IL PD (RI)CAMBIA NOME

IL PD (RI)CAMBIA NOME

Già Zingaretti voleva ribattezzarlo. Ora tocca a Letta. In pratica è una sindrome

Ci risiamo.Vogliono (ri)cambiare il nome al partito già quadrinominato. Ora lo vogliono chiamare “democratici”. Così. Secco.Tiè: democratici. Punto.L’importante è badare al sodo. Siamo o non siamo nell’epoca dei 140 caratteri? Dunque sintesi. Non più Pd. Via. Basta la D.

A quanto pare Dario Franceschini lo ha già proposto a Enrico Letta, il quale, appena diventato il nuovo segretario, aveva d’altra parte fatto questa dichiarazione: “Non c’è bisogno di un nuovo segretario ma di un nuovo Pd”. A parte l’assonanza con la famosa pubblicità del “pennello grande e del grande pennello”, queste parole già alludevano a speciali voglie da novatore battesimale. Un fenomeno che a pensarci bene è la sola cosa ferma, certa, familiare, rassicurante e ripetitiva che riguardi il partitone della sinistra italiana. Infatti è da novembre del 1989 che questi cambiano continuamente nome al loro partito. Da quando cioè Achille Occhetto avrebbe voluto chiamare il Pci “Comunione e Liberazione” ma purtroppo il nome esisteva già e allora ripiegò su Pds. Neanche dieci anni dopo arrivò D’ Alema con “La Cosa 2”, tipo horror di John Carpenter. E da quella pancia ( ma questo è un altro film: Alien) spuntarono fuori i Ds, i democratici di sinistra. Il tutto mentre dalla Dc intanto germinavano mostriciattoli dai nomi più o meno impronunciabili tipo ciccidì, cidiù, udiccì, udierre. E infine la botanica, anzi floreale, Margherita, che per innesto agronomico sulla Quercia fece venire fuori un Ulivo che poi rinsecchì per rinascere Partito democratico. Sembra una canzone di Angelo Branduardi, o una puntata di “Linea Verde”, ma è andata così. All’incirca.

Ma il punto è un altro. Il punto è che appena da quelle parti c’ è un nuovo segretario, il poveretto si guarda intorno, serrale mascelle ed esprime il bisogno urgente, anzi viscerale-per non dire intestinale – del cambiamento. E che sia estetico. Simbolico. Importante. E ora che faccio? Passo da Botteghe Oscure al Loft, come minimo. Già Nicola Zingaretti a ottobre dell’anno scorso disse che “daremo vita a un nuovo partito ”. Poi a novembre cominciò a temere che tutto fosse già stato cambiato, e così tante volte per giunta, che forse l’unica cosa che poteva cambiare lui per lasciare traccia del proprio passaggio era organizzare un trasloco. “Vorrei cambiare la sede del Pd”, disse .“Dobbiamo aprire una nuova e bella sede con una libreria al pianoterra ”. Purtroppo non ha fatto in tempo. S’è dovuto dimettere prima. Ma ora per fortuna tocca a Enrico Letta. Dice il saggio di Publitalia: “L’esca del negoziante è la novità”. Si potrebbe tuttavia forse pretendere che non insistano nel chiamare nuovo, originale, stimolante ed eccitante l’eterno periplo del loro dito attorno allo stesso uovo.

Articolo di Salvatore Merlo, il Foglio

IL CAZZO EBREO

IL CAZZO EBREO

Dopo Fabrizio Corona e Lapo Elkan ecco Katharina. Continua la provocazione editoriale di Elisabetta Sgarbi che fa il botto con uno scomodo e urticante romanzo colmo di fantasie sessuali di un’esordiente di talento.

«Siamo stati abituati soltanto a ebrei morti o disperati che ci guardano da innumerevoli fotografie grigie, o da qualche remoto luogo d’esilio senza mai sorridere, e noi perpetuamente debitori nei loro confronti».

