È il 1969 Rick Dalton (Leonardo Di Caprio) è la star di una vecchia serie tv western. Nel corso della sua carriera ha interpretato diversi film che lo hanno reso celebre al grande pubblico, quasi sempre nelle vesti dell’antagonista. Lui è il cattivo. Cliff Booth (Brad Pitt), la sua controfigura. Ora la carriera di Dalton sembra essere all’inizio del declino. Vive schiacciato dal peso della paura di essere dimenticato, piange e mescola il dolore alle lacrime che assapora ogni giorno insieme a litri di alcool. Cliff è sempre con lui. Impara a conoscere le sue fragilità. Non è semplicemente il suo “stuntman”, è il suo autista, assistente “tuttofare” e non solo. È il suo unico amico. La casa di Dalton è in Cielo Drive, vicino alla villa del regista Roman Polanski e della bellissima moglie, l’attrice Sharon Tate (Margot Robbie). Due storie diverse, distanti. Per tutta la durata del film narrate in parallelo, come se non vi fosse un filo conduttore. Questo almeno fino alla notte fatidica del 9 agosto di quello stesso anno, quando le due vicende si uniranno nell’epilogo inaspettato di un’unica trama.
C’era una volta a… Hollywood parla di un cinema che non c’è più. Tarantino tende allo spettatore una sorta di “tranello” metalinguistico: il cinema parla di sé stesso, ma lo fa in maniera inaspettata. Il suo sguardo nostalgico non si cela solo nelle fittizie riproposizioni di vecchie pellicole, che passano in maniera intervallata nel corso del film, ma si trova soprattutto nel nucleo narrativo centrale, che ruota intorno alle vite di Rick e Cliff da una parte e Sharon Tate dall’altra, queste raccontate adottando gli schemi linguistici e formali tipici di quel cinema che il regista vuole celebrare. Non vi è la distanza tipica dell’osservatore in Tarantino, ma racconta il cinema del passato, ricreando il cinema di quegli anni.
Nella descrizione dei due protagonisti maschili si racchiude poi la forza e la poetica di questo film. Ci vengono presentati nella loro fragile complessità. Il regista offre un ritratto a tutto tondo, ma mai in maniera scontata, lo affida invece alla sensibilità di chi guarda, sfidando il singolo spettatore a rintracciare ogni sfumatura dei personaggi, andando oltre le prime apparenze. Attraverso un sapiente uso del flash-back delinea i tratti più intimi delle loro esistenze, nascoste dalla facciata della loro quotidianità. È una sorta di puzzle che lo spettatore si trova a comporre seguendo l’evolversi dei due protagonisti nel tempo, insieme allo sviluppo graduale della storia. Niente è come sembra, compiono sempre un gesto che spiazza. Non immagineresti mai gli occhi del duro Cliff farsi lucidi parlando con un vecchio amico. E non penseresti mai che Rick, sempre pronto a piangersi addosso, trovasse il coraggio di agire in una maniera così decisa nel finale del film. Una cosa appare evidente sin dai primi fotogrammi, anche prima di capire cosa accadrà nel film. Loro sono veramente amici anche se non lo dichiarano mai.
C’era una volta a… Hollywood è il film di Tarantino che non ti aspetti. In alcuni momenti lento, come i vecchi film western che vengono ricordati, tutto poggiato sulla storia intima dei protagonisti e sulle loro debolezze. Ogni scena è costruita attraverso una bellezza formale quasi assoluta. In alcuni passaggi commovente. Una vera e propria dichiarazione d’amore che Tarantino lascia al cinema. La sfacciata violenza tipica del regista si fa attendere, quest’opera ci abitua ad un’insolita calma, che viene infranta dalla brutalità delle scene finali, quando il ritmo si fa d’un tratto veloce, forse troppo rispetto al resto del film, in maniera quasi sconcertante. Una violenza fastidiosa perché arriva d’improvviso come pugno in pieno viso. Tutto però è voluto. Ogni cosa in questo film ha un senso ben preciso. Il Male esplode d’improvviso, s’insinua nel lento incedere di una notte come tante in Cielo Drive, distruggendo la tranquillità, che ritorna d’un tratto con la stessa rapidità con la quale sembrava essere scomparsa e viene ripristinata per mano di Dalton e Booth. L’attore e la sua controfigura, ora sullo stesso piano. Ora con i ruoli invertiti. Per la prima volta vediamo un Rick diverso, immediatamente dopo quel sanguinoso trambusto, trovare un’inaspettata tranquillità, racchiusa in quella breve camminata finale, con le mani in tasca, mentre varca nella notte il cancello della villa di Polanski per andare a bere qualcosa a casa dei nuovi vicini.
Recensione di Anna Consarino: Laureata in lettere con una magistrale in Scienze dello spettacolo e della produzione multimediale é docente di Discipline Audiovisive e Multimediali presso il liceo Artistico di Ancona. Da sempre si occupa di cinema e scrittura.
