PER CHI SUONO’ LA CAMPANA

PER CHI SUONO’ LA CAMPANA

NEL LIBRO VIRAL MODERNISM ELIZABETH OUKTA DESCRIVE COME LA MORTE NERA DETTA SPAGNOLA FRA IL 1818-1820 SCONVOLSE IL MONDO-LA PESTILENZA UCCISE INTERE FAMIGLIE, I MORTI FURONO SEPOLTI IN TERRA PER MANCANZA DI BARE, MILIONI DI ORFANI SI TROVARONO SBANDATI.

T.S.ELIOT: Londra, città irreale, sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno, una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta, ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta.

José Ameal Pena, oggi 105 anni, ricorda ancora: “Erano così tanti i funerali che passavano ogni giorno davanti alla nostra casa che mia madre, per non spaventarmi, teneva sempre le tende chiuse”, ha raccontato José a El Mundo. Era la pandemia di influenza che, tra il 1918 e il 1920, causò nel mondo 50 milioni di morti, la famosa “spagnola”. In Spagna morirono in 300 mila. Per giorni, senza interruzione, si sentivano i rintocchi a morte del campanile della chiesa. Poi cominciò la “censura sonora”. “Le campane smisero di suonare per annunciare un funerale. Troppo rumore e troppi lutti in un paesino terrorizzato. L’idea fu del parroco: decise che i defunti fossero accompagnati al cimitero in silenzio, senza che nessuno, dal suo letto, dovesse chiedersi per chi suonava la campana”. A Nembro, come in altre località della Val Seriana, nelle scorse settimane hanno deciso di fare lo stesso. Erano troppi i morti.

“Una memoria sensoriale merita una citazione speciale, in quanto riecheggia in tutta la letteratura: il suono costante di campane a morto” scrive la professoressa Elizabeth Outka nel suo nuovo libro “Viral modernism”.

Egon Schiele: la famiglia

E’ il primo studio su come la “spagnola” sconvolse la cultura occidentale, non soltanto decimandone molti rappresentanti, ma influenzandone molti capolavori. “Il lamento diventa riverbero nei racconti dei sopravvissuti americani ed europei: ‘Le campane della chiesa suonavano continuamente’, ‘le campane suonavano tutto il giorno’, ‘potevo sentire il continuo suono della campana della morte’. Il sopravvissuto Philip Learoyd descrisse un’atmosfera simile a una terra desolata che non dimenticò mai: ‘Ancora oggi, cinquantacinque anni dopo, il suono di una campana ricorda per me la scena di un dormitorio triste con l’oscurità giallo grigiastra di novembre’. Un documentario americano sulla pandemia è intitolato ‘We Heard the Bells’”.

Nessun luogo fu risparmiato, tranne l’Antartide, l’isola di Sant’Elena, qualche isolotto nel Rio delle Amazzoni e l’Australia, la grande eccezione. “Il presidente si è improvvisamente ammalato violentemente con l’influenza in un momento in cui l’intera civiltà sembrava essere in bilico”, scriverà il medico di Woodrow Wilson, Cary T. Grayson. “Non è possibile rendersi conto su quale ghiaccio sottile la civiltà europea stia pattinando”.

Outka spiega che “Thomas Wolfe perse il fratello, T.S. Eliot temeva che il suo cervello fosse danneggiato dall’influenza e Virginia Woolf ne fece una profonda riflessione sulla malattia, “On Being Ill”. La scrittrice aveva assistito in prima persona alla spagnola. Scrisse nel suo diario il 20 ottobre 1918: “Siamo nel mezzo di una pestilenza senza pari dalla morte nera”. Più tardi, ne “La signora Dalloway”, la spagnola infetta Clarissa Dalloway.

L’influenza non si era semplicemente sviluppata dietro le porte chiuse di case e ospedali; tutta la vita pubblica era visibilmente cambiata. “Nella maggior parte delle comunità, le scuole, i teatri, le chiese e le fabbriche sono state chiuse e molti servizi pubblici si sono semplicemente interrotti. Troppe persone erano malate – o si prendevano cura dei malati – per far funzionare i servizi. Un sopravvissuto inglese ha ricordato che a Hambrough Road, Southhall, ‘così tante famiglie intere sono morte che decine di case sono diventate vuote’. A Filadelfia, i carri furono trascinati per le strade, con i sacerdoti che chiedevano alle persone di ‘portare fuori i loro morti’”.

La pandemia ha portato con sé le immagini di corpi, bare e funerali. “I critici modernisti della Prima guerra mondiale parlano dei corpi sempre presenti nelle trincee e della loro assenza in casa, ma nel 1918 i corpi erano ovunque” spiega Outka. “I sopravvissuti parlavano del flusso costante di funerali: ‘C’erano così tanti morti che i cortei funebri dall’obitorio dell’ospedale… erano come un lungo spettacolo di Lord Majors’. Un ministro battista a Leicester ‘conduceva i funerali dalla prima luce del giorno al tramonto’. I cortei funebri si susseguivano per la città. Spesso c’era più di una bara in un carro funebre. La comunità non riusciva a stare al passo con i funerali e molti temevano di partecipare alle funzioni. Il tributo della pandemia fu presto così alto che in molti luoghi le bare si esaurirono”. Ricorda niente del nostro nord Italia devastato dal Covid-19?