Mentre è sdraiata sul lettino del suo psicanalista, la protagonista del caustico, esilarante romanzo d’esordio di Katharina Volckmer, Un cazzo ebreo (La nave di Teseo), si lascia andare alle sue eretiche fantasie sessuali con Adolf Hitler, al sogno di una bambina gonfiabile per donne e rivela il lato oscuro della glorificata Vergangenheitsbewaeltigung, del fare i conti col proprio passato di cui la Germania va molto fiera.

Katharina Volckmer

Agli occhi della protagonista, quel modo di trattare la Shoah si è ridotto a una sorta di gigantesco feticismo collettivo. Tanto che il senso di colpa verso gli ebrei raramente si è tradotto nel desiderio di interagire con una cultura che, prima del nazismo, ha permeato quella tedesca come nessun’altra.

Ecco la presentazione che ne fa la casa editrice:

In un elegante studio medico di Londra, una giovane donna è distesa sul lettino. Scorge a malapena i capelli radi e le mani raffinate del suo medico, il dottor Seligman, mani a cui ha affidato la scelta più radicale e rivoluzionaria della sua vita. Inizia così il romanzo sovversivo, irriverente e audace di Katharina Volckmer: un flusso di pensieri che la protagonista, nata e cresciuta in Germania e trasferitasi a Londra, fa sbandare vorticosamente tra inconfessabili fantasie sessuali con protagonista Hitler, idiosincrasie folli e liberatorie, la memoria di una madre autoritaria e di un padre volatile, la vergogna di un’eredità irrimediabile, il senso di isolamento in una società che ci vuole per forza normali, privi di contraddizioni nei nostri corpi felici, e il racconto di un amore non convenzionale, mai sufficiente, eppure totale.
Con ironia e schiettezza la protagonista irresistibile di Un cazzo ebreo mette a nudo il nucleo più disarmato della propria vita interiore, si interroga sul potere della riparazione e ci mostra come possiamo rimediare ai fatti della storia con le nostre più intime scelte personali.
L’esordio esplosivo di una nuova grande voce letteraria internazionale, un romanzo incontenibile e struggente che, di fronte alla nostra irriducibile solitudine, suggerisce le uniche possibili risposte: accettarsi, perdonare, amare.

RISATE CHE SONO PUGNI

Da Londra, dove vive da quindici anni, Katharina Volckmer ci spiega al telefono cosa intende, quando scrive che i suoi connazionali sono stati abituati solo agli ebrei morti o disperati: «Direi che è una sintesi. Sono cresciuta in Germania, sono andata a scuola lì. Gli ebrei sono onnipresenti, ma non come qualcosa di vivo, bensì come qualcosa di museale, di morto. La vita ebraica non è presente in Germania come lo è ad esempio negli Stati Uniti. È tutto molto astratto, e ha poco a che fare con la vita quotidiana. Anche quando si piange per la Shoah, la si piange non come una perdita mostruosa per la collettività, ma come un lutto per qualcosa che è “altro da sé”».

Il romanzo è un lungo sfogo che avviene in uno studio psicanalitico londinese, è un monologo perturbante con un dottore ebreo, Seligman. Un flusso di coscienza senza tabù – cosa più unica che rara per una scrittrice tedesca alle prese col passato nazista – in cui la protagonista oscilla tra il rifiuto del suo corpo e di una femminilità imposta, il lutto per un amore finito con un certo “K” e le proibite fantasie sessuali con il Führer.

Il romanzo strappa spesso risate che sono pugni. «Si è mai immaginato Hitler in pigiama, dottor Seligman, che si sveglia con i capelli arruffati e inciampa in camera sua mentre cerca le pantofole?».

È ironico, audace, esplosivo. Ma anche arguto, profondo, geniale. Gli aggettivi andrebbero dosati con parsimonia e prudenza, ma di fronte al romanzo esordio di Katharina Volckmer, “Un cazzo ebreo” (La Nave di Teseo), sia la prima che la seconda risultano inadatte. Il suo libro è già stato classificato come il più provocatorio del 2021, il suo flusso di pensieri, che scorrono ininterrotti pagina dopo pagina disturba e coinvolge. È un capolavoro? Si è già detto anche questo.