Quando si attraversano i villaggi, le valli e le montagne del Vicino Oriente una invincibile malinconia sembra coglierci di sorpresa: conquista ogni angolo di questo meraviglioso spazio fatto di luci che si diramano dal prisma di un tramonto senza pari. Le voci si dissolvono impastandosi con la sabbia, tanto da placare ogni increspatura di quei suoni gutturali sotto un cielo a noi così vicino, impossibile da contemplare in un qualsiasi altrove di questo mondo. Da sempre, cantori persiani e danzatori sufi avevano lasciato trasparire quanto di spirituale e di temporaneamente effimero risiedesse in quel giardino nella voce (come nell’evocazione del poeta Sohrab Sepehri di uno dei suoi topoi immaginari), in queste magnifiche e indecifrabili parole che rappresentano il luogo d’incanto per eccellenza. Il Kurdistan è un non dove, tragicamente martoriato, tempio di una ipocrisia tutta occidentale che se ne serve spesso come un sepolcro imbiancato, sacrificio di milioni di persone, di un popolo intero storicamente calpestato sotto il ricatto di un silenzioso genocidio.
Il proverbio curdo sulla persecuzione che questo popolo subisce da troppo tempo è emblematico: I curdi non hanno amici se non le montagne. Alla fine dei tanti conflitti, a questo popolo non è stato mai riconosciuto uno spazio geografico, neppure nella disastrosa riscrittura di quei territori con tanto di matita, gomma e righello a portata di mano delle grandi potenze e di qualche signore della guerra locale. La storia dunque si ripete sfavorevolmente con incredibile e drammatica avversione che non ha bisogno più di riconoscimenti sulla capacità a resistere ed esistere dei curdi, bensì necessita di una seria conferenza di pace internazionale che riconosca diritti, identità e residenza. I paesi che raccolgono questi meravigliosi cittadini di un mondo in sospensione, mai vinti né sottomessi, sono la Turchia, l’Iran, l’Iraq e la Siria. Hanno cercato di cancellare la loro storia con il silenzio e troppo spesso con la violenza quando non era possibile tacere. Questi Stati si contraddistinguono come regimi popolati da assassini tipici dei poteri totalitari (religiosi o laici non importa), che propinano a oppositori e semplici cittadini desiderosi di diritti civili, immani torture e morte: fra questi, i curdi sono il nemico privilegiato. Ritenere che sia solo una questione di usurpazione di territori, di confini o di questioni geopolitiche non rende l’idea di quello che veramente accade a questo popolo. In realtà, i curdi sono libertari, democratici, solidali, poeti, è un popolo guidato soprattutto da donne. Di questo forse poco si parla se non quando, con una ciclicità drammatica, viene alla ribalta il tentativo puntuale di genocidio: in pratica, la semplice e definitiva idea di ucciderli tutti una volta per tutte.
La cancellazione è un
processo, un percorso che non è solo delegittimazione di un diritto alla terra,
ma una battaglia senza esclusione di colpi a un modello culturale e sociale
di comunità. Non si parla infatti solo e semplicemente di confini,
paradossalmente, ma soprattutto di una identità particolarmente attiva e
riconoscibile per la intraprendenza tutta al femminile nei processi di crescita
civile, politica e sociale di un popolo. Non a caso, derubricati a
minoranza etnica, ai curdi è stato talvolta impedito di esprimersi con
la loro lingua: uno degli strumenti più raffinati di cancellazione, cioè quello
di sconfiggere la forza evocativa e dunque politica della parola.
Non sono serviti a molto durante i lunghissimi anni i reinsediamenti coercitivi
e le obbligate migrazioni lungo le mulattiere delle montagne più impervie,
ostinazione di quelle genti che dimostrano ai governanti un’altra scomoda
verità: non esistono confini, questo è il punto. Davvero un esempio
quasi demoniaco quello dei curdi, con le donne in trincea con i loro
kalashnikov in pugno e l’idea di uno stato autonomo non necessariamente
limitato in confini fra quattro nazioni in possesso di arsenali, istituzioni,
poteri che tuttavia non riescono a sconfiggerli né a cancellarli.
Ecco che in questo
assurdo tentativo di impedire la parola e il pensiero ancora le donne si
portano sulle barricate, questa volta innalzate con strumenti altrettanto
validi: parole, poesie, canzoni e idee. È il caso, uno dei tanti, della
poetessa Choman Hardi che nasce a Sulaimaniya, nel bel mezzo del Kurdistan
iracheno, nel 1974. La sua poesia è dunque narrazione, racconto delle culture,
delle etnie, dei processi migratori, delle violenze subite, degli olocausti,
delle donne:
Il mio corpo è un fiore.
Perdo petali ogni notte
e il materasso diventa un letto di rose – nere,
rosso-ciliegia, rosa e oro. Di giorno lavo
gli asciugamani, ricordo il bambino nato morto dopo i gas.
