GRANDE ED ERMETICO

GRANDE ED ERMETICO

FRANCO BATTIATO, il cantautore di Milo, ha appena annunciato il suo ritiro dalle scene- Una lunga carriera dal pop alla musica di protesta, dalla canzone romantica a quelle colte e d’avanguardia, fino all’ ispirazione esoterica e di mistica quotidiana.- Ecco come un critico ne tratteggia il ritratto, fra divertito e beffardo.

IN FONDO ASCOLTATE TORNEREMO ANCORA, ULTIMO E INTENSO LAVORO DEL MAESTRO, QUASI UN TESTAMENTO SPIRITUALE

Un paio di giorni di fa, in un sabato di quarantena qualunque, la scrittrice Michela Murgia nel corso del programma in videochat Buon vicinato ha condiviso con la collega e conduttrice Chiara Valerio le seguenti considerazioni su Franco Battiato:

“Franco Battiato è considerato un autore intellettuale. E invece, tu ti vai a fare le analisi dei suoi testi e sono delle min… assolute, citazioni su citazioni e nessun significato reale. Togli due testi, forse, e il resto…. “

Parole che hanno scatenato il finimondo. I social networks sono stati invasi da inviti spesso non eleganti a farsi gli affari propri, a darsi ad altro rispetto alla musica, a tacere, a non intaccare la sacralità del maestro con chiacchiere e opinioni di bassa lega….. il giornalista Andrea Scanzi ha riassunto il tenore medio delle reazioni suscitate dalle battute di Murgia:

Gentile Murgia, dotata di qual grazia e infinita meraviglia, fammi il favore. Prima di parlare a caso (per non dir peggio) di Battiato, che sta peraltro combattendo una battaglia difficilissima ed è quindi oltremodo osceno attaccarlo adesso, raggiungi la bellezza assoluta di testi e musiche come Gli uccelli. Up patriots to arms. E ti vengo a cercare. Povera patria. Eccetera. O gli arrangiamenti monumentali di Polli di allevamento, che creò con Giusto Pio per Giorgio Gaber e Sandro Luporini. Poi, quando avrai anche solo raggiunto un centesimo di tutto questo, e per ora tra le messe cantate a Radio Capital e le sbrosce mosce dei tuoi libretti neanche ti ci sei lontanamente avvicinata, parla. Se proprio devi…..

Nelle ultime ore, la scrittrice ci ha tenuto a precisare che era tutta una provocazione, che lei ha sofferto a dire quelle cose perché lei in realtà Battiato lo ama, e litigare per il gusto di litigare fa parte della trama del programma.

Il tema tuttavia è un altro. Con buona pace di Scanzi, le parole di Murgia al di là delle sue reali intenzioni ripropongono un’accusa che spesso è stata rivolta a Battiato: usare le proprie canzoni per uno sfoggio di cultura fastidioso, kitsch e senza senso. Canzoni che devono il loro successo al fatto che chi le ascolta può darsi un tono da intellettuale, risparmiandosi la fatica richiesta dal seguire la musica veramente intellettuale – la dodecafonia, il free jazz, la world music più sofisticata. In breve: Battiato sarebbe un autore di canzonette infarcite di citazioni inutili, che servono solo a far pensare a chi le ascolta che: “no, io le canzonette non le ascolto. Io ascolto Franco Battiato”. Non essendo un vero intellettuale, risulta essere un intellettualoide. Ma quanto c´è di vero in questa critica? Per rispondere a questa domanda, proviamo a partire da alcuni fatti che sembrano confermare un’ immagine negativa del Maestro.

A volte Battiato fa ridere

Il potenziale comico di alcune canzoni di Battiato è difficile da negare. Spesso il senso del comico nasce esattamente da un citazionismo a volte fuori controllo. Era davvero necessario incontrare Igor Stravinskij sulla prospettiva Nevskij? Ermeneutica non è forse un titolo un po´ pretenzioso? È un contributo estetico imperdibile raccontare che in un determinato punto nelle Strade dell´est fece campo tale Mustafa Mullah Barzani? Come ti salta in mente di pensare che due persone che si incontrano ad Alexanderplatz all´epoca del muro come prima cosa si chiedano “Ti piace Schubert?”? E soprattutto, per quale motivo buttare in mezzo a un delirio sul tramonto occidentale la seguente informazione: “Friedrich Nietzsche era veget-ariano, scrisse molte lettere a Wagner”? Davvero è possibile attribuire a queste citazioni una realistica pretesa intellettuale? Tutto ciò non fa semplicemente ridere?