Dalla recensione apparsa su Linkiesta a firma di Dario Ronzoni

COME SAMUEL BECKETT

Volckmer si è ispirata anche a Thomas Bernhard, forse lo scrittore più implacabile sulla grande rimozione del nazismo nel suo Paese, l’Austria. E la scrittrice trentatreenne ha deciso di scrivere il suo romanzo in inglese.

Non tanto per ottenere l’effetto di straniamento di Samuel Beckett, il grande genio irlandese che scriveva in francese, quanto «per impormi dei limiti. Quando non scrivi nella tua lingua madre tendi a disciplinarti, a misurare le parole, a tagliare gli aggettivi, a semplificare. E su di me il fatto di scrivere in inglese ha anche avuto un effetto creativo».

Leggendo Un cazzo ebreo si fanno scoperte strepitose che riguardano l’identità tedesca. In Italia siamo ossessionati dal fatto che in Germania “debito” e “colpa” siano la stessa parola, Schuld. E siamo ormai sepolti da dotte riflessioni sulle ragioni di quell’indistinguibilità. Ma Volckmer ci insegna anche che non esiste una parola tedesca per “desiderio”, inteso in senso sessuale. Esiste la lussuria, la parola Lust, e il sesso dunque legato a un vizio capitale.

Colpa di Lutero? Volckmer ride di gusto: «Non so, forse sì, anche. I tedeschi sono persone molto, molto serie. Qui a Londra racconto sempre che in Germania c’è questa difficoltà a ridere, questa diffusa pesantezza. Ma mi chiedo anche se sia legato alla storia».

«L’ANTISEMITISMO NON È SPARITO»

Volckmer non è sorpresa per quello che viene definito un “ritorno” di antisemitismo in Germania: «Non è un ritorno. Io penso che non sia mai sparito. Nonostante la meticolosa analisi storica, l’indubbio sforzo di fare i conti con la Shoah, a un certo punto c’è anche stato il tentativo di archiviare quel capitolo della storia. Come se non ci fosse stata una continuità col nazismo, dopo il 1945. E ho anche l’impressione che non se ne parli volentieri, di quella continuità, neanche oggi. Il risultato è che indossare una kippah in Germania è ancora pericoloso, e questo è davvero tristissimo. A pensarci bene, in Germania si è cominciato anche tardi a fare un’analisi seria del nazismo, con la generazione del ’68, con il processo Eichmann».

C’è una terza generazione di tedeschi, come Nora Krug o Géraldine Schwarz, che hanno cominciato a interrogare la storia delle proprie famiglie per sollevare il velo di ipocrisia che ha resistito per decenni attorno ai presunti tedeschi che non sapevano o che si sentirono costretti a obbedire. In realtà, molti di essi erano convinti adepti di Hitler, ma nelle storie tramandate da figli e nipoti si trasformarono in nazisti riluttanti, costretti alle atrocità dalla ferocia della dittatura. «A me fanno persino arrabbiare frasi come “Hitler invase la Polonia”», riflette Volckmer. «Non era Hitler, erano cittadini tedeschi che invasero la Polonia».

«NOI SIAMO EREDI DELL’ORRORE»

La scrittrice ricorda che ai tempi in cui andava a scuola, a Berlino ci fu una famosissima, contestata mostra sulla Wehrmacht: «Fino ad allora, per decenni, si era raccontata la favola di un esercito di bravi tedeschi obbligati a combattere. Quando venne fuori che erano stati anche criminali di guerra, che avevano commesso immense atrocità, ci furono addirittura delle proteste. Il tema del libro è questo: noi siamo gli eredi di quell’orrore. È doloroso, ma è così».

La bellissima copertina del libro

Il romanzo uscito ora in Italia è già stato pubblicato nel Regno Unito, negli Usa, in Spagna e in altri paesi. Mentre la storia della sua pubblicazione in Germania è stata lunga e faticosa. Certamente non è un caso, vista la sua stupenda ferocia.

«Sì, il libro uscirà in Germania in estate, ma è stato un percorso accidentato e tormentato. Non lo voleva fare nessuno. E gli editor erano estremamente irritati. Non lo trovavano affatto divertente. Sembrava davvero che nessuno avrebbe avuto il coraggio di farlo. Poi ho trovato un editore che ha fondato una casa editrice per pubblicarlo».