Che non si parli
più, mai più, di terroristi, mentre la guerra incombe al fine di
rileggere, frammentare, scomporre e falsificare le verità di un popolo da
sempre in cammino e in lotta. La morte si scaglia contro sodati, meglio
definirli combattenti, donne e uomini e bambini in una spirale di odio che non
sconfiggerà mai né la testimonianza di una presenza, né di una parola: curdo.
Che cosa resta per testimoniare se non la poesia fattasi racconto e prosa,
visione del domani che vive solo nella trasmissione del messaggio di pace e
solidarietà fra popoli in marcia. Per questo, i cosiddetti potenti di quelle
terre hanno paura e disagio quando sentono parlare di poesia, di canto, di
narrazione, quando non sanno come combattere questa assurda arma senza sostanza
né materia:
Nelle sere d’autunno quando ci riunivano
accanto al fuoco
le mani di mia madre odoravano di arance.
Era il frutto preferito di mio padre,
anche se era sempre lei a doverlo sbucciare.
Le donne curde sono coraggiose. Vivono con determinazione il loro status, certo nel disagio di chi deve affrontare un doppio sforzo: quello di affermare la propria identità dal rischio verosimile di estinzione e la lotta secolare derivata dal rapporto penalizzante di genere in un ambiente assolutamente maschilista e sessista come quello mediorientale. Vittime dello stupro sistematico compiuto dalle truppe di occupazione e della falsa pubblicità di essere donne in qualche modo utilizzate come militanti asservite alla guerra (così connotante la forza del maschio predominante), queste eroine incarnano le migliori intelligenze che non meritano definizioni sbrigative e superficiali soprattutto in Occidente. I regimi dunque sono anche e soprattutto istituzioni maschili in quelle aree che impongono la regola, lo schema, la gerarchia, la struttura, il potere con le sue valenze verticistiche e coercitive.
Le donne curde rappresentano la massima opposizione ed esposizione alla critica, alla rilettura, allo scardinamento dell’autorità. L’azione diretta delle donne curde dunque, destabilizza l’idea del così è sempre stato e riduce gli spazi di agibilità dell’uomo a cui, in definitiva, bisogna preparare il pranzo. La riconquista dell’identità non è solo un fattore territoriale ma è culturale e linguistico, una sfida incondizionata in ogni espressione, in trincea e in letteratura, a casa e in comunità. Le donne curde sanno bene che con lo studio e la letteratura il patrimonio del loro contributo non andrà mai perso, nelle continue riletture della storia, nei revisionismi sempre dietro l’angolo. Per loro, ancor di più che nella normalità dei casi, la poesia assolve al suo ruolo con pienezza d’intenti, rappresenta l’esplorazione delle problematiche di ieri e soprattutto dell’oggi con una riflessione sulla sessualità, sui sentimenti, sui ruoli e sulle barriere immaginate e costruite con cosciente oppressione patriarcale. Nelle poesie di Choman Hardi, le sue ultime della raccolta La crudeltà ci colse di sorpresa, è chiaro l’intento di testimoniare e rilanciare una lotta senza quartiere al pregiudizio e alla prevaricazione di forme anche raffinate di razzismo e sessismo. Sorprende l’intensità del linguaggio nella narrazione della guerra con i suoi fini discriminatori che aggiunge diseguaglianza ad altra diseguaglianza, quando non medita addirittura la negazione assoluta del nemico da ricercare in qualsiasi essere umano che possa ricondurre a una rivendicazione di libertà. Per Choman Hardi, la poesia è la storia del suo popolo e niente potrà negare questa assoluta verità-testimonianza:
Ho preso strade sterrate, dissestate
verso villaggi pieni di fantasmi perduti
per ascoltare donne sconosciute
raccontare come tutto era accaduto,
perché continua. Non hai capito
perché tornavo sempre a polvere e distruzione,
a quei cuori spezzati che mi straziavano il cuore.
Eri stufo di vittime,
hai detto, stufo di me perché
non riuscivo a essere felice.
C’è dolore e sofferenza
ma anche consapevolezza che la vita inesorabilmente deve essere migliorata
attraverso la lotta, nonostante i lutti e le ingiustizie, i silenzi e le omertà
di un mondo che si gira dall’altra parte. La memoria del passato, mai
come in Kurdistan, è oggi testimonianza del presente: un poema, una lirica, un
racconto sono parte integrante dell’agire nella società e trasmissione di
valori. Ci si rende conto quanto la poesia sia uno strumento
invincibile, perenne e permanente nella mente delle persone. Non a caso fin dal
Medioevo le valli e le montagne così care ai curdi furono permeate da musiche e
canzoni grazie al contributo dei Dengbêj, cantori simili agli aedi della
Grecia antica. In un mondo prevalentemente rurale, i contadini e nomadi curdi
condividevano con la natura ogni cosa e cantavano gioie e dolori di una vita
aspra ma non priva di vitale felicità. I compositori anonimi durante le feste e
le cerimonie nuziali per giorni interi si dedicavano alla composizione di
canti. Molti erano analfabeti, alcuni provenienti dalle comunità cristiane,
altri addirittura gitani, si scambiavano in questo convivere pacifico un vasto
repertorio di canti d’amore, narrazioni di epopee e meravigliose melopee. La
poesia orale curda fu anche poesia al femminile, generalmente anonima anche se
riconducibile a una sua elettiva fama nelle corti principesche del Kurdistan.