Tramonto occidentale, uno dei momenti più deliranti della produzione del maestro. Synth aggressivi, quasi tamarri, sono il tappeto volante sul quale Battiato sale portandosi appresso i suoi deliri su vichinghi, famiglie in crisi, analisti, sigarette. Capisco che per qualcuno/a può essere davvero troppo.

Questo potenziale comico non è sfuggito a Stefano Bollani. Pianista jazz di livello mondiale, iper-virtuoso dello strumento, nonché efficace cabarettista, Bollani ha dedicato a Battiato Hai mai letto Kundera?, imitazione di un brano ipotetico del maestro. La musica piano-minimal alla Michael Nyman accompagna un testo che riunisce vari topoi di Battiato, come meccaniche celesti, dinastie dei Ming, parole inglesi a caso, oltre a libere re-interpretazioni sul tema, tipo: “pavoni di grandezza inusitata si scagliano sul cielo di Bangkok”. Il tutto cesellato da un drammatico monito: “non sottovalutate Kundera”.

Per qualcuno, l´imitazione di Bollani svolge un ruolo di smascheramento. Attraverso la parodia, si mostra che in realtà le citazioni di Battiato fanno ridere, e quindi non c´è niente di intelligente nell´ascoltare le sue canzoni. Sono appunto solo canzoni, e se fanno ridere, è perché Battiato le investe di pretese intellettuali fallite, il cui fallimento genera appunto un effetto comico. Sono canzoni intellettualoidi.

Questa argomentazione tuttavia è bacchettona e anche poco stringente dal punto di vista logico. Si basa infatti sull’assunto che una canzone che in alcuni passaggi suscita un sorriso sia ridicola o stupida. Ma in quale tavola delle leggi è scritta questa presunta legge della musica? Non è possibile che alcune canzoni di Battiato possano essere apprezzate proprio perché la densità spropositata e delirante di citazioni contribuisca a renderle paradossalmente lievi? Non è possibile che tramite questo delirio citazionista Battiato in realtà si prenda meno sul serio di un cantante indie che ci tiene tanto a farci sapere quanto ha sofferto in età post-universitaria? A volte non è meglio non sapere il senso di una canzone, o la presunta volontà o intenzione dell’autore che l’ha scritta? Certe canzoni non fanno schifo proprio perché purtroppo capiamo fin troppo bene il loro senso e la banale intenzione di chi le ha scritte?

La mia personale risposta a tutte queste domande è: sì. A conferma della mia ipotesi, porto Clamori, una canzone estremamente “intellettualoide” di Battiato, addirittura scritta assieme al mistico francese Henri Thomasson. Una canzone piena di parole difficili, isotopi, “nuclei pulsari, neutroni e quasari”. Eppure, una canzone leggerissima, soprattutto quando il maestro ammette di avere bisogno di “tonnellate di idrogeno”.

A volte Battiato scrive delle canzoni terribili

I critici di Battiato, magari presi in una serata in cui sono disposti/e a riscoprire il fascino di synth hardcore e di parole orientaleggianti, possono concedere questo punto. Ok, a volte le citazioni spropositate di Battiato fanno ridere, addirittura a volte contribuiscono alla levità e alla riuscita della canzone. Ma questo non accade sempre. Ci sono altri contesti sonori in cui il citazionismo contribuisce drammaticamente al disastro sonoro. “Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine”, scriveva il poeta.

Il problema è che a volte i frammenti non fanno da puntello, ma da struttura di episodi musicali a dir poco infelici. Questa lunga intro è il preludio a uno dei brani più sfortunati del maestro: Casta diva del 1998. Un brano fastidioso sin dal suo incipit – “Greca nascesti a New York” – in cui le invettive di Battiato contro il vile che rubò serenità e talento a Maria Callas vengono inframmezzate da acuti campionati della soprano. Ogni volta che la ascolto, una coltre di imbarazzo si impadronisce di me, e non mi abbandona per minuti, a volte persino per ore. Casta diva mi ruba la serenità, soprattutto quando Battiato ci ricorda che Maria Callas era “una ragazzina assai robusta”.