“La morte di massa si era riversata dai campi di battaglia nello spazio domestico”, scrive Outka. “Mentre la pandemia si è conclusa nel 1920, i postumi del virus hanno continuato a vivere nei corpi e nelle vite delle sue vittime. Questo particolare ceppo influenzale poteva danneggiare permanentemente i polmoni, il cuore e i nervi e lasciare il corpo aperto alle infezioni”.

Al compositore ungherese Béla Bartók lasciò un’infezione all’orecchio che gli fece temere di essere diventato sordo. Lo scrittore americano Robert Graves ne rimase quasi ucciso. Ma forse il retaggio più persistente della pandemia è stato il dolore e le difficoltà che ha lasciato dietro di sé. “Ha distrutto famiglie su più livelli. Divenne il virus che uccise gli adulti nell’era primigenia della genitorialità, produsse milioni di orfani”.

Mary McCarthy

La scrittrice Mary McCarthy, che ha perso entrambi i genitori nella spagnola, disse che il virus l’aveva privata anche della sua storia familiare. “La catena del ricordo – la memoria collettiva di una famiglia – è stata spezzata”. Spiega ancora la studiosa americana che “i numerosi corpi e cadaveri del modernismo, come quelli che riempiono ‘La terra desolata’, sono tentativi di affrontare e rappresentare nuovamente questi corpi assenti. Il racconto della mancanza di cadaveri sul fronte domestico – certamente vero per quanto riguarda i morti di guerra – diventa più complicato quando si ricorda il diluvio di cadaveri da pandemia che dilagano proprio all’arrivo dell’armistizio. A differenza del cadavere di guerra – onnipresente in un luogo, assente in un altro – il cadavere dell’influenza era ovunque e in nessun luogo”.

“La terra desolata” (1922) di T. S. Eliot e “Il secondo avvento” di W. B. Yeats (1919) sono i due capolavori della letteratura del Novecento più segnati dalla “spagnola”. “Ogni scrittore ha avuto un intenso incontro personale con il virus e ogni testo traccia un particolare paesaggio pandemico”. Era il tempo in cui tutta la grande cultura rimase in qualche modo segnata. Sophie Freud, debilitata dalla terza gravidanza, fu uccisa dalla spagnola e il padre Siegmund ne uscì cambiato da quell’evento. Al termine della pandemia, Freud scrisse il famoso saggio intitolato “Al di là del principio di piacere”, dove introdusse la “pulsione di morte”. “Ricordi un periodo così pieno di morte come quello attuale?”, scrisse il fondatore della psicoanalisi all’amico Ernest Jones dopo la scomparsa della figlia.

Tanti grandi scrittori persero familiari, come il padre di Larwence d’Arabia e il figlio di Arthur Conan Doyle.

Si dice che il pittore Edvard Munch abbia realizzato il suo famosissimo “Urlo” a causa dell’influenza. “Una sera stavo percorrendo un sentiero, da un lato c’era la città e sotto di me il fiordo”, scrisse. “Mi sentivo stanco e malato. Mi fermai a guardare in direzione del fiordo: il sole stava tramontando e le nuvole erano rosso sangue. Ebbi la sensazione che la natura fosse attraversata da un urlo; e mi sembrò di sentirlo”.

L’“Autoritratto con influenza spagnola” del 1919 mostra un Munch avvolto da una coperta, seduto su una sedia, il letto arruffato sullo sfondo. Il giallo è malaticcio, la bocca si apre come un cadavere. La pandemia uccise uno dei più grandi pittori dell’espressionismo, Egon Schiele, e il suo maestro, Gustav Klimt. A Schiele l’influenza portò via la moglie incinta di sei mesi. Ce lo ricorda un suo dipinto intitolato “La famiglia”, in cui si vedono Schiele, la moglie Edith e quel bambino che non ebbero mai. La pandemia uccise il poeta Guillaume Apollinaire, a capo dell’avanguardia artistica e letteraria francese, il padre del “surrealismo”. Poi fu la volta di Edmond Rostand, l’autore di “Cyrano de Bergerac”. Ezra Pound contrasse l’influenza a Londra ma gli sopravvisse, come John Steinbeck e Groucho Marx. O come Romain Rolland, premio Nobel per la Letteratura nel 1915, che si ammalò in un hotel sul lago di Ginevra.

Franz Kafka si infettò e superò il virus mentre collassava l’impero austro-ungarico. Crollavano le società, ma anche i vecchi confini e la vecchia cultura. Il positivismo ne uscì a pezzi.

I becchini non riuscivano a scavare abbastanza in fretta e per fare prima, scavavano fosse sempre meno in profondità. “A volte la buca era così bassa che dalla terra saltava fuori un piede”, ricorda lo scrittore Nelson Rodrigues. T.S. Eliot traspose quanto vedeva nella sua celebre “Sepoltura dei morti”: “Città irreale, sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno, una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta, ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta. Sospiri, brevi e infrequenti, se ne esalavano, e ognuno procedeva con gli occhi fissi ai piedi. Affluivano su per il colle e giù per la King William Street, fino a dove Saint Mary Woolnoth segnava le ore con morto suono sull’ultimo tocco delle nove”.

