean-Michel Basquiat e Francesco Clemente (New York,1984)

Se le prime opere riproducono lo stile afasico del rap, successivamente assumono anche il timbro compatto e squillante proveniente dalla memoria visiva di Ellsworth Kelly. La scrittura elementare di Basquiat riporta nel campo della rappresentazione l’ essenzialità scheletrica di Klee, l’ attitudine spirituale a spogliare l’ immagine da ogni orpello. Appaiono scheletri e teschi intrecciati a scritte ed elementi del vissuto quotidiano.

defacement jean michel basquiat

Lo spazio della festa sembra presiedere a un’ opera che corre dalla pittura alla scrittura e a rispettarne la definizione antropologica che non riconosce gerarchie tra alto e basso, destra e sinistra, tra il mondo adulto e quello infantile. Il referente di supporto diventa il muro, quello infinito e slabbrato che accompagna i passi dell’ uomo portoricano o di quello del Bronx. I cicli pittorici portano spesso il sigillo di una corona, memoria del diritto d’ autore graffitista, segno ironico di un’ onnipotenza proveniente dall’ attività creativa, l’ unica capace di segnare alcuni intervalli nella deriva esistenziale dell’ artista.

la hara jean michel basquiat

Il 12 agosto 1988 Basquiat muore a New York, vittima della sua deriva, malgrado la costruzione di un’ opera che ha abbandonato ogni periferia e raggiunto il centro dell’ attenzione internazionale. Ha sostituito il ritmo abbreviato del rap con il respiro prolungato e disteso di un processo creativo che ci ha consegnato certamente non opere effimere ma forme espressive a futura memoria. Che è l’ arte, ombra perenne di una vita breve.

Achille Bonito Oliva per “Robinson – la Repubblica”

BIBENDUM E ARTE

BIBENDUM E ARTE

ALZIAMO LIETI I CALICI, MA FRA UNA BEVUTA E L’ALTRA (SEMPRE MODERATAMENTE) ASSAPORIAMO IL PREZIOSO LIQUIDO, SCOPRENDO COME ESSO SI INTRECCIA CON LA STORIA E L’ARTE.

Le allegorie e le leggende legate al bere (vino) e alla sua ritualità sono antiche a numerose.

Il gesto del bere ha in origine valenza sacrale, come testimoniano fonti archivistiche e letterarie, produzione fittile e reperti archeologici, corredi e arredi sacri e profani.

Nelle rappresentazioni murali e fittili il tema del vino, dalla coltivazione alla vendemmia, al consumo nei baccanali o nei simposi, è ricorrente: in skyphos, pelike, crateri, olle, ricorrono frequentemente pampini, tralci di vite, Dioniso ebro, inseguito da baccanti e menadi.

Un piccolo vaso conservato al museo archeologico nazionale di Napoli, risalente alla seconda metà del IV sec. a.c. ha la forma di un vecchio satiro che

Museo archeologico Napoli, satiro

disteso su un fianco regge una coppa sopra la testa, che reca una cavità: gingillo grazioso, di fattura un poco dozzinale, ma tale da dimostrare la diffusione dell’immagine di Dioniso fra i romani antichi.

Di ben altra fattura è il cratere a calice e a figura rosse oggi a Matera, la cui scena principale mostra l’epifania di Dioniso, che imbraccia una lyra. Di fronte a lui  una figura femminile panneggiata, alle spalle la stessa statua del dio, vestito con un lungo chitone, in alto a destra un satiro con due flauti.

La scena ci introduce in una dimensione escatologica del simposio dionisiaco, quella che evocando il canto estatico di Orfeo avvicina i convitati a quella soglia oltre la vita che pare essere lo scopo finale dei simposi.

IL BRONZO E’ LO SPECCHIO DEL VOLTO, IL VINO QUELLO DELLA MENTE (ESCHILO)

Crateri, stamnos, pelike prendono forme diverse, non sempre confacenti alla stretta funzione di contenere o raccogliere vino, ma concedendo agli artisti superfici  adeguate all’apparato iconografico che si fa sempre più complesso di significati e di evocazioni culturali, sia dei miti greci, sia romani.

Nel 1835 in una cassa recuperata a Pompei in quella che passerà poi per la Casa dell’argenteria, insieme ad un cospicuo gruzzolo di monete, vengono restituiti  dodici vasi di argento, finemente  cesellati. Il tema decorativo è chiaramente di derivazione dionisiaca, segno che anche nelle case più ricche, nel I secolo d.c. perseguiva il mito…..

L’iconografia antica ci riserva rappresentazioni di ben altra quotidiana abitudine: si veda l’insegna in tufo dei saccarii (fabbricanti di sacci vinarii) ritrovata a Pompei murata in un pilastro angolare di una casa.