Dunque Battiato, come ogni cantautore/trice del resto, ha avuto le sue cadute. Talvolta queste cadute avvengono anche all’interno di canzoni che definire riuscite sarebbe un eufemismo. Lo so, anche voi state pensando a quel momento in cui nel bel mezzo di una delle canzoni di amore e affetto più struggenti degli ultimi decenni il maestro si ritrova in un campo del Tennessee, senza sapere come vi era arrivato. Ogni volta che ascolto La cura, l’intermezzo mi colpisce come un cazzotto in un occhio con una ferocia che non accenna a diminuire. Non mi colpisce nel senso che mi invita a riflettere, ma semplicemente perché lo trovo singolarmente brutto, fuori luogo e gratuito, soprattutto nel quadro della maestosità della canzone.

https://www.youtube.com/watch?v=UmE7nrfzcCo

“La cura” del 1996 fa parte de L´imboscata, un disco dai suoni eccezionali con musicisti di livello internazionale. Segnaliamo tra gli altri Gavin Harrison, in seguito batterista dei King Crimson. Il passaggio nel Tennessee fa ancora più male in questo contesto.

Le canzoni di Battiato si reggono su un equilibrio fragile, in mezzo a vari azzardi musicali e testuali. Nelle canzoni menzionate l´equilibrio si rompe: la canzone si appesantisce, diventa fastidiosa, a volte quasi imbarazzante. Ma questo non avviene perché in quelle canzoni Battiato smette di fare il canzonettiere e prova a fare l´intellettuale, come vorrebbero i suoi detrattori. Alcune sue canzoni sono piene di riferimenti bizzarri e allo stesso divertentissime, in altre invece la miscela non funziona. È una questione di miscela, non di intenzioni, volontà, aspirazioni intellettuali. La compiacenza con cui qualcuno spera di vedere cadere il maestro nel suo volo oltre le sue reali possibilità è fuori luogo, manca il bersaglio, oltre a essere una forma inutile di moralismo pettegolo applicata alla musica.

Il Battiato incontestabile

Oltre queste polemiche, Battiato è un artista che sembra aver prodotto delle canzoni incontestabili. Difficile trovare anche tra i suoi detrattori qualcuno/a che non sia disposto ad ammettere che anche lui ha fatto delle cose buone. E ti vengo a cercare è uno dei suoi brani meno divisivi, insieme a La cura, forse Povera patria L´animale. Tra i nerds e le nerds della musica sperimentale, il disco pre-svolta pop Sulle corde di Aries del 1973 è una pietra miliare difficilmente contestabile. Personalmente, ammetto di avere un debole per Sequenze e frequenze.

Ma anche qui, al di là delle elucubrazioni mentali sulle presunte intenzioni artistiche, il gusto soggettivo e forse anche la biografia giocano un ruolo insuperabile. Ad esempio per me il Battiato incontestabile è quello di Fleurs (1999). Una raccolta di brani classici degli anni ´60 e dintorni trattati con incredibile rispetto e originalità, proprio dove non ci si aspetterebbe originalità – un album di cover. Una serie di scommesse vinte, tra cui ci si può limitare a segnalare la migliore cover di De André mai registrata (“Amore che vieni amore che vai”), la semplicità di “Te lo leggo negli occhi”, e forse su tutte “Aria di neve” di Sergio Endrigo. Battiato sembra cantarla come se fosse una canzone scritta da sempre, che tutti conoscono ma non hanno mai sentito. E forse proprio un album di cover paradossalmente è il luogo migliore per poter apprezzare Battiato al di là della noia, delle chiacchiere inutili, delle lotte di bassa lega che si addensando attorno a quella parola lì: “intellettuale”.

Battiato come pretesto

Battiato, in breve, è un cantautore che tende a polarizzare. A molte persone non piace, altre lo adorano. Molte altre – ad esempio chi scrive – ama molto alcune sue cose, un po´ meno altre, e trova alcune sue cose davvero infelici. Ogni posizione è ovviamente legittima in sé stessa. Quello che non convince, è attribuire le fortune o le sfortune artistiche di Battiato al suo essere intellettuale, o per i suoi detrattori, “intellettualoide”. Da un punto di vista del giudizio estetico, chi critica le sue canzoni per via della loro presunta intenzione intellettuale, è allo stesso livello di chi le ascolta per sentirsi una persona più elevata culturalmente rispetto a chi si limita ad ascoltare che so, Lucio Battisti. In entrambi i casi, i giudizi sulle diverse persone – su sé stessi, su Battiato, su chi lo ascolta, su chi lo capisce – prendono il posto del giudizio sulla musica.