E Volckmer ha anche parlato nel frattempo con la traduttrice, Milena Adam. «Le ho detto, ma sei sicura di volerlo tradurre? E lei mi ha detto una cosa molto intelligente. Che la destra non avrebbe mai potuto metterci il cappello».

Un altro tema fondamentale del libro è il rapporto della protagonista con la sua femminilità. Anche lì Volckmer rompe molti tabù, tematizza la masturbazione, lascia spazio a sfrenate ed esilaranti tirate sul sesso, riflette del significato di una fellatio in un bagno pubblico, si esercita estesamente su argomenti sui quali alle donne viene insegnato ancora oggi che sia più opportuno tacere.

«Sì, è vero, è l’altro grande tema del libro: come suddividiamo i corpi. Lo schema binario dell’uomo o della donna è troppo fisso. E la protagonista tenta di scapparne. Ma è stata educata così, alla femminilità come dovere, schiacciata da un’immagine molto prepotente imposta alle donne, e ai loro corpi. Bisognerebbe cominciare dalla prima infanzia, quando sarebbe importante dire alle bambine che sono intelligenti. E non solo che sono belle».

Tonia Mastrobuoni per “Il Venerdì – la Repubblica”

LA RISCOSSA DEGLI OVER 70

LA RISCOSSA DEGLI OVER 70

Dopo più di trent’anni Paul McCartney vola in cima alle classifiche. Con lui anche Ringo, i Rolling Stones, Phil Collins. E’ la riscoperta del rock

Sir James Paul McCartney, nato a Liverpool il 18 giugno 1942, ha pubblicato a dicembre 2020 il suo ultimo album “McCartney III”, arrivato in testa alle classifiche (Olycom)

Non gli succedeva dal 1989. Trentuno anni dopo, Sir Paul McCartney, alla bella età di 78 anni e mezzo, ha visto un suo album volare al primo posto in classifica nel Regno Unito. “McCartney III”, il disco inciso dall’ex Beatle durante il lockdown, in cui come nei due precedenti “McCartney” della sua produzione solista il bassista mancino suona tutti gli strumenti, ha spiccato il volo in Gran Bretagna ma anche negli Stati Uniti, dove il disco ha portato a uno storico record di vendite di vinili. I fan dell’ex Beatles, infatti, sono accorsi in massa, nella settimana prima di Natale, a comprare la versione in vinile di “McCartney III”, dando vita così alla migliore settimana di vendite per il formato dall’epoca dell’affermazione dei cd, con oltre 1,8 milioni di esemplari venduti. Per la prima volta dal 1986, quindi, alla fine del 2020 i vinili hanno superato le vendite dei compact disk per quattro settimane.

Il baronetto di Liverpool ha festeggiato sui social i suoi (ennesimi) record, esibendosi in un gustoso balletto celebrativo del suo primo numero uno negli Stati Uniti in 31 anni. Era dai tempi di “Flowers in the dirt”, forse l’ultimo grande disco della produzione solista dell’autore di “Yesterday”, che McCartney non si accomodava in vetta alla Billboard.

Copertina di Howers in the dirt

Sir Paul, classe 1942, se l’è giocata testa a testa con Taylor Swift la partita per primeggiare in classifica. E pensare che la cantante americana è nata nello stesso anno in cui l’ex Beatle aveva conquistato l’ultimo numero uno, con un album di gran qualità in cui spiccavano alcuni brani composti a quattro mani con Elvis Costello come “My brave face”, da qualcuno ritenuta come la più beatlesiana delle sue hit da solista. Nonnetti alla riscossa, insomma: il rock è diventato grande, le icone della sua stagione d’oro invecchiano ma resistono pugnaci come punti di riferimento sulla scena musicale, pur marciando verso gli ottanta anni. Traguardo già raggiunto da Ringo Starr, il batterista dei Beatles che ha spento 80 candeline il 7 luglio dell’anno scorso e che è pronto a uscire il 19 marzo con “Zoom In”, un extended play con cinque canzoni nuove di zecca. Il 17 dicembre è già uscito “Here’s to the Nights”, il primo singolo dell’album che parla di pace, amore e amicizia composto da Diane Warren, che vede partecipare nei cori nomi importanti, tra cui Dave Grohl (Nirvana, Foo Fighters), Lenny Kravitz e Joe Walsh. Immancabile, ovviamente, la presenza nel disco dell’amico di una vita Paul McCartney. I baronetti Ringo e Paul ancora insieme, 158 anni in due e tanta voglia di suonare: Starr sui social si è detto rammaricato di non poter partire a far concerti per via delle restrizioni da Covid.