Oppure la scena di cantina, in questo caso si tratta di un calco di gesso alabastrino, conservato al museo della Civiltà Romana, in cui un personaggio si rivolge ad un altro che trasporta sulle spalle un’anfora di vino, da accatastare ad altre sei già ordinatamente sistemate. Operosità e fatica……

Nello stesso museo possiamo vedere un altro calco che rappresenta una banco per la mescita del vino, con la brocche di diverse misure appese, un acquirente che raccoglie il vino richiesto sotto il bancone da una sorta di imbuto.

Un posto singolare, in questa rapida carrellata di curiosità iconografiche, è occupato dal rhyton del I sec. d.c. in argilla color crema, vernice rossastra, rinvenuto a Pompei. E’ una ceramica dalla curiosa forma di gallo, usata per contenere e versare liquidi, probabilmente vino. La fattura è accurata, sapientemente stilizzata.

Ma la rappresentazione artistica giustamente famosa, capolavoro dell’arte greca, di cui è giunta a noi la copia romana, oggi conservata ai musei Capitolini, è una statua della vecchia ubriaca

Opera di grande realismo rappresenta una vecchia che stringe un otre di vino, la testa rovesciata all’indietro, lo sguardo perso nel vuoto, la bocca aperta, è la esatta rappresentazione degli effetti negativi dell’eccesso di vino e della proibizioni romana di concedere vino alle donne.

Altra possente opera in marmo bianco, attualmente a Firenze, museo archeologico nazionale, che riprende un originale greco in bronzo del periodo tardo ellenistico, è Satiro con Dioniso bambino..

Non poteva mancare la rappresentazione dell’uva in quella che possiamo definire una delle prime nature morte dipinte. E’ quella che appare sull’ intonaco di una casa di Ercolano, con uva, fichi, pesche, melograni.

Nonostante il tempo trascorso e lo stingersi delle tinte, ancora si indovina che l’uva è quella con gli acini rosa, mentre un grappolo è indiscutibilmente di uva regina.

Si doveva aspettare il Caravaggio con la sua cesta di frutta, ora alla Pinacoteca Ambrosiana, perché il tema ritorni nelle abitudini pittoriche.

Caravaggio: Bacco adolescente

Come Caravaggio, ai suoi tempi tristo personaggio per gli sbirri a varie latitudini, tutti i grandi pittori sono frequentatori di bettole, ubriaconi essi stessi, quindi in grado di rappresentare gli effetti del bere in maniera realistica e … pittoresca, come si dice.

C’è disprezzo sociale nella rappresentazione dell’ubriachezza contadina, il vino è un  male oscuro che si confonde con la povertà e l’ignoranza. L’alcool non è più simbolo di status sociale, ma di depravazione.

Lo scopo edificante, l’intento moralistico, i soggetti immutati della tradizione, fanno a volte di queste tele opere spente e opache.

Simbolo del male oscuro è ancora una volta Dioniso, che rimane per lunghi secoli il soggetto preferito anche per i pittori.

Rubens: Due satiri

Come non ricordare I satiri di Pieter Paul Rubens, una tela del 1616 in cui in primo piano, recando in mano un grappolo d’uva, un satiro ci guarda inquietante, quasi minaccioso. Oppure il Baccanale di Tiziano, un dipinto del 1518 che descrive la festa per l’arrivo di Dioniso sull’isola di Andros. All’interno del paesaggio classicheggiante spiccano donne nude, discinte, abbandonate all’ebrezza del vino, prive di freni inibitori, forse un ricordo delle remore antiche circa gli effetti del vino sulle donne.

Tiziano: Baccanale degli Andrii

Le tentazioni del gusto che fanno perdere la testa, di Brueghel; le basse e contorte scene di ubriachezza, di Scheyndel; l’ebrezza e lo smarrimento della mezzana nella taverna nel quadro di Jan Vermeer van Delft, descrivono tutte lo stesso equivoco rapporto fra virtù e vino, fra misura ed eccesso, fra ritegno misurato e abbandono senza freni.

Ma non è sempre così, scoperte le nuove terre americane e allentato il morso della controriforma, il clima cambia, nuovi cibi vengono a tavola, sapori sconosciuti. 

Se il buon vino rende l’uomo migliore, la sua rappresentazione iconografica ne conferma il valore come volontà di affermare, fissare una volta per tutte nell’immortalità dell’arte, l’entropia naturale contro i disordine dionisiaco. Dioniso è infatti ambivalente, perché è il dio dell’ebrezza e della follia, oltraggio alla regola e alla ragione e nello stesso tempo dio della terra, del lavoro, dell’ordine.

Questo spiega perché Dioniso venne considerato nell’antichità anche il protettore dell’arte e il dio dell’ispirazione.

Ma, al di là delle attribuzioni di questo dio passe-partout, una certa affinità fra vino o liquore e pittura la troviamo agevolmente, tanto numerosi sono i punti di incontro.