Colpisce sempre l’accanimento con cui ci si azzuffa per stabilire se Battiato abbia raggiunto lo status di intellettuale, oppure se abbia fallito, rientrando così nella triste categoria di intellettualoide. Ma colpisce ancora di più quanto spesso su questi giudizi si costruisca un’opinione estetica verso la sua musica: Battiato è un grande perché è riuscito nel suo presunto intento di essere un vero intellettuale; Battiato fa schifo perché le sue canzoni non rispettano le sue pretese intellettuali, e quindi risultano intellettualoidi. In questo modo, la musica viene appesantita da considerazioni pseudo-sociologiche e un po’ pulciare – se “ce l´ha fatta”, allora merita il nostro rispetto, altrimenti no, va ridicolizzato, come tutti quelli che vorrebbero innalzarsi al di sopra del loro status e falliscono, e ben gli sta. In entrambi i casi, sembra prodursi un tipico meccanismo di proiezione: probabilmente non è Battiato, ma sono alcuni dei suoi fan e alcuni dei suoi detrattori che lottano per definire e per raggiungere lo status di intellettuale. Usando la musica di Battiato come pretesto.

Estratti dell’articolo di Matteo Santarelli per leparoleelecose.it

TEMPO DI GUERRA

TEMPO DI GUERRA

Mai, negli ultimi decenni, la nostra quotidianità è stata così bruscamente violata dall’ esterno e i nostri gesti più intimi e privati scaraventati nello spazio pubblico, fino a diventare oggetto di specifiche disposizioni normative da parte del governo.

Ma proprio l’ esperienza di questi giorni ci aiuta a capire meglio quello che abbiamo studiato sui libri di storia, avvicinandoci alla comprensione più profonda della nostra esistenza collettiva negli anni tra il 1940 e il 1945 e mettendoci in contatto con una dimensione attraversata dalla paura ma anche da una irrefrenabile spinta vitale.

Il fatto è che, per quanto voluta e gestita dall’ uomo, la guerra, soprattutto la Seconda guerra mondiale nel suo aspetto totalizzante, ha un impatto che somiglia molto a quello della grandi catastrofi naturali (terremoti, alluvioni, epidemie appunto). In questo senso, esattamente come le catastrofi, quella guerra fu in grado di far affiorare i tratti più profondi della nostra identità collettiva, quasi azzerando di colpo le sovrastrutture culturali stratificatesi nel tempo.

italia che balla e si diverte durante la II guerra mondiale-macario

Da noi quel periodo fu vissuto nel solco di abitudini che rimbalzavano con straordinaria uniformità dai diversi contesti («sotto» gli Alleati come «sotto» i tedeschi, nel «Regno del Sud» come nella «Repubblica di Salò»), lasciando trapelare una comunanza di sensazioni così forte da suggerire la possibilità di aggregare sul piano dei sentimenti e dei comportamenti – un po’ come sta avvenendo in questi giorni con i tricolori sui balconi- quanto fino ad allora era sempre stato frammentato geograficamente, economicamente, socialmente.

Per tutti fu «tempo di guerra», un tempo definito dalla ciclica ripetizione di comportamenti coatti, segnati dall’ oscuramento che cancellava la luce naturale, dal coprifuoco che negava le uscite serali e la convivialità, dall’ annullamento della individualità dei singoli giorni in un’ ossessiva ripetitività, al cui interno tutti i giorni erano uguali e tutti erano ugualmente appiattiti su un presente carico di angoscia; un tempo che nella sua indeterminatezza – nessuno sa dirci quando l’ emergenza virus potrà definirsi conclusa – somiglia molto a quello che stiamo vivendo.

italia che balla e si diverte durante la II guerra mondiale- macario

Nell’ Italia in guerra riapparve anche la fame, un male antico che pure sembrava essere stato espulso per sempre dagli scenari urbani della rivoluzione industriale. Ci fu, ovviamente, anche una diffusa paura di morire e fu essenzialmente legata ai bombardamenti. Ma quello che appare oggi particolarmente confortante è che non tutto fu disperazione e paura, e anche negli incubi di una condizione sempre più tragica fece capolino una umanissima voglia di vivere. Ancora a distanza di anni, nei ricordi dei testimoni si avverte la gioia profonda di essere riusciti a strappare anche un solo attimo alla sequenza di eventi distruttivi in cui si era precipitati.