Negli anni attorno alla stesura e alla pubblicazione della “Terra desolata”, l’influenza fu una presenza costante per Eliot e sua moglie Vivien.

La pandemia influenzò i grandi scrittori, dalla “Signora Dalloway” di Virginia Woolf al “Secondo avvento” W. B. Yeats

Bartok rimase quasi sordo, mentre la scrittrice Mary McCarthy disse che il virus l’aveva privata anche della storia familiare

Da Egon Schiele a Gustav Klimt, da Apollinaire a Rostand, non si contano le vittime dell’influenza spagnola

T. S. Eliot si ammalò con la moglie, perse numerosi familiari e venne ispirato per la sua “Sepoltura dei morti”

Gustav Klimt

La coppia contrasse il virus nel dicembre 1918, quando la seconda ondata della pandemia infuriava in Inghilterra. La zia di Eliot morì nel dicembre del 1918 e il padre poco dopo. “Ho avuto una specie di collasso; ho dormito quasi ininterrottamente per due giorni, e ora sono sveglio, mi sento molto debole e sfinito” scrisse Eliot al fratello. Il senso di snervamento, frammentazione e di corpi vulnerabili sono elementi costanti del suo capolavoro poetico.

Conclude Outka: “La pandemia ha alimentato l’interesse per la risurrezione e la morte intensificando le ansie già messe in atto dalla guerra. Entrambe le tragedie hanno portato a rituali funebri interrotti, entrambe hanno richiesto sepolture di massa, entrambe hanno portato a morte improvvisa e violenta, entrambe a corpi danneggiati, entrambe hanno causato un senso diffuso di morte nei sopravvissuti, entrambe hanno lasciato un numero quasi inimmaginabile di persone in lutto sulla loro scia. Donne e uomini erano in estremo pericolo e lo spazio domestico divenne mortale”. Il capolavoro di Y.B. Yeats, “Il secondo avvento”, è fortemente segnato dalla pandemia e ci consegna il crollo della redenzione cristiana e della resurrezione.

Era la sensazione, messa in versi da Eliot e per dirla con Victor Vaughan, ex preside della facoltà di medicina dell’Università del Michigan e nel 1918 a capo della divisione malattie infettive dell’esercito, che “se l’epidemia continua la civiltà potrebbe facilmente scomparire dalla faccia della terra nel giro di poche settimane”. Questo assillante presentimento, presagio e premonizione della tragedia fu all’origine della migliore letteratura del Novecento. Con una letteratura figlia di una cultura sempre più conformista e banale, priva di ogni senso del tragico, la pandemia di Covid-19 non ci darà neanche la consolazione in versi e in prosa. Le nostre campane sembrano suonare, più che a morto, a vuoto.

Giulio Menotti, il Foglio Quotidiano

ZELIG

ZELIG

MEMORIE RETICENTI DI UNO ZELIG IMPENITENTE, CHE SI NASCONDE DIETRO L’IRONIA E BATTUTE FULMINANTI, TRA RIMPIANTI E SCETTICISMO: UNA STORIA DI VITA PIENA DI NIENTE ?


È un peccato che il libro di memorie di Woody Allen, intitolato A proposito di niente, sia stato accolto da un’attenzione mediatica focalizzata sulla controversia con Mia Farrow, perché è un testo ricco di spunti interessanti per comprendere la personalità di un grande del cinema, oggi vittima, a mio avviso, di un assurdo ostracismo. È necessario tuttavia riassumere la vicenda, dal momento che è lo stesso cineasta a scriverne nel libro, la cui dedica recita: «A Soon-Yi, la migliore. Pendeva dalle mie labbra e poi mi ha avuto in pugno». Nel 1992 la Farrow scopre che Allen, suo compagno da dodici anni, aveva una relazione con Soon-Yi, da lei adottata insieme al precedente marito Andre Previn.

Da allora sono passati 28 anni: Allen e Soon-Yi si sono sposati e hanno avuto due figlie, mentre l’attrice ha lanciato l’accusa, gravissima, di molestie sessuali nei confronti di Dylan, altra sua figlia adottiva. Allen è stato scagionato due volte, e in occasione della seconda sentenza il giudice ha accusato la Farrow di aver plagiato i figli contro l’ex-compagno: nel libro Allen rivela che «anche l’avvocato di Mia ha dichiarato pubblicamente di non sapere se le molestie si siano verificate o siano frutto dell’immaginazione di Mia». Da 1993 non è più successo nulla, ma in occasione del caso Weinstein, Allen è diventato l’oggetto di una violenta campagna da parte del figlio avuto con la Farrow, il cui nome era Satchel ma è stato cambiato in Ronan Farrow dall’attrice, la quale ha dichiarato di averlo concepito con Frank Sinatra, altro suo marito e idolo del regista newyorkese, al punto che in Manhattan lo indica tra i motivi per cui vale la pena vivere.