Di questa grande
tradizione letteraria Choman Hardi ne è pienamente consapevole, rassicura il
domani con le sue parole essenziali e ben conservate nella certezza che ognuna
di esse contiene la sua carica di valori nella lotta per la libertà e
l’uguaglianza. Le parole sopravvivono alle pallottole, alla violenza, al
razzismo e torneranno a rivivere quando sarà necessario:
Avvolgi la tua lingua tra stoffe di seta
ogni parola separata dall’altra
per non farle scontrare, graffiare.
Non dimenticare le parole che non usi mai,
col passare degli anni i dettagli svaniscono
e potrai averne bisogno.
Francisco Soriano nasce a Caracas nel 1965. Attualmente, vive a Ravenna e svolge la sua attività di docente. È stato insegnante e dirigente scolastico per diversi anni nella Scuola Italiana di Teheran, “Pietro della Valle”, occupandosi di inclusione e didattica dell’italiano a stranieri. Ha pubblicato numerosi saggi storici e raccolte di poesie tradotte in persiano. Attualmente scrive articoli di letteratura e si occupa di problematiche concernenti diritti umani e di genere per la rivista https://www.argonline.it da cui l’articolo è tratto.
Lei si sente donna Vittoria, come la chiamavano i giornali, o la signora Leone?
«Per me non ha mai fatto differenza. La mia vita privata ha sempre coinciso con quella pubblica di mio marito. Avevo 28 anni quando divenne presidente della Camera, 36 quando fece per la prima volta il presidente del Consiglio, 44 quando fu eletto capo dello Stato. Ora non ci sento così bene come prima; e mi piace pensare di essere chiamata semplicemente Vittoria dalle persone più vicine».
Qual è il suo primo ricordo?
«La mia bicicletta Wolsit di Legnano. Andavamo a scuola a piedi o in bici, con qualsiasi tempo. Mio padre, medico, aveva una macchina; ma non veniva messa a disposizione dei bambini. Allora non si cresceva viziati. Avevo anche un cane. Mi morse, ma non lo dissi: temevo che lo punissero. Ero sicura di aver preso la rabbia, la notte pregavo di morire in fretta».
Come finì?
«Feci la cura antirabbica».
La sua famiglia è di origine inglese?
«Un trisavolo, Andrea Graefer, architetto botanico, fu chiamato dai Borbone per progettare i giardini inglesi della reggia, che ancora oggi portano il suo nome. Si innamorò di una casertana. La mia famiglia viene da lì».
Quando ha visto per la prima volta l’ uomo che sarebbe diventato suo marito?
«Giovanni venne a casa nostra con mio fratello Luigi. La guerra era appena finita. Era professore universitario, e tenente colonnello alla procura militare di Napoli: aveva liberato tutti i prigionieri per sottrarli alla vendetta nazista, poi era scappato travestito da prete. Mio fratello era tenente. Divennero amici. Così me lo vidi comparire a casa».
È vero, come ha scritto Vittorio Gorresio, che si offrì di raccomandarla per l’ esame di maturità?
«È vero, e io pensai: ma che invadenza! Alla fine l’ esame non lo diedi. Mi sposai prima, il giorno del mio diciottesimo compleanno».
Lo sa cosa viene da pensare nel vedere le vostre fotografie? Lei era bellissima; lui no. E aveva vent’ anni di più. Com’ è potuto nascere il vostro amore?
«Me lo sono chiesto anch’ io. Non esistono spiegazioni razionali. Accadde. Certo lui mi aveva affascinato con fiumi incessanti di parole. Mi aveva stordito con la sua testa».
Cosa l’ ha colpita di Giovanni Leone?
«Un carattere fuori dagli schemi, un’ immensa cultura, una rara capacità di ragionare e convincere. E un grande senso dell’ umorismo. Era molto curioso, di mente aperta, di una lungimiranza fuori dal comune, di un’ umanità straordinaria. Non mi dette il tempo di capire quello che stava succedendo, ed eravamo già sposati».
Com’ era la vita quotidiana al suo fianco? È vero che lui di notte leggeva, mangiava, accendeva e spegneva la luce di continuo?
«Giovanni ha sempre sofferto di insonnia. Libri e discorsi li scriveva di notte. Era il terrore delle dattilografe che dovevano trascrivere blocchi interi partoriti nottetempo. A un certo punto abbiamo deciso di dormire in stanze separate, ma comunicanti. Non era facile reggere i suoi ritmi forsennati. Amava stare in compagnia, spesso mi trovavo ospiti a casa senza preavviso. Una cosa è certa: con lui non ci si poteva annoiare».
Leone era presidente del Consiglio quando incontraste Kennedy. Che impressione le fece?