L’ incontro con il cibo, ad esempio: dimenticati il razionamento e il pane con la tessera, nel ricordo ci si riscopre golosi come bambini e il momento di un’ unica mangiata pantagruelica viene rivissuto con la stessa intensità che assumono le descrizioni delle privazioni in cui ci si dibatteva. Durante la guerra si ballava, anche. In famiglia, tra amici, e in quei locali che restavano ancora aperti, lasciando presagire un fenomeno che nell’ immediato dopoguerra si sarebbe manifestato in un vero tripudio di corpi scatenati al ritmo del boogie woogie.

La radio trasmetteva canzoni allegre-demenziali (Maramao perché sei morto? fu un classico) o di un sentimentalismo esasperato («Vieni, c’ è una strada nel bosco…»). Al cinema si rideva con Macario (Imputato, alzatevi!) e un po’ ovunque furono allestiti spettacoli comici, di varietà, di musica leggera. Mentre sette compagnie di prosa portavano dappertutto nella penisola il loro repertorio – erano De Filippo, Donadio, Govi, Baseggio, Anselmi-Abruzzo, Durante e Ciabattini -, significativi successi ottennero anche le compagnie di avanspettacolo, senza dimenticare, nel teatro leggero, l’ operetta, la commedia musicale, la pochade; i consensi più clamorosi andarono alla rivista, che proprio in quegli anni superò per la prima volta – e largamente – gli incassi del teatro drammatico.

Wanda Osiris

Autori come Michele Galdieri e Mario Mangini, artisti come De Sica, Marisa Merlini, Dina Galli, la stessa Paola Borboni (che accettò di calcare le scene del teatro leggero per poter finanziare la sua compagnia pirandelliana) contribuirono a dare dignità e prestigio a questo genere «minore». Un umorismo anche grossolano fu lo strumento per esorcizzare i disagi della guerra: l’ oscuramento serviva agli innamorati per scambiarsi carezze, le restrizioni alimentari favorivano la dieta…

De Sica con Totò

Poi, nel 1943, anche la rivista fu ufficialmente proibita, perché non si confaceva alla tragicità degli avvenimenti che il paese stava vivendo. Erano però consentiti i lavori patriottici. E grazie a questo escamotage tutto continuò come prima. Fu così che le riviste di Vanda Osiri (come si chiamava allora Wanda Osiris), di Totò, di Macario e perfino le sceneggiate napoletane, con la semplice aggiunta di un finalino patriottico-propagandistico, proseguirono nelle loro tournée in tutti i teatri italiani senza risentire delle nuove restrizioni. Anzi, con il proseguire della guerra, il richiamo esplicito al sesso e all’ erotismo si fece più insistito, i puntini delle ballerine più esigui.

Non era solo un problema di temi vietati dalla censura, anche se, indubbiamente, la satira di costume era diventata oggettivamente più difficile; affiorava una dirompente voglia di trasgressione cresciuta solidamente intrecciata alla dimensione sempre più tragica assunta dalla guerra. Così, di fatto, le riviste più «spinte» furono quelle messe in scena proprio nella lunga notte della Repubblica di Salò.

Non scomparve, ovviamente, un’ altra grande passione degli italiani, quella per il gioco del calcio. È vero, a partire dal 1943 anche il campionato di calcio fu sospeso. Ma le partite continuarono. I giocatori del Grande Torino, ad esempio, calcavano i campi di provincia per ingaggi a suon di farina, uova, burro.

Grande Torino

Il calcio aveva una sua spontaneità che non si lasciava imbrigliare nella cupa realtà istituzionale della guerra. A questa spontanea vitalità appartiene anche una curiosa partita giocata in Val di Susa, nella primavera del 1945, tra i partigiani e i tedeschi. Più che un esempio di fraternizzazione si trattò di un sospirato presagio di pace: la guerra sarebbe finita e il mondo avrebbe finalmente ritrovato il tempo e lo spazio in cui collocare le sue speranze per il futuro.
Articolo di Giovanni De Luna per la Stampa

QUEL CHE FA BOCELLI

QUEL CHE FA BOCELLI

Premessa: in questi tempi di epidemia, tutto quel che viene proposto in campo musicale è una cura palliativa. La musica, quella vera, si fa dal vivo per un pubblico dal vivo (e, date le circostanze, si spera anche vivo tout court). Il resto, concerti senza spettatori, spettatori senza concerti, esibizioni on line, opere in streaming, è un surrogato nell’attesa di tornare a far musica come prima e magari più di prima, nonostante serpeggi la pericolosa tentazione di rendere definitivo il provvisorio, perché “tutto non tornerà più come prima” (e perché no? E in ogni caso provarci, no?). Detto questo, ieri a Milano due eventi musicali hanno definito i confini della musica al tempo dell’epidemia: uno in meglio e uno in peggio.