La campagna di Ronan ha fatto del cineasta un «paria» al punto che Hillary Clinton rifiutò un contributo elettorale per la campagna presidenziale. All’epoca Allen rimase malissimo, ma ora replica con ironia: «con Soon-Yi non abbiamo potuto fare a meno di chiederci se con cinquemila dollari in più da spendere avrebbe potuto vincere in Pennsylvania, Michigan o Ohio».
Oggi fa impressione leggere quanto Allen sia ferito dallo stesso mondo intellettuale che lo idolatrava, in particolare quello che gravita intorno al New York Times, ma è con l’ambiente del cinema che si è aperto un conflitto irreparabile. La campagna di Ronan Farrow ha bloccato la distribuzione americana dei suoi film e generato ritrattazioni grottesche da parte di attori che hanno lavorato con lui molti anni dopo il 1992: Timothée Chalamet è arrivato a devolvere in carità il compenso ottenuto in Un giorno di pioggia a New York, e Allen racconta che l’attore ha «giurato di averlo dovuto fare perché era in lizza per l’Oscar con Chiamami col tuo nome, e lui e il suo agente avevano pensato di avere maggiori chance di vincere prendendo le distanze». Il cineasta parla con sarcasmo di «cittadini benintenzionati, infiammati di sacra indignazione: sembravano non vedere l’ora di schierarsi in una battaglia di cui non conoscevano nulla facendo a gara a chi fosse il più integerrimo». Poi conclude con una battuta che gli creerà nuovi nemici: «erano contro la pedofilia e non avevano paura di dirlo ad alta voce, soprattutto alla luce della nuova scoperta scientifica per cui la donna ha sempre ragione». La sua tesi è che la Farrow, sconvolta per la vicenda di Soon-Yi, sia accecata dall’odio al punto da trasformare l’aver tenuto sul grembo Dylan mentre guardavano la televisione in una molestia sessuale. Nella pagina meno nobile del testo, Allen racconta che Ronan è morbosamente attaccato alla madre, al punto che i due dormivano insieme nudi fin quando lui aveva undici anni.


Si tratta fortunatamente solo di un passaggio, perché il libro è in realtà il racconto vivido di una vita intensa e fortunata, che Allen offre al lettore con una profondità che nasce dalla leggerezza. Esemplare il racconto della serata in cui vinse il primo Oscar per Io & Annie, quando rimase a New York a suonare il jazz e scoprì quanto era successo dai giornali: chi lo conosce sa che non è affatto snobismo. Allen, che ha iniziato la propria carriera scrivendo testi per Sid Caesar e Mel Brooks, ha sempre avuto un notevole talento narrativo, come dimostrano gli esilaranti libri scritti in precedenza e i numerosi pezzi pubblicati sul New Yorker. A proposito di niente riesce ad essere divertente anche nel modo in cui riesce a sdrammatizzare la nuova condizione di paria: «Non nego che arrida alle mie fantasie poetiche il fatto di essere un artista il cui lavoro non viene visto nel suo paese e, vittima di un’ingiustizia, è costretto a cercare il proprio pubblico all’estero. Pensate a Henry Miller, D.H. Lawrence, James Joyce. Mi vedo al loro fianco, con uno sguardo di sfida. È a questo punto che mia moglie mi sveglia e mi dice: “Stai russando”». A cominciare dal titolo, ribadisce una concezione della vita assolutamente cupa, nella quale l’ironia, spesso geniale, rappresenta il modo di alleviare il dolore dell’esistenza.

Allen con Soon-Yi

Allen non cede alla disperazione, ma sa che la vita regala poche consolazioni, e le ha elencate nel finale di Manhattan: «Frank Sinatra, Groucho Marx, Marlon Brando, Joe Di Maggio, Louis Armstrong, il secondo movimento della sinfonia Jupiter, i film svedesi, le pere e le mele dipinte da Cezanne, l’Educazione Sentimentale di Flaubert, i granchi mangiati da Sam Woo e il volto di Tracy», che in quel film era la donna amata e, bisogna ricordarlo, ancora una liceale. Allen mescola l’highbrow e il lowbrow e avvisa che è fondamentale saper cogliere ogni momento, altrimenti la vita appare nella sua realtà tragica. Manhattan si concludeva con le parole «bisogna aver fiducia nella gente», ma quell’anelito di speranza arrivava dopo che aveva dichiarato di raccontare «la gente a Manhattan che si crea problemi inutili e nevrotici per non occuparsi delle più insolubili e terrificanti questioni universali». Anche in A proposito di niente Allen conferma di avere uno sguardo che nega ogni trascendenza, e suggerisce di adattarsi a sopravvivere con poche cose: «basta che funzionino», per citare il titolo di un altro suo film.

Woody con Mia Farrow


Il libro consente di approfondire il suo rapporto con Manhattan: nativo di Brooklyn, Allen la celebra come un luogo idealizzato, e, non diversamente dal film che le ha dedicato, dichiara di amarla sproporzionatamente. Il realismo delle ambientazioni evita che divenga l’isola che non c’è di Peter Pan, tuttavia sembra che voglia preservala dal dolore e dalla solitudine: è un approccio simile a quello della protagonista della Rosa Purpurea del Cairo, dove la città adorata è un sogno in bianco e nero nel quale fuggire prima di tornare a una quotidianità grama. È una tragedia buffa, quella che ci propone ancora una volta Woody Allen, dominata dall’ingiustizia e dal caso, dove soltanto l’amore può offrire la possibilità di riscatto, o quanto meno l’illusione. Giunto al tramonto della vita, sceglie la tenerezza di Broadway Danny Rose sulla cupezza di Crimini e Misfatti, ma i passaggi esilaranti non stemperano la mestizia dell’assunto: invece di considerare il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto afferma di vedere «la bara mezza piena».