Ringo Starr

La riscossa degli over 70 è un fenomeno molto interessante nell’industria discografica. Le piattaforme digitali hanno permesso alla platea dei più giovani di riscoprire agevolmente i grandi classici del pop e del rock. Nel 2019, per i 50 anni dall’uscita del leggendario “Abbey road”, Spotify rese noti i dati sugli ascoltatori dei brani dei Beatles, rivelando che i Favolosi Quattro impazzavano tra i giovani: in totale, a ottobre 2019, il quartetto di Liverpool era stato ascoltato sulla piattaforma di streaming circa 1,7 miliardi di volte e la fascia demografica maggiormente interessata all’ascolto era quella che va dai 18 ai 24 anni. Anche Deezer, altro servizio musicale in streaming, rese pubblici nello stesso periodo alcuni dati demografici riguardanti i Beatles, svelando che il 27 per cento degli ascoltatori dei Fab Four aveva un’età inferiore a 25 anni, mentre il 68 per cento dei flussi proveniva dagli under 45, cioè tutta gente nata dopo lo scioglimento della band avvenuto nella primavera del 1970.

E così, il terribile 2020 che ci siamo lasciati da poco alle spalle, ha visto volare in alto nelle classifiche la vecchia guardia. Non solo Paul McCartney: ai piani altissimi si sono visti anche i Queen. A ottobre quel che resta della band dopo la morte di Freddie Mercury e il ritiro dalle scene di John Deacon ha pubblicato “Live around the World”, album dal vivo che raccoglie registrazioni degli ultimi otto anni di tour fatti da Brian May e Roger Taylor insieme ad Adam Lambert. Tornando, anche sull’onda lunga del recente fortunatissimo biopic “Bohemian Rhapsody”, in testa alla chart d’oltremanica che avevano conquistato per l’ultima volta nel 1995 con “Made in Heaven”, l’album pubblicato quattro anni dopo la morte di Mercury. Niente male per i “ragazzi” May e Taylor, rispettivamente 73 e 71 anni.

I Queen: May. Taylor e Lambert

E in classifica nello stesso anno ha messo le ali anche un altro veterano come Phil Collins, settant’anni tra qualche giorno. L’ex Genesis quest’estate ha visto il suo “In the air tonight”, singolo del primo album solista “Face Value”, 1981, raggiungere a sorpresa il secondo posto della classifica di iTunes negli Stati Uniti grazie a due fratelli gemelli, conosciuti su YouTube come Twinsthenew Trend (e forti di ben 338mila fan) che con il loro “reaction video” mentre ascoltano l’assolo di batteria di Collins diventato virale hanno rilanciato la vecchia hit del musicista inglese. Un evergreen in qualche misura già familiare ai più giovani per una esilarante scena cult di “Una notte da leoni” in cui Mike Tyson in persona mette al tappeto uno dei protagonisti.

Un milione e 800mila fan dell’ex Beatles, la settimana prima di Natale, hanno comprato la versione in vinile di “McCartney III”. A ottobre i Queen hanno pubblicato le registrazioni degli ultimi otto anni di tour fatti da Brian May e Roger Taylor. Nel 2020 Bob Dylan, che compirà ottant’anni a maggio, ha raggiunto il numero uno in classifica nel Regno Unito.