Come il pittore anche il vignaiolo ha la sua tavolozza: mescola, dosa e trasforma una materia prima, osservando le leggi naturali che presiedono alla fermentazione. Allo stesso modo fa il pittore, parte dalla materia prima dei colori fondamentali, li mescola ottenendone altri, li accosta sulla tela ottenendo un altro effetto ancora, rispettando le leggi della rifrazione, del chiaro scuro, della.luminosità.

Così come la pittura coinvolge tutti i sensi, lo stesso succede per il vino e il liquore: la mano che afferra il bicchiere, i riflessi luminosi trasparenti o ambrati, il sottile perlage, i sentori inebrianti, in un gioco che come una metamorfosi tutto trasforma.

Come per la pittura, in cui il quadro non è la semplice sommatoria di tela, disegno e pigmenti colorati, anche per il vino, la somma dei componenti chimici non fanno il liquido che beviamo: in entrambi c’è qualche cosa in più. Prova ne sia che dalla stessa uva si possono ottenere vini assai differenti fra di loro.

Quel qualcosa in più è la maestria, l’arte inimitabile e personale, di combinare tutti gli elementi a disposizione con perizia, originalità, passione.

Come la pittura anche il vino è un dosaggio equilibrato, la ricerca di una perfezione e di una misura di svariati fattori, che quando si trasformano in capolavori, trascendono della loro natura materiale per assumere un significato più profondo, spirituale, che attraverso i sensi, parlano all’anima.

Ecco perché nell’arte è così frequente il riferimento al vino, alla birra e ai liquori, in ogni latitudine e in ogni tempo.  

L’ambivalenza del rapporto arte-vino, e più in generale bevanda alcoolica, permette agli artisti di fissare scene della storia del vino dalla vendemmia alla mescita in osteria, scene di festa, nozze, giuochi, narrandone i personaggi, i miti e la magia, il ruolo sociale, a volte con intenti moralistici o edificanti.

 Abbiamo già visto come i pampini e i grappoli d’uva ben presto diventano simboli religiosi. Fin nei mosaici cristiani del IV sec. il vino ha un chiaro significato mistico: riferito al Vecchio Testamento esso è prevalentemente simbolo di lussuria, dissolutezza, impudicizia. L ‘episodio di Lot e le figlie ha continuato a ispirare gli artisti per secoli, fino a tutto l’800.

Un artista, come il manierista francese Jat Massys a metà del ‘500 ci regala un quadro a metà fra il naturalismo fiammingo e aderenza iconografica, sgravato da eccessivi sensi di colpa, incentrato sulla luminosa carnagione delle figlie e i loro gesti lievi e scherzosi.

Lot e le sue figlie

Nel Nuovo Testamento, il vino assume un significato simbolico positivo, tanto che possiamo dire che accompagna Cristo nel suo cammino, dalle Nozze di Cana all’Ultima Cena.

Giotto, nozze di Cana

Il vino occupa la scena storica, comparendo nei banchetti e nelle feste allestiti dai re per festeggiare guerre vinte o matrimoni dinastici. Oppure ai tempi degli eroici empiti rivoluzionari francesi, serve magari per scogliere la paura di parecchi coscritti, come ci documenta il quadro di Louis-Leopold Boylle (1808)-

L’arte del vinificare ha trovato devoti illustratori, come l’anonimo artista che nel 1618 assiste e rappresenta l’arte dei bottai veneziani, riproducendone le botti, ancora con i cerchi in legno.

Né poteva mancare il pittore della vita contadina per antonomasia: qual Jean-Francois Millet che, oltre alle scene agresti, ha ben rappresentato il lavoro del bottaio, intento a assestare qualche buon colpo per sigillare le doghe. 

Così non mancano le nozze contadine, congiunte alle piccole opere campestri, come nel quadro Nozze al villaggio di Francois-Louis Watteau.

Le botti stesse diventano il soggetto del quadro, come nel caso di Hans Weiditz, che nel 1530 rappresenta la verifica ufficiale delle botti, che le autorità facevano per evitare, ahimè, un vizio antico: le frodi sul vino.

La rinascita della natura morta, specie nella pittura nordica del ‘700’800, non poteva trascurare l’uva e il vino. Qui il vino è un punto fermo, un mezzo di meditazione, il simbolo di una vita lenta, di una vecchiaia tranquilla.

La borghesia non esita a farsi riprendere con il vino, in presa diretta e senza effetti speciali, diremmo noi oggi.

Non serve più essere rappresentati nel quadro travestiti, con qualche chilo o ruga in meno, in ritratti mitologici che testimoniano scarsa aderenza psicologica e culturale fra la persona ritratta e quel mondo lontano, come aveva fatto (un secolo prima?) una certa signorina Prevost, in un quadro del francese Jean Raoux, trasformandosi da oscura ballerina quale era a baccante leggiadra.