Una scena del film Provaci ancora Sam con  Diane Keaton


Sono molti i retroscena sui film e sui legami sentimentali, ma Allen rifiuta l’aneddoto fine a se stesso preferendo le battute fulminanti: durante la cerimonia matrimoniale ha detto alla prima moglie Harlene Susan «sì lo voglio» con lo stesso tono con cui Orson Welles pronunciava Rosebud (nella versione italiana Rosabella) in Quarto Potere. Illuminante il seguito: «mi sembrò di sentire una porta blindata chiudersi sulla mia vita. La porta di un sepolcro. Sì, amavo Harlene, ma non avevo idea di cosa fosse l’amore». Tra le pagine migliori ci sono quelle dedicate a Diane Keaton, che gli è stata fedele nel momento più difficile, ma forse le più rivelatorie sono quelle relative alla famiglia. Apprendiamo che il padre, «un ebreo piccolo di statura che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno» rubò un anello a una cugina della madre in vista del matrimonio: aveva frequentazioni inquietanti e amava sparare, al punto che in guerra fece parte di un plotone di esecuzione che fucilò un commilitone che aveva violentato una ragazza.

Una scena del film Pallottole a Broadway con John Cusack, Dianne Wiest

Come succede a molti protagonisti dei suoi film la madre lo malmenava ogni giorno: «non era una gran bellezza. Quando anni dopo ho detto che assomigliava a Groucho Marx, tutti hanno pensato che scherzassi». Degne di Prendi i soldi e scappa le pagine in cui li descrive insieme: «non c’era nulla su cui andassero d’accordo, a parte Hitler e le mie pagelle. Eppure, malgrado i massacri verbali, rimasero sposati per settant’anni – giusto per farsi dispetto, immagino. Ciò nonostante, sono sicuro che a loro modo si amassero – in un modo forse noto solo ad alcune tribù di cacciatori di teste del Borneo». Nelle ultime pagine il tono mescola la leggerezza alla malinconia, come era successo nel finale di Io & Annie, dove diceva «così guardo alla vita: piena di solitudine, di miserie, di infelicità… e disgraziatamente dura troppo poco». A distanza di più di quaranta anni il sentimento è rimasto analogo, e Allen saluta i lettori componendo una lista delle persone che avrebbe voluto essere, che vanno da Bud Powell a Fred Astaire, o «chi ha scritto Un tram che si chiama desiderio». Ma poi dichiara di preferire la vita rispetto a quello che lascerà come artista: «vivere nel cuore e nella mente del pubblico non mi importa niente, preferisco vivere a casa mia». —

Articolo di Antonio Monda La Stampa

AHO’, MATTEO, SON TUTTE STRONZATE

AHO’, MATTEO, SON TUTTE STRONZATE

Il grande show dei nazionalisti in mutande contro l’Europa che stanzia 100 mld contro la disoccupazione. Mette in circolo 200 mld per le imprese. Carica la Bce con 750 mld. Trasforma il Mes in un fondo per la sanità. Apre sui bond. Due populismi pericolosi sbugiardati sui balconi.

E se fossero quei due balconi lo specchio migliore per capire cosa poteva essere l’Italia senza l’Europa e l’Europa senza l’Italia? Proveranno a dire ancora che l’Europa non esiste, che l’Italia ha di nuovo calato le brache, che la Troika arriverà presto nei nostri confini, che i burocrati di Bruxelles ci faranno fare la fine della Grecia.

Claudio Cerasa

Ma quando la demagogia si sarà sedimentata, quando la retorica si sarà placata e quando la realtà risulterà evidente anche a chi si ostina a negarla, non si potrà fare a meno di notare un concetto semplice e lineare: la tragica stagione della pandemia ha mostrato con chiarezza che di fronte al tentativo di risolvere i problemi della modernità la dottrina nazionalpopulista ha a che fare più con la sfera dei problemi che con la sfera delle soluzioni. E per quanto si possa sempre sostenere che l’Europa possa fare di più, che l’Italia debba chiedere di più e che il Parlamento debba pretendere di più è difficile non riconoscere che nella notte tra giovedì e venerdì i paesi europei con più testa sulle spalle, guidati dalla Francia e dalla Germania, sono riusciti a trovare un’ottima terza via tra il populismo rigorista di alcuni stati del nord e il populismo antieuropeista di alcuni stati del sud. Il risultato è più che soddisfacente. E solo chi non vuole capire oggi finge di non capire cosa è successo in Europa negli ultimi mesi e finge di non vedere che la politica è riuscita a fare quello che finora in Europa erano riusciti a fare solo i tecnici: fare tutto il necessario per salvare l’Europa e considerare i problemi di un paese europeo come i problemi dell’intera Europa: whatever it takes. Succede così che nel giro di un mese l’Europa si ritrova ad avere una Banca centrale più forte di prima, capace di stanziare in pochi giorni 750 miliardi di euro aggiuntivi per acquistare titoli di stato. Succede così che nel giro di un mese l’Europa grazie alla Banca europea degli investimenti si ritrova ad avere un nuovo arsenale finanziario da 200 miliardi di euro con cui sostenere le piccole e medie imprese.