J«Volendomi fare un complimento galante, mi disse, in inglese: “Ora capisco il successo di suo marito”. Risposi che all’ evidenza gli sfuggivano le doti di Giovanni».
JIn sostanza, ci provò…
«Ma no, voleva essere simpatico. Era una persona affascinante, nello stesso tempo educata e concreta. Adorava Napoli, dove fu accolto da due milioni di persone. Ho ancora la lettera che scrisse a Giovanni. Vuole vederla? Guardi qui in fondo. Kennedy scrisse “Viva Napoli” di suo pugno. È datata luglio 1963. Gli restavano quattro mesi».
E Jackie?
«Bella. Elegante. Altera».
Fanfani e Moro: i cavalli di razza democristiani. Chi erano veramente?
«Moro era molto legato a mio marito, era stato suo assistente di diritto penale all’ università di Bari. Il destino li volle entrambi candidati della Dc al Quirinale: votarono i gruppi parlamentari; Giovanni vinse per otto voti, e Aldo fu leale, non armò i soliti franchi tiratori».
Com’ era Moro?
«Un uomo triste. Veniva a trovarci nella nostra casa di Roccaraso, si sedeva, e stava zitto.
Non parlava quasi mai, ma quando parlava non smetteva più; e non si capiva niente. Avevamo un barboncino nero e l’ avevamo chiamato Moro. Suonarono alla porta e lui si agitò, io lo rimproverai: “Moro piantala, Moro stai buono!”. Poi andai ad aprire: era Moro, quello vero. Ci era rimasto malissimo».
Come ricorda i giorni del suo rapimento?
«Mio marito è l’ unico democristiano che Moro non abbia maledetto nelle sue lettere.
Fece disperatamente e inutilmente di tutto per farlo liberare. Ma avemmo la sensazione che fosse un destino segnato».
Perché dice così?
I«Arrivò una lettera anonima, indirizzata a me, che segnalava il covo brigatista. La portai al ministero dell’ Interno. La ignorarono.
Quando la chiesi indietro, mi dissero che era sparita. E le Br lo uccisero poche ore prima che Giovanni firmasse la grazia per una terrorista malata che non aveva sparso sangue, Paola Besuschio».
Anche Fanfani era per la trattativa.
«Fanfani era uomo di partito, oltre che delle istituzioni, mentre mio marito incarichi di partito non ne volle mai, per non trovarsi a gestire troppi compromessi e giochi di potere.
Questo talvolta li allontanava, nonostante avessero un ottimo rapporto personale. Io ero molto amica di sua moglie Biancarosa, che scomparve prematuramente. Poi lo sono stata di Mariapia».
Su cosa Leone e Fanfani si trovarono lontani?
«Il referendum sul divorzio. Lo scontro fu duro e lungo. Fanfani lo volle a tutti i costi.
Giovanni era contrario: “Servirà solo a sancire che siamo minoranza” diceva. E questo non lo fece amare da Papa Montini».
Che opinione si è fatta di Andreotti?
«L’ ho sempre considerato un amico di famiglia. Adorava giocare a carte con me e alcuni amici comuni. Giovanni condivideva la sua apertura a Mosca e al Medio Oriente. Lo considerava un grande politico che, a dispetto di quel che si crede, alternava all’ astuzia anche momenti di ingenuità».
Ingenuo, Andreotti?
«A volte si fidava troppo degli altri».
Come ricorda i leader che incontrò? Ford, lo Scià, Pompidou…
«Pompidou e la moglie erano due persone straordinarie: lei simpatica e cordiale, lui statista con una visione. Ford era una persona schiva e sincera, però la sensazione era che comandasse Kissinger: uomo brillante, di apparente bonomia, ma dagli occhi cattivi. Anche al Cremlino si faceva notare di più Gromyko, che parlava un ottimo inglese, che non Breznev, uomo timido, introverso. Lo Scià era un leader illuminato ma taciturno: sapeva molte lingue e non ne parlava nessuna».
Franco lo incontrò mai? E Peron?
«Franco mai. Ho un bel ricordo di Juan Carlos, che conversava amabilmente in un ottimo italiano. Peron venne con Isabelita e propose che il nostro governo comprasse un pezzo di Argentina, per risanare il loro debito pubblico. Mio marito e io ci guardammo imbarazzati; poi lui con le sue doti diplomatiche sbrogliò la situazione».
E tra le mogli chi la colpì di più? Farah Diba?
«Una donna dolcissima e intelligente. A Teheran parlammo in inglese a lungo e ci trovammo d’ accordo su molte cose, dall’ educazione dei figli alla moda. Volle sapere chi era il mio stilista. Quando le dissi Valentino, non si stupì: sapeva riconoscere l’ eleganza. Erano gli anni in cui mi definivano l’ ambasciatrice della moda italiana nel mondo, ne ero così orgogliosa… Mi colpì molto anche la regina Fabiola. Lei e Baldovino erano visceralmente legati al loro popolo».