Il meglio

Arriva dalla Filarmonica della Scala. Ieri a mezzogiorno, in segno di vicinanza a chi si batte contro il virus, i suoi professori hanno aperto le finestre delle loro case o sono usciti sui loro balconi per eseguire da remoto una pagina classica di celebrità pop: il Canone in re maggiore di Pachelbel. Lo hanno fatto invitando chiunque fosse in grado o ne avesse voglia a farlo insieme con loro, e mettendo a disposizione suo web lo spartito a chiunque volesse partecipare al flashmob.

L’iniziativa è stata lanciata con un video musicale di auguri: 64 orchestrali hanno suonato Pachelbel ognuno da casa sua, mixando e finalizzando le immagini e l’audio originali che ognuno aveva inciso con il suo smartphone, senza parti preregistrate. L’effetto è tecnicamente straordinario ed emotivamente toccante. La tecnologia al servizio della musica al servizio del sociale: nella vacanza obbligata della musica vera, forse il meglio che si potesse concepire.

Il peggio

E poi, alle 19, è arrivato il reclamizzatissimo concerto di Andrea Bocelli dal Duomo, ovviamente senza pubblico: solo lui, l’organista della Cattedrale, Emanuele Vianelli, le vecchie magnifiche pietre e lo streaming in diretta mondiale. Cinque arie sacre in tutto: in chiesa, il “Panis Angelicus” di Franck, l'”Ave Maria” di Bach-Gounod, “Sancta Maria” di Mascagni (trattasi di un’atroce arrangiamento dell’Intermezzo di “Cavalleria”, la pagina meno sacra che si possa immaginare), il “Domine Deus” della “Petite Messe Solennelle” di Rossini; sul sagrato, “Amazing Grace”. Più un fervorino religioso-patriottico all’inizio e un po’ di belle immagini della città ferita.

Ora, duole dirlo perché Bocelli sta simpatico un po’ a tutti, ma il concerto è stato imbarazzante: incertezze di intonazione, urla disperate per salire a ogni acuto, falsetti da crooner spacciati per piani, suoni oscillanti, legato non pervenuto e così via. Chiunque dotato di orecchie un minimo educate l’ha notato e molti l’hanno anche scritto sui social. Naturalmente, è stato un trionfo: alle 11.41 le visualizzazioni su YouTube erano poco di 25 milioni, un’enormità, quindi chi se ne frega della tanto strombazzata “bellezza”. Bocelli fa benissimo a fare quel che fa, anche se lo fa male.

Al netto di ogni possibile snobismo, il problema è un altro: perché la qualità è incompatibile con i grandi numeri? Perché non si può dare della musica decentemente eseguita a tutti, o almeno a molti? Perché il prodotto deve sempre essere abbassato alla cosiddetta “gente” e non si prova mai ad alzare la gente a un prodotto presentabile? O a cercare almeno un accettabile compromesso? Bocelli non ha colpa: è un prodotto di marketing costruito per piacere, e infatti piace (anche a me, in effetti, quando fa quel che sa fare, cantare canzoni).

Il problema sta altrove. Il problema è di chi il gusto collettivo dovrebbe indirizzarlo, plasmarlo, cercare di alzarlo. In questo campo come altrove, la vera colpa delle élite è di non esserlo abbastanza.  Il problema è la trahison des clercs. Il problema è sindaco Sala che annuncia tutto fiero l’epifania di Bocelli come chissà quale conquista, in una città che di musica “colta” rigurgita, che dispone del teatro d’opera più famoso del mondo, diverse orchestre sinfoniche, infinite associazioni musicali e Quartetti e rassegne. Il problema è il ministro Franceschini, che nella bella intervista di ieri alla “Stampa” parla di tutto, librerie, musei, cinema, ristoranti, alberghi, spiagge e non spende una parola che sia una per i teatri d’opera. Il problema è il Tg1 che, magnificando la festa d’arte in Duomo, citando il belga francofono César Franck lo chiama “Cìsar Frenck”, all’americana. E allora tout se tient, per restare al francese.