Succede così che nel giro di un mese l’Europa grazie alla Commissione europea si ritrova tra le mani uno strumento da 100 miliardi di euro chiamato Sure con cui oggi potrà sostenere politiche contro la disoccupazione, senza condizionalità, e con cui un domani potrà emettere titoli di stato, per creare il famoso fondo da 2 mila miliardi di euro capace di sostenere dopo i lockdown il rilancio dell’Europa. E mentre succede tutto questo – e mentre gli antieuropeisti sono lì a chiedere all’Europa di fare quello che hanno sempre chiesto di non fare all’Europa, ovvero esistere – succede che l’Europa riesce a trovare un compromesso per modificare il Mes e permettere ai paesi più in difficoltà di avere accesso a linee di credito del Fondo salva stati senza condizionalità fino a somme pari al due per cento del pil nazionale per spese dirette e indirette legate alla sanità (l’Italia ha versato 14,3 miliardi di euro al Mes, ne otterrà il doppio, circa 37 miliardi, senza che questo abbia un peso sul debito).

L’Europa c’è, esiste, cresce, matura, si rafforza – e nel frattempo è stato sospeso il Patto di stabilità, è stata resa più flessibile ogni regola sugli aiuti di stato, è stato permesso l’utilizzo immediato dei fondi strutturali Ue ancora disponibili – e per quanto possa sembrare incredibile, uno dei paesi che hanno contribuito a rendere possibili alcuni passi in avanti dell’Europa è stato un paese come l’Italia che con i suoi tempi, i suoi problemi, i suoi guai, le sue lentezze e le sue contraddizioni è riuscita in un piccolo miracolo politico: far nascere nella legislatura con il più alto tasso di antieuropeismo della sua storia recente un governo capace di attivare in Europa le giuste leve per contare qualcosa. E il fatto che nel giro di due anni, con lo stesso Parlamento, il motore dell’Italia sia passato dall’essere guidato da un asse governato da Luigi Di Maio e da Matteo Salvini a un asse governato da Giuseppe Conte, Roberto Gualtieri e Paolo Gentiloni dovrebbe far capire ai professionisti del dettaglio che certamente si può chiedere di più, che certamente si può fare di meglio, che certamente si può ambire a qualcosa di diverso ma che nel frattempo vale la pena accontentarsi, vale la pena tenersi stretta l’Europa e vale la pena pensare a ciò che poteva essere l’Italia senza l’Europa e l’Europa senza l’Italia. E per farlo, per pensare a tutto questo con un sorriso, ci sono due balconi in qualche modo iconici utili a fotografare lo spirito del tempo. Il primo balcone è quello famoso di Palazzo Chigi, quando un gruppo di irresponsabili, un anno e mezzo fa, si affacciò rovinosamente per festeggiare l’approvazione di una manovra populista. Il secondo balcone è meno famoso ma non meno iconico ed è quello che ha involontariamente mostrato Salvini due giorni fa durante un collegamento in streaming con i suoi follower. E mentre Salvini, affacciato a una finestra, spiegava come l’Italia avrebbe dovuto farsi rispettare in Europa, a un certo punto dall’altra parte del condominio un vicino di casa di Salvini interrompe in diretta il leader della Lega spiegando il suo punto di vista in modo efficace: “Matteo, sono tutte stronzate”. Quando si dice lo spirito del tempo.

Claudio Cerasa Il Foglio Quotidiano

LA GRANDE REGOLARIZZAZIONE

LA GRANDE REGOLARIZZAZIONE

Niente clandestini grazie a… Salvini. Il governo usi il permesso per calamità previsto dal suo “decreto sicurezza ”

Su queste colonne, insieme a Carlo Stagnaro avevamo posto all’attenzione il tema degli immigrati irregolari: 600 mila invisibili senza accesso all’assistenza socio-economica e sfuggenti a qualsiasi prescrizione sanitaria o possibilità di monitoraggio dell’epidemia. Un esercito di fantasmi, pari all’1 per cento della popolazione residente – per intenderci, quanto due città come Venezia e Bari – che non può neppure dare un contributo alla ripartenza dell’attività economica in settori in cui mancheranno lavoratori stagionali provenienti dall’estero. Non a caso sono a favore della sanatoria le organizzazioni di produttori agricoli, come la Cia e Confagricoltura, che temono di lasciare il raccolto nei campi e i supermercati vuoti.

Inoltre, come mostrano i dati di Veneto Lavoro, in queste settimane di lockdown è in corso una “mini-regolarizzazione da pandemia”: la necessità di documentare gli spostamenti e di accedere a benefici come i voucher sta portando a una grande emersione di rapporti di lavoro in nero nel settore domestico. Ma da questo processo di emersione sono esclusi gli immigrati irregolari perché, pur volendo, a loro è impedito l’impiego con contratto regolare. Per loro l’unica possibilità di sopravvivenza è il lavoro nero, ovvero il perenne sfruttamento a cui li costringe la clandestinità.