Al “caso” del video dei fratelli youtuber che ha fatto schizzare in su gli ascolti del classico di Collins, il New York Times ha dedicato un lungo articolo. Nel pezzo dal titolo “Cosa ci dicono Phil Collins e i gemelli di Youtube sulla musica” sul quotidiano newyorchese, Sandra Garcia scrive come “la scoperta della musica può essere un’esperienza di gioia”. E questo perché, se è vero che oggi le piattaforme digitali come Spotify offrono ai più giovani una sconfinata possibilità di scelta e di scoperta anche dei “classici”, è pur vero, sottolinea l’articolo del New York Times, che gli algoritmi delle suddette piattaforme intruppano i giovanissimi in un labirinto di musica contemporanea rendendo più arduo l’avventurarsi sui sentieri del passato. Chi ascolta musica navigando secondo i “suggerimenti” delle piattaforme tende a restare intrappolato sempre nello stesso genere, avvertono gli addetti ai lavori. E allora, per non limitarsi alla musica cucita addosso su misura dagli algoritmi, occorre avere il coraggio di osare e andare oltre e curiosare per sperimentare lo stesso entusiasmo dei gemelli americani di YouTube nell’ascoltare per la prima volta pezzi epocali della musica del secolo scorso (oltre a quello di Collins ci sono altri simpatici video che immortalano il “primo ascolto” di altri grandi classici).

Phil Collins

Il battage di altri media di certo aiuta questo processo di riscoperta. La popolarità dei Queen tra i più giovani come detto è schizzata dopo il film da Oscar sulla vita di Freddie Mercury diretto da Bryan Singer e interpretato da Rami Malek, che si è portato a casa la pregiata statuetta. E lo stesso McCartney sta vivendo una nuova ondata di popolarità tra i giovani dopo lo straordinario successo della sua apparizione in tv al “Carpool Karaoke” di James Corden, una ventina di minuti entrati nella storia della televisione, con il baronetto che porta in giro il conduttore nei luoghi della sua Liverpool, dalla sua vecchia casa alla mitica Penny lane: un’autentica delizia che ha conquistato, grazie anche alle condivisioni virali sui social, molti giovani.

In forza di questi meccanismi, gli over 70 possono ancora scalare le classifiche. E non parliamo solo di rock o di pop, ma anche della musica autoriale. Anzi, da Nobel. Nel 2020 Bob Dylan, che compirà ottant’anni a maggio, ha raggiunto il numero uno in classifica nel Regno Unito (il numero 2 in America). Mister Zimmerman è così diventato il più vecchio, meglio “anziano”, musicista a riuscirci con materiale inedito, con il suo album “Rough and Rowdy Ways”, acclamato dalla critica. Insomma, i mostri sacri vendono ancora. E hanno ancora voglia di registrare dischi. I Rolling Stones sono usciti nel 2020 con un nuovo singolo, “Living in a ghost town” (ispirata dalle “città fantasma” del lockdown) e si preparano a sfornare l’ennesimo album nuovo di zecca quando potranno tornare in studio in sicurezza. Le quattro Pietre Rotolanti superstiti hanno un’età compresa tra i 73 anni di Ronnie Wood e i 79 suonati di Charlie Watts.

E va detto che il materiale sfornato dai mostri sacri nella loro terza età è tutt’altro che da buttar via, anche secondo la critica. Rolling Stone ha stilato la classifica dei cinquanta migliori album del 2020, in cui primeggia “Folklore” di Taylor Swift. In mezzo a Lady Gaga, Dua Lipa e alle altre stelle del ventunesimo secolo, ecco al quarto posto il disco di Dylan, al dodicesimo il settantunenne Bruce Springsteen con “Letter to you” e più sotto McCartney e “Power up” degli australiani Ac/Dc capitanati dall’eterno Angus Young, 65 anni compiuti a marzo 2020.

Bruce Springteen

A proposito di vendite, il fenomeno non si replica in Italia, dove scorrendo l’elenco dei singoli e degli album più venduti nel 2020 imperversano solo “giovani” o per lo meno artisti ascoltati dai giovani (decisivi sono gli ascolti in streaming). Insomma. Nello scenario nostrano i vecchi mostri sacri non sfondano in classifica, surclassati dai vari Marracash, Sfera Ebbasta, Ghali e Boomdabash. Eppure, quando la discografia di Lucio Battisti è approdata, attesissima, sulle piattaforme streaming, i brani del musicista di Poggio Bustone hanno fatto segnare numeri di tutto rispetto. Ma anche in Italia i classici, seppur quelli stranieri, si fanno comprare. Soprattutto in vinile, dove tra i dieci più venduti dell’anno si trovano i vari Ac/Dc e Queen, sempreverdi che i nostalgici del buon vecchio giradischi non si lasciano sfuggire.