Alberto Mattioli per www.lastampa.it

VIENE DA ME, COME BUON PASTORE

VIENE DA ME, COME BUON PASTORE

O Cristo, amato figlio di Dio.

Tu salpasti per il mare tempestoso delle menti piene di preconcetti.

I loro pensieri crudeli come onde frustarono il tuo tenero cuore.

Il tuo Giudizio sulla Croce fu una vittoria immortale dell’umiltà sulla forza, dell’anima sulla carne.

Possa il tuo ineffabile esempio incoraggiarci a sopportare con coraggio le nostre più piccole croci.

O Grande Amante dell’umanità’ tormentata dall’Errore.

Un monumento invisibile  è stato eretto in miriadi di cuori,

il più’ grande miracolo dell’amore: le tue parole “ perdonali, perché non sanno quello che fanno”.

Rimuovi dai nostri occhi la cataratta dell’ignoranza,

così che possiamo vedere la bellezza del tuo messaggio: “ama anche i tuoi nemici come te stesso.

Ammalàti nella mente o addormentati nell’illusione, sono ancora i tuoi fratelli”.

O Cristo Cosmico, fai che possiamo sconfiggere Satana,

l’egoismo che divide e che impedisce il dolce accordo fra tutti gli esseri umani

nell’unico gregge dello Spirito.

Tu sei la Perfezione, eppure sei stato crocifisso:

Insegnaci a sopportare le inevitabili prove della vita:

la quotidiana sfida delle avversità’ alla nostra forza,

della tentazione al nostro autocontrollo,

dell’incomprensione alla nostra buona volontà’.

Gyana Mata

Purificàti nel contemplarti, moltissimi devoti profumano le loro vite

con le emanazioni che provengono dalla tua anima fiorita.

O buon pastore! Tu guidi il tuo gregge infinito

verso i Pascoli sempreverdi della Pace.

La nostra più grande aspirazione è di vedere il Padre Celeste

con gli occhi aperti della saggezza, come fai tu;

e come te di riconoscere che siamo veramente i Suoi Figli.

Amen

Traduzione dall’inglese di Kyokosuzumiya

Questa poesia  è stata scritta da Yogananda verso il 1950, uno Yogi nato in India nel 1893, a lungo vissuto in America, dove fondò il  Self-Realization Fellowship, centro di spiritualità presto diffusosi in tutto il mondo. Gyana Mata è stata discepola di Yogananda.

La poesia risente dell’insegnamento di Yogananda che nel libro La seconda venuta di Cristo, commenta i Vangeli, con l’approccio mistico tipico dell’induismo. La conoscenza del divino diviene possibile attraverso la pratica della meditazione che permette la compenetrazione tra realtà terrena e quella trascendente. La seconda venuta non è quella nella storia, ma nella nostra sfera interiore, destinata a cambiare il destino della persona.

LA PAROLA E LA LEGGE

LA PAROLA E LA LEGGE

L’ex direttore del Madre Eduardo Cicelyn condannato alla quarantena per un articolo dove descrive le sue passeggiate in scooter per Napoli. Che ne pensa De Luca?

eduardo cicelyn

Andare a zonzo in motorino per le strade deserte di Napoli, senza una meta precisa, senza l’assillante rumore del traffico e la presenza incombente delle altre innumerevoli attività antropiche. Vis a vis con gli scorci silenziosi che si aprono tra un palazzo e l’altro, all’improvviso dopo una curva. Un’esperienza che tutti dovrebbero fare almeno una volta nella vita, un’esperienza rara, che può capitare giusto in qualche ora di qualche giorno di metà agosto. In questi giorni invece è piuttosto comune (qui potete collegarvi a una webcam live sul lungomare di via Caracciolo, ovviamente solitario) ma nessuno può fruirne, tranne chi è impegnato per lavori di pubblica utilità e, quindi, non è propriamente concentrato sul paesaggio e sull’atmosfera. E chi lo fa, violando le leggi che limitano gli spostamenti per contenere la diffusione del Coronavirus, è passibile di sanzioni varie, che vanno dalla multa all’arresto. Isolamento domiciliare per 14 giorni nel caso di Eduardo Cicelyn, insomma, quarantena, una “condanna” appioppatagli dalla Asl di Napoli, non in seguito una “flagranza di reato” ma a causa di una sua pubblica ammissione, non troppo candida.