Gli argomenti a favore di una regolarizzazione sono quindi quelli di sempre – gli stessi alla base delle sanatorie fatte dai governi di centrodestra con la Lega – ma sono più validi adesso: questi 600 mila fantasmi per lo stato, che in realtà esistono in carne e ossa, sono un buco nero nella strategia di contenimento e monitoraggio dell’epidemia. Il Portogallo, ad esempio, ha adottato un provvedimento che riconosce il diritto di soggiorno a tutti gli immigrati per proteggere loro e la comunità nazionale dalla diffusione del coronavirus. Le uniche considerazioni che frenano le forze di governo sono di ordine politico. Il timore è che una regolarizzazione del genere possa essere un assist per Matteo Salvini: il leader della Lega tornerebbe a sventolare la sua bandiera anti immigrazione, al momento ammainata, aumentando i consensi.

In linea di principio, sarebbe un ragionamento miope. Che senso ha adottare le politiche di Salvini per timore che sia lui ad attuarle? Governare come Salvini per evitare che Salvini governi è già una sconfitta politica, e nel medio periodo non è neppure efficace per conservare il potere, se è quello il vero obiettivo. Ma lasciando da parte gli ideali politici e le questioni di principio, c’è una strada per fare la cosa giusta e al contempo disinnescare la propaganda sovranista. Basta percorrerla applicando il “decreto sicurezza”, il provvedimento simbolo del Salvini di governo. La legge prevede infatti il “permesso di soggiorno per calamità”, che il questore rilascia quando il paese verso il quale lo straniero dovrebbe rimpatriare “versa in una situazione di contingente ed eccezionale calamità che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza”. Con Covid-19 sono presenti le due condizioni essenziali: la calamità naturale, essendo una pandemia, è presente in Italia e in tutto il mondo, quindi anche nei paesi di ritorno; e, in ogni caso, “non consente il rientro” essendo tutti i voli sospesi. Il permesso di soggiorno per calamità è valido per sei mesi e consente di lavorare, quindi anche l’emersione del lavoro nero.

Per l’applicazione su larga scala basta solo una circolare interpretativa del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Se il governo e la maggioranza non hanno il coraggio di attuare un principio umanitario e sanitario previsto addirittura dal leader dei sovranisti, non vuol dire che sono come Salvini. Vuol dire che rischiano di essere peggio.

Luciano Capone per il Foglio Quotidiano

NON L’HA PRESA CON FILOSOFIA

NON L’HA PRESA CON FILOSOFIA

Il filosofo Cacciari all’HuffPost: “Solo un irresponsabile può avere l’animo sereno in un momento così. In queste condizioni. Il governo non è stato ancora capace di articolare un discorso oltre lo state-tutti-a-casa. Io capisco i medici: è il loro mestiere. Il lavoro dei politici è diverso. Cosa stanno aspettando a darci un piano per la ripresa?”

Massimo Cacciari:

La condizione è instabile: “Leggo malissimo, scrivo con difficoltà, non mi concentro. È una situazione angosciante. Lasci stare le puttanate che raccontano i nani e i ballerini della televisione. Chi può stare bene a casa? Che fantasie idiote sono mai queste? Solo un irresponsabile può avere l’animo sereno in un momento così. In queste condizioni, la casa è un inferno”. Il filosofo Massimo Cacciari non è uno di quelli che l’hanno presa con filosofia. Anzi, detesta l’idea del pensiero addolcito in caramelle di saggezza da regalare a grandi e piccini per tranquillizzare le loro notti insonni. In più, appena timidamente accenni alle meditazioni sulla pandemia che stanno facendo alcuni suoi colleghi, per i quali il mercato non sarà più come prima, nemmeno lo stato sarà più come prima, sapessi poi l’uomo, e la donna, e le relazioni, e la natura, mette subito le cose in chiaro: “Senta, non ho nessuna voglia di far filosofia. Intesi? Questo è proprio un vizio da intellettuali alla moda: prendere qualsiasi cosa accada nel mondo e interpretarlo come una svolta della storia; immaginare cumuli di macerie ovunque e salirci sopra per annunciare che ‘è finito questo’, ‘è finito quello’, compiacendosi di essere i primi esegeti di una svolta epocale. Per carità”.

Per orientarsi nell’avvenire, Cacciari srotola nella conversazione la mappa del presente: “La storia non ha fini. Non ci attende la terra promessa, né il suo rovescio, che è la catastrofe. Questa crisi irrompe nel mezzo di un processo già in atto da tempo e ne accelera straordinariamente i tempi. Aumenta la velocità con cui il sistema tecnico-scientifico si muove verso il centro della scena del mondo, liquidando la funzione preminente della politica e riducendo la spazio dell’autonomia del politico. La tecnica e la politica diventano un tutt’uno. Non si può dare l’una senza l’altra. Basta guardare come stanno gestendo la crisi tutti i Paesi del mondo. I capi di stato e gli scienziati: gli uni accanto agli altri”.

Tutto è fermo tranne che la storia?
C’è chi pensa che l’arresto a cui ci ha obbligati il contagio sia un punto di svolta che può rifondare tutto, farci tornare sui nostri passi, immaginare un altro mondo possibile, costruire tutto daccapo. È un’illusione ottica. Siamo noi che ci siamo fermati, non i processi dentro cui siamo immersi da anni.