Jean Raoux

Il borghese, commerciante agiato e cittadino autorevole, appare col bicchiere in mano, quasi che il vino buono testimoniasse esso stesso delle bontà del lavoro e il valore delle opere morali del bevitore, necessariamente sobrio, come sobria e misurata è la pittura.

Il vino borghese, quello della ville lumiere, dell’Expo diventa il simbolo dello scambio commerciale  se proprio della comunione.

Ora i pittori mettono il vino al centro del quadro. Ben illuminato in brocche o bottiglie, emana un riflesso che induce al buon umore, alla cordialità, alla conversazione brillante, se non raffinata.

E’ il tempo oramai dei bistrot, dei caffe chantant, Van Gogh ha pronto il suo Caffè Alcatraz, il suo biliardo dai colori violenti, il sinistro bagliore della lampada, mentre Paul Cézanne nella partita a carte fra due avventori pone la bottiglia al centro, quasi fosse un arbitro. Le cave fumose da dove inizia la sua strada artistica (Mistinguet) sono oasi di pace nel vorticare metropolitano, hanno il richiamo discreto di ripari dalla vita più che di luoghi da scoprire.

Van Gogh, caffè ad Arles

Il cubismo non sconvolge più di tanto i bevitori, che il senso di plasticità delle forme è un pezzo che l’avevano perso. Né sdoppiare i piani, i punti di vista, alterare le via di fuga, mettere sotto quello che è sopra, scambiare la destra con la sinistra, poteva costituire un problema per persone la cui sobrietà era messa a dura prova ogni giorno.

Paul Cézanne: il bevitore

Forse la sfida più insidiosa ad un solido appoggio concettuale della bottiglia esistenziale è portata dal Futurismo, unico movimento artistico italiano di respiro europeo di inizio ‘900.

Un invito vorticoso, irresistibile, quello di Marinetti, Balla e soci, quasi una incitazione all’uso smodato e senza freni dell’alcool, con in più la giustificazione ideologica e un apparato concettuale rivoluzionario in grado di giustificare, che dico sbandierare, ogni colossale sbornia.

Non è un caso che in Francia, sodale entusiasta del movimento fu subito Apollinaire, letterato, critico, giornalista, donnaiolo e gran bevitore.

Giacomo Balla: Marcia su Roma

Il regime fascista, che era dittatoriale ma non era scemo, capì subito che il vino era la bevanda italica per eccellenza ( Enotria= terra del vino).

Le radici latine eroico romane, il fascio littorio avvolto nei tralci, gli “allegri calici” verdiani, il detto latino in vino veritas (e Lui diceva sempre la Verità, ecc. ecc.) spingono la magniloquente grancassa del regime a fare del vino italico e fascista un vero fatto  di costume, come la Balilla e le vacanze a Riccione.

Due sono i mezzi espressivi usati dal regime: la grafica pubblicitaria e la pittura vera e propria.   

La grafica produce alcuni pezzi che sono ancora oggi fra i più belli di tutti i tempi: Dudovich e Metlicovitz e altri producono per Martini, Campari, Cora, Ruffino.  Vengono ideati packaging e design per Cinzano, Isolabella, Gancia.


Manifesto di Metlicovitz per Campari

Fra i pittori Severini, Mafai, Oriani, Rizzo, Cagnaccio di San Pietro, Muggiani, Franzoni, ognuno col il suo stile, trattano il tema con inventiva e grande resa artistica, nobilitando il soggetto, che per loro rappresenta passione, sensualità, calore, fratellanza.

Ma è Depero il più ispirato: al punto da scrivere un libro intitolato Fisiologia del gusto, nel quale assegna al vino un solo compito: “eccitare la fantasia prima che tentare le labbra”.

Depero

In Quattro bocche assetate, da Liriche radiofoniche del 1934, Depero scrive un vero e proprio inno al vino, con una così intensa vena di lirismo che qualcuno ha parlato di lirismo enologico: “ .. io voglio del vino asciutto … rosso chiaro … con trasparenza di rubino. Accostando il bicchiere alle labbra, un tepore profumato mi deve leggermente inebriare. Al palato deve apparire quieto, scorrevole, dissetante. Nella gola deve scivolare come una cascatella cristallina di pace raccolta e di poesia silenziosa.

Depero

Attraverso i suoi riflessi devo vedere le linea flessuosa del suo profilo sottile di vespa chiaro, sanguinello di fragola filtrata con vene azzurrine di aria purissima prealpina. Vino preparatorio … adolescente .. primaverile che mi dia un senso di bagno interiore, di sana strigliatura ai muscoli e di leggero calore ottimista” (pardon, stavo per scrivere futurista !).

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