La regina Elisabetta era ancora giovane.
«La prima volta che la incontrai aveva 35 anni, mio marito era presidente della Camera. I nostri figli avevano una governante inglese, miss Bertha. Elisabetta la volle conoscere. Miss Bertha svenne in avanti per l’ emozione. Ci spaventammo».
E la regina?
«Imperturbabile».
Con suo marito andaste da padre Pio.
«Non amava i politici e ci trattò con durezza. Però mi diede tre rosari: “Per i suoi figli”. “Ma io ne ho solo due, Mauro e Paolo”. “Ne prenda tre” disse. L’ anno dopo nacque Giancarlo».
Lei è considerata la prima e ultima first-lady italiana. Perché siamo allergici a questo ruolo?
«La prima fu Ida Einaudi. Si affezionò molto a me. Anche troppo, voleva sempre che la accompagnassi… Saragat, presidente prima di Giovanni, era vedovo. Gli altri predecessori erano molto più anziani. Il Paese non era abituato a vedere al Quirinale una famiglia al completo, con moglie giovane e figli piccoli.
Del resto, né Mussolini né i Savoia hanno evidenziato figure femminili accanto a loro, per scelta. Veniamo da un passato maschilista. E restiamo il Paese dove la maldicenza primeggia e il rispetto delle istituzioni è dote rara».
Da sinistra foste accusati di aver trasformato il Quirinale in una reggia. Poi venne il libro della Cederna. Cosa provò nel leggerlo?
«Ero troppo impegnata a sostenere mio marito per avere il tempo di metabolizzare quelle ingiurie. Eravamo una famiglia normale, che conduceva una vita normale in un contesto eccezionale. La campagna denigratoria del gruppo Espresso e il libro della Cederna furono palesemente un’ orchestrazione per colpire il cuore dello Stato, il cui presidente veniva dalla Democrazia cristiana, e un’ ambigua operazione anche commerciale, per accreditarsi come la vera controinformazione. La fonte principale della Cederna era OP di Mino Pecorelli, agenzia ricattatoria e legata ai servizi segreti deviati e ai poteri occulti dell’ epoca. La maldicenza trovò terreno fertile anche nel Pci e nei radicali».
Un capitolo era intitolato «I tre monelli»: i suoi figli. Come reagì?
«I tre monelli era il nome della nostra casa di Roccaraso. Neanche i ragazzi, nonostante fossero giovanissimi, furono risparmiati dalle diffamazioni della Cederna: talmente ridicole da non poter essere prese sul serio. E così fu. Io però capii che si stava aprendo una voragine nel nostro Paese: in nome della faziosità e di interessi di varia natura, nessuno sarebbe stato più risparmiato».
Chi costrinse suo marito a lasciare, i democristiani o i comunisti? Leone era un intralcio sulla via del compromesso storico?
«Lo scopo era favorire un cambio nella gestione del Paese a favore della sinistra, spostando il baricentro democristiano. Alla campagna si unirono altri soggetti interessati: la P2, già in azione ma ancora ignota ai più; politici e ministri Dc in odore di corruzione; membri del governo contrari all’ apertura di mio marito per salvare Moro. Quell’ immenso polverone riuscì per un po’ a distrarre l’ opinione pubblica dai veri scandali, destinati comunque a esplodere. Leone si dimise perché la Dc non lo difendeva dagli attacchi interessati del Pci. Proprio quella Dc che qualche mese prima lo aveva implorato di non dimettersi come lui avrebbe voluto, per potersi difendere meglio. Tutto cambiò con la terribile morte di Moro».
Perché?
«Quella tragedia, che si poteva evitare se gli avessero lasciato firmare la grazia, spinse Dc e Pci a forzare un ricambio, una ripartenza scioccante, fornendo al Paese un capro espiatorio. Così uccisero anche Giovanni Leone, psicologicamente e umanamente».
Lei provò a convincerlo a non dimettersi?
«Non dovevo, perché lui era determinato da tempo a lasciare. Voleva farlo già nel 1975, quando il suo messaggio alle Camere rimase ignorato. La politica gli chiese di restare e lui, galantuomo fino in fondo, aderì fino a quando la politica gli chiese il passo indietro. In questo dimostrò di essere molto diverso dal suo partito, per correttezza e onestà. Come quando disse no a Togliatti…».
Togliatti?
«Quando Giovanni era presidente della Camera, il leader comunista gli disse riservatamente che avrebbe fatto convergere voti del Pci su di lui per il Quirinale, se avesse preso tempo prima di indire una nuova votazione. Lui declinò l’ offerta, e convocò subito la votazione che elesse Segni. Quanti altri politici si sarebbero comportati così?».
È vero che cadde in depressione?
«Era amato e popolare; una campagna infondata lo precipitò nel mondo che aveva sempre combattuto, quello dell’ illegalità e del sospetto. Fu come essere colpito da un fulmine.