Anish Kapoor ed Eduardo Cicelyn. Photo Casamadre

L’ex direttore del Madre e attuale direttore di Casamadre, galleria d’arte contemporanea a Palazzo Partanna, qualche giorno fa scriveva, sulla pagine del Corriere del Mezzogiorno, che «Ogni giorno alle 12:30 prendo lo scooter e per un paio d’ore vado a zonzo nella città deserta e bellissima. Non credo di far danno a nessuno. Non costituisco pericolo di contagio. I miei simili li vedo da lontano, da una distanza che neanche un campione mondiale di sputo potrebbe sognare di coprire». Il novello Umberto Masetti racconta di aver sfidato il coprifuoco e di essere sfuggito «Al panopticon di De Luca, il politico più occhiuto dai tempi di Bentham. Fingo di andare a far la spesa. Certo qualche volta mi fermo a far la fila al supermercato, ma una volta su quattro. Con la tessera di giornalista in tasca mi sento al sicuro da eventuali annunciatissime denunce».

Umberto Masetti, il primo “divo” delle corse motociclistiche

E poi via su questo filone narrativo, descrivendo le meraviglie della città che solo i più fortunati o scaltri con il manubrio possono vedere. Apriti cielo. Chiaramente l’articolo è finito sulla scrivania dell’Unità di Crisi regionale, che ne ha segnalato il contenuto alla Prefettura di Napoli, «per ogni possibile conseguente azione». E così la Asl Napoli 1 Centro ha emanato il suo verdetto, come da ordinanza del presidente della Regione Campania n°15 del 13 marzo 2020, attivando il Dipartimento di Prevenzione e l’Unità Operativa Prevenzione Collettiva per porre in domiciliazione fiduciaria il reo confesso Cicelyn. Fiduciaria, cioè su base volontaria, non forzata. In soldoni, 14 giorni in cui è caldamente consigliato evitare gite fuori porta su due ruote. Ma anche su quattro o a piedi.

«Un assurdo e ignobile attacco alla libertà di stampa, di pensiero e di espressione», ha commentato Cicelyn nel suo accorato J’accuse. «Non ho violato l’ordinanza ma vengo “arrestato” per un reato di opinione, per aver raccontato i fatti miei in pubblico, come neanche in epoca fascista. È una roba da potestà, sindaci e governatori stanno facendo campagna elettorale sulla nostra pelle. Posso aver scritto tutte le sciocchezze di questo mondo, ma ho la libertà di farlo e nessuno può mettermi in carcere per questo, neanche sotto i bombardamenti». «Si dice che bisogna salvare i nostri valori democratici, in questo caso la salute dei più deboli, per costringere tutti o almeno la maggioranza a dismettere pensieri critici e argomenti polemici».

Matrimonio a Napoli al tempo del COVID -19

«Non vi è alcun attacco alla libertà di stampa» o «repressione di reati di opinione», ha risposto la Asl Napoli 1 Centro, che «si è limitata a dare esecuzione a provvedimenti adottati in base alla legge». Secondo la Asl, «Cicelyn ha raccontato di avere violato sistematicamente le prescrizioni e i divieti imposti da provvedimenti amministrativi contingibili e urgenti, adottati a tutela della salute pubblica e per tali violazioni, oggetto di spontanea dichiarazione confessoria, l’ordinanza n. 15 del 13 marzo 2020, adottata dal presidente della Regione Campania, impone l’obbligo immediato per il trasgressore di osservare la permanenza domiciliare con isolamento fiduciario, mantenendo lo stato di isolamento per 14 giorni, con divieto di contatti sociali».

Insomma, da una parte l’appello alla libertà di parola, dall’altra l’applicazione della legge, essa stessa parola. Quindi niente di nuovo, si tratta di due scritture che spesso, nella storia, non sono andate d’accordo: Cicelyn sarà “punito” per un comportamento che va al di là della norma e, d’altra parte, sarà proprio il fardello di questa “punizione” a rendere efficace il movente del suo articolo.

Articolo apparso sul Corriere del Mezzogiorno

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