Non c’è niente di traumatico?
Il trauma è un evento imprevedibile che ci tormenta ripetendosi nell’inconscio. Un contagio globale, invece, era nell’ordine del possibile. E, soprattutto, non è un incubo. È la realtà. Per comprendere il capitalismo, è più utile leggere Schumpeter che Freud. Il capitalismo è crisi. È distruzione e creazione. È contraddizione: discontinuità nella continuità. È conflitto. Salti improvvisi, movimenti forsennati, squilibrio. Non ha niente della serena linea retta con cui molti si figurano il movimento della storia.

Lo potremmo paragonare all’undici settembre?
Non è un evento che va letto nel breve periodo: la paura di prendere l’aereo, come accadde allora, oppure la paura di avvicinarsi all’altro, come dicono alcuni ora. Ci sarà una strepitosa accelerazione verso il capitalismo politico e una riduzione ai minimi termini degli spazi di rappresentanza della democrazia tradizionale. Se i nostri sistemi liberali non saranno capaci di salire all’altezza delle sfide di questo tempo, riorganizzando la propria vita completamente, la pagheranno cara. Lo stato d’eccezione permanente spinge verso il decisionismo. Il modello cinese si potrebbe imporre su scala mondiale.

Può cambiare il segno della globalizzazione?
È un’ipotesi realistica. La globalizzazione è nata sotto la spinta degli Stati Uniti d’America. Oggi la Cina può diventare la nuova protagonista. È l’unico paese che si trova nella posizione di mettere in campo un colossale piano di ristrutturazione. Possiede parte del debito americano, e del nostro. Viceversa, nessun paese occidentale controlla il debito cinese. Ecco perché potremmo assistere a una grande svolta geopolitica.

Donald Trump

Perché usa il condizionale?
Perché la partita è aperta. I capitalismi politici sono diversi. C’è quello cinese, quello russo, quello americano. I caratteri sono molteplici. La competizione tra loro, violenta. La crisi accelererà anche il confronto tra di essi. Capiremo quali tra questi spazi imperiali ha le armi per affermarsi.

L’Europa è fuori gioco?
L’Europa è un microbo in questo scenario planetario. Il fatto che nemmeno di fronte a una situazione del genere abbia trovato la forza di reagire in maniera unitaria – dopo l’avvertimento della crisi dei debiti sovrani e dopo l’allarme della crisi migratoria – dimostra che non ha più cervello. L’Europa che si aggrappa alla difesa dell’avanzo commerciale tedesco, oppure all’autonomia di uno stato semi canaglia come l’Olanda, uscirà dalla crisi in una posizione ancora più subalterna, e si candida ad affidarsi alla benevolenza di questo o quell’altro impero.

Vacilla anche il suo europeismo?
Se le cose continueranno ad andare così, sarò costretto anch’io a piangere sulle mie giovanili utopie e metterci una croce sopra.

Ma allora perché ha giocato tutti i suoi risparmi su Conte, che è uno dei più deboli nella debole Europa?
Perché se Conte fallisse, perderei comunque tutto. Il paese si sfascerebbe. Andremmo a nuove elezioni. Lo spread schizzerebbe a seicento punti percentuali. Esploderebbero conflitti sociali laceranti. Ecco l’illusione di Renzi e Salvini: credere che sia il momento di tirar fuori Draghi. Sono fuori tempo. I Draghi nascono dalla catastrofe di questo governo e da un appello disperato di Mattarella. Ora, è il momento di prepararci a una manovra finanziaria tremenda, sul modello di quella fatta da Giuliano Amato negli anni novanta. Se non saremo in grado di farla, senza casini, franerà tutto.

Riaprire potrebbe aiutare?
Il governo non è stato ancora capace di articolare un discorso oltre lo state-tutti-a-casa. Io capisco i medici: è il loro mestiere. Il lavoro dei politici, però, è diverso. Dovrebbero disegnare uno scenario. Dire: “Adesso la situazione è questa. Ma noi abbiamo un piano per la ripresa. O, almeno, ci stiamo lavorando. Le modalità saranno le seguenti. Prima partirà questo. Poi, quello. Ovviamente, con tutte le misure di sicurezza necessarie”. Un paese non può sopravvivere a lungo se rimane chiuso. È la realtà. Si muore di coronavirus. Ma senza lavoro mi posso ammazzare. Cosa stiamo aspettando? Che non ci sia più un contagiato? Un morto? Che le rianimazioni siano vuote? Qual è l’orizzonte? Ecco cosa non è chiaro.

Giuseppe Conte e Xi Jinping

C’è chi ha detto che si è ricomposta la frattura tra popolo ed élite.
Che barzelletta è mai questa? È naturale che nella bufera ci sia affidi al comandante in capo. Ma lei pensa che gli italiani abbiano ritrovato improvvisamente la fiducia nella politica? Obbediscono perché glielo dicono i medici. Appena la situazione cambierà, anche solo di una virgola, quando i problemi saranno di nuovo di scelta politica ed economica, vedrà come tornerà lo scontro, vedrà.

Lei dov’è, ora?
A Milano.

Allora non ha potuto vedere il mare di nuovo blu della sua Venezia.
Però ho potuto sentire quelli che lo raccontano sospirando, e vorrebbero che la città fosse sempre così.

E cosa ne pensa?
Che, come vede, non c’è nessuna rottura nella storia. Le teste di cazzo sono rimaste proprio uguali, identiche a com’erano prima del Coronavirus.

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