Non era preparato, non poteva esserlo. Non aveva gli strumenti di difesa tipici dei corrotti, che sono sempre pronti a tutto. Lui era del tutto indifeso. Sì, cadde in una depressione da cui non si riprese più. Gli sono stata accanto per altri 23 anni, e con me i figli. Ma non era più lui. Era la testimonianza vivente e dolente del sacrificio di una persona troppo perbene».
Però lei conosceva il dolore. Aveva perso un figlio, Giulio, a 5 anni, per la difterite.
«Dopo aver visto la guerra, la morte di Giulio, la malattia di Mauro, che da piccolo fu colpito dalla poliomelite, non potevo impressionarmi di fronte alla meschinità e alla falsità. Per il nostro bambino, Giovanni scrisse allora un libro per pochi, Dialoghi con Giulio . Non riesco a rileggerlo perché ancora oggi mi commuove. Penso a lui sempre. Era di una dolcezza senza confini».
Come si comportò con voi il successore, Pertini?
«Rapporti formali. Giovanni non se ne meravigliò. Lo conosceva troppo bene».
Molti anni dopo i radicali chiesero scusa.
«Ne fui sorpresa. Mi ero fatta un’ idea molto diversa di Pannella. Con la Bonino fece un atto di onestà intellettuale, scusandosi per le accuse ingiuste di anni prima. Mi commossi: Giovanni lo meritava. Il Pci invece non si è mai scusato. Anche se Napolitano da presidente ebbe parole durissime contro quella campagna».
Suo marito però fu al centro di altre polemiche: dalla difesa della Sade nel processo sul Vajont, alla famosa foto delle corna agli studenti di Pisa.
«Da avvocato ha sempre sostenuto le cause giuste. La difesa della Sade non andava contro le vittime; serviva per stabilire la verità dei fatti. Lasciò presto l’ incarico per impegni istituzionali. Da penalista amava difendere i più deboli, gratis. Quel gesto delle corna fu istintivo: era il suo modo di rispondere ai contestatori violenti che gli urlavano “a morte Leone!”. Apparteneva al suo spirito napoletano. Anche in questo non era un politico di professione; era un grande giurista prestato alla politica».
Lei come immagina l’ aldilà?
«Sono credente, ma proprio per questo vivo incertezze che tengo per me. Nella nostra cappella di famiglia a Napoli è scolpita una frase di san Paolo: Vita mutatur, non tollitur ».
Si era ritirato dopo
una vita laboriosa…. I puntini sospensivi sottointendono una frase davvero
conclusiva, ma che per pudore non si dice e che, quindi, non si scrive: in attesa della morte.
C’è modo e modo di ritirarsi. Solitamente in campagna,
meglio al mare o sulla riva di un lago. Si torna anche al paese lasciato da
giovani, pieni di slancio e speranze, senza nemmeno voltarsi, i rimpianti
semmai verranno dopo. Questi luoghi attraggono non di per sé stessi, ma per il
peso che conservano nella nostra memoria, i ricordi confusi, le voci o i passi
che sembrano ancora echeggiarvi. O ancora, per i profumi della campagna al
mattino, l’ombrosa frescura della sera, il bagliore di un corpo o un profilo lontano.
Per alcuni, il ritiro giunge alla fine di una vita modesta.
Consiste in una inerte contemplazione. Dietro i vetri i giorni si sfilacciano
sempre uguali, fra lente passeggiate, qualche fugace visita. Per altri, orfani
di una notorietà effimera o reduci da una vita di comando e di riveriti agi, la
vita pare frantumarsi. Chiami col solito nome cose che sono irrimediabilmente
diverse: gli stessi abiti, identici i riti, le stesse recite ma tramutate in
apparenza. In questo mondo ovattato tutto è incerto, privo di significato, avulso
a tal punto che senti che verrà spazzato via. Una vita
sotto la cenere, che ha smarrito la sua essenza, direbbe Piero Chiara.
Piero Chiara, lo scrittore di Luino, del ritiro ne ha fatto
un punto di ispirazione. I suoi personaggi sono per lo più ex industriali, in
odore di fascismo o di massoneria, o commercianti che si sono arricchiti
trafficando non si sa in che cosa, qualche alto ex-funzionario che ancora
conserva una certa protervia. Attorno alle loro vite, uscite dal loro alveo per
spiaggiarsi, si radunano figure improbabili, incerte, di oscura provenienza e
senza destino. Piccolo universo provinciale che Chiara descrive con un’arguzia
e un umorismo lieve quanto efficace.
Il senso di precarietà, la fugacità del momento, la follia
dell’esistere, rendono malinconiche le sue pagine. E tale appare, al di là dei
modi, il ritiro. Un’ultima tappa, che la calma lacustre, o il salso, o le
vecchie mura di casa non rendono meno amara.
The Economy of Francesco, questo il nome dell’evento destinato probabilmente a cambiare la storia del XXI secolo. Esageruma nen! si dice sotto le Alpi, e così esclamerebbe la moltitudine che, travolta dalla routine, non riesce più a distinguere le poche novità nel tormentato coacervo di trasformazioni verso obiettivi sempre nebulosi.
L’idea è venuta a Papa Francesco: organizzare un grande
incontro ad Assisi fra giovani economisti e imprenditori “under 35” per progettare
insieme una nuova economia. L’appuntamento è previsto dal 26 al 28 marzo
prossimo (segnatevelo in calendario), e ha già avuto adesioni da tutto il
mondo.
Fra gli altri, Muhammad Yunus, famoso per avere creato in
India il microrisparmio che non registra NPL, premio Nobel economia, il quale afferma che
“la povertà non è creata dai più poveri, la povertà è creata dal sistema
economico che abbiamo costruito”; Jeffrey Sachs, economista della Columbia
University che dichiara: “Il lavoro di Assisi sarà rivoluzionario, stimolante
per tutto il mondo e costruttivo per le future generazioni”; Stefano Zamagni dell’Accademia Pontificia
della Scienza, Brunello Cucinelli, imprenditore, Luigino Bruni, economista
università Lamsa che sottolinea: “Assisi è destinata a diventare la capitale di
un pensiero economico diverso”. Poi Vandava Shiva, Bruno Frey, Tony Meloto,
Kate Raworth.
Carlo Marroni sul Sole 24 Ore la definisce la Davos francescana,
ma l’idea di Bergoglio, il taglio dell’iniziativa e le sue finalità, sembrano
del tutto opposte. Altro che Davos, semmai una anti-Davos.
Alla stanca dottrina economica dell’800/ 900, ad un
liberismo che sembra avere perso la bussola del bene comune (se mai l’ha
avuta), l’assise contrappone non tanto un cambio di passo, come titola il
giornale, ma un deciso cambio di direzione. Ecco perché il summit può essere
importante e rappresentare una svolta, un nuovo, elettrizzante inizio di
portata epocale.
Opportunamente, l’articolo di Marroni riporta stralci dei
documenti o discorsi papali. Basta leggerli per avere l’idea dei principali
argomenti che saranno trattati e del fatto che una lettura coraggiosa e
innovativa di essi, sotto la spinta ideale delle nuove generazioni, potrà
costituire la premessa sotto la quale il vecchio mondo economico è destinato ad
un rapido e doloroso tramonto.
E’ una affascinante coincidenza nelle pagine del libro della
storia che, laddove l’economia di mercato è nata e a mosso i primi passi,
grazie ai seguaci di San Francesco, essa ora ritorni per rifondarsi su nuove
premesse. E che a farlo siano chiamate le nuove generazioni, immuni dalle
ideologie sulle quali i sistemi economici sono cresciuti globalizzandosi.
I primi a provare l’imbarazzo della ricchezza, ricorda
Marroni, furono i monaci cistercensi che chiusi nei loro monasteri accumulavano
ricchezza senza riuscire a fala circolare. Con in francescani si esce dal
monastero e si creano i conventi, luoghi aperti a tutti, in cui la ricchezza
diventa partecipata.
La lettura moderna che Jorge Mario Bergoglio dà del
messaggio francescano- scrive Marroni- è che bisogna stringere un patto tra le
persone del pianeta per tornare a dare impulso ad una nuova economia e mettere
la persona e l’ambiente al centro, e non solo il denaro che produce altro
denaro. Sì, anche l’ambiente, un altro dei temi dominanti del pensiero di
Bergoglio, riassunto nell’enciclica Laudato Sì nel 2015.
L’appuntamento del 26- 28 marzo 2020 è stato preceduto da
una settimana di studio chiamata Percorsi Assisi, dove sono stati coinvolti una
50ina di studenti provenienti dalla Luiss, Alma Mater di Bologna, Politecnico
di Milano, Federico II di Napoli, con la collaborazione dell’Istituto
tecnologico e il Sacro Convento di Assisi.
L’iniziativa merita perciò grande attenzione e su di essa ritorneremo.
“ Il bene comune sia la bussola che orienta l’attività produttiva, perché cresca un’economia di tutte per tutti e che non sia insensibile allo sguardo dei più bisognosi” (discorso a Confindustria 27 febbraio 2016
“L’economia, nata per essere “cura della casa”, è diventata
spersonalizzata; anziché servire l’uomo, lo schiavizza, asservendolo a
meccanismi finanziari sempre più distanti dalla vita” (discorso Federazione
banche alimentari, 18 maggio 2019)
“Dobbiamo denunciare ed evitare questa cultura dello scarto.
Non si è ancora riusciti ad adottare un modello circolare di produzione che
assicuri risorse per tutti e per le generazioni future” (discorso all’industria
mineraria, 3 maggio 2019)
Creare opportunità d’impiego dignitose, stabili e a favore
di tutti. Questo richiede un miglioramento nella qualità della spesa pubblica e
degli investimenti, un equo e adeguato sistema di tassazione”” (lettera ai
partecipanti al G20)
“No a un’economia dell’esclusione e dell’iniquità. Questa
economia uccide” (L’Evangelii Giudium 2013)