Negli anni Sessanta, cantando l’irrequietudine di una generazione in “My generation”, gli Who dicevano: “Spero di morire prima di diventare vecchio”. Correva l’anno 1965. La canzone l’aveva scritta Pete Townshend (influenzato dalle teorie di Gustav Metzger, che nel ‘59 pubblicava il Primo Manifesto dell’Arte autodistruttiva), oggi settantacinquenne, e la cantava Roger Daltrey, che oggi va per i 77. I loro due compagni di avventura, il folle batterista Keith Moon e il virtuoso bassista John Entwhistle in effetti morirono prima di invecchiare. Ma alla fine, chi la fortuna di diventare vecchio ce l’ha avuta, anche tra le rockstar, ha scoperto che forse non era poi così male.

Articolo di Salvo Toscano per il Foglio Quotidiano

DARIO E LA META’ OSCURA

DARIO E LA META’ OSCURA

L’incontro con la paura nell’educazione sentimentale di Dario Argento. La scoperta della metà oscura della sua personalità, mondi sconosciuti che il regista frequentava con entusiasmo, fra immaginazioni spaventose e immagini orribili, puntualmente riproposti nei suoi film.

Non potendo più farlo in piscina −«Sono chiuse quasi da un anno» − Dario Argento nuota nella vasca delle sue fantasie. Lo fa fin da bambino: «I miei genitori mi portarono a vedere l’Amleto con loro, niente fu più uguale a prima».

E continua a inseguire visioni e inquietudini mentre su Roma pioggia e sole si alternano al ritmo dei ricordi. Ha amato molto ma, giura, la sua «grande compagna di vita è rimasta la solitudine. Ho avuto molti amori, è vero, ma erano passioni che andavano e venivano proprio come le tante donne che ho avuto vicino».

Con la distanza del tempo i contorni sfumano e le responsabilità sono dettagli meno rilevanti di quelli che nei suoi film svelavano l’assassino: «Può anche darsi che il colpevole fossi io perché starmi accanto non era facile. Ero capriccioso, esigente, incostante e quasi sicuramente anche geloso».

Di tagli netti e dissolvenze, la vita di Dario Argento è piena. «Della mia infanzia, molto serena, ricordo soprattutto l’incontro con la paura. Mi ha fatto scoprire mondi sconosciuti di cui i miei amici e i miei fratelli non avevano neanche la più lontana idea.

Io invece, grazie alla lettura e alla fantasia, li frequentavo con entusiasmo. Scoprivo abissi della mente, derive a cui ancorarmi, racconti dell’orrore, opere liriche e tragedie che in seguito, nel mio lavoro, si sarebbero dimostrati fondamentali».

Dario Argento

Cos’altro si è dimostrato fondamentale?

 Avere consapevolezza del fatto che c’era una parte di me capace di pensieri orribili e immaginazioni spaventose. La mia metà oscura.

L’ha combattuta?

L’ho coccolata, abbracciata, accudita. Mi ha fatto compagnia e continua a farmela. Mi fa commettere atti crudeli e bruttissimi: è vero. Ma ci dialogo da sempre e non ho mai avuto la tentazione di mediare. Forse per opportunismo: molti di quei pensieri infatti sono nei miei film.

Quali paure l’hanno accompagnata in questi anni?

 Quelle di tutti, credo. Essere aggredito, soffrire fisicamente, incontrare il male. A volte erano paure inconsulte, assolutamente irrazionali.

Da ragazzo non dividevo il letto né concedevo l’intimità della notte a nessuno. Temevo che nel sonno, dando le spalle all’amante, potessi essere ucciso.

Ha mai avuto paura di qualcosa che stava scrivendo?

 Molto spesso. Una notte, persuaso che l’assassino che stavo descrivendo sulla pagina fosse davvero in casa con me, pronto a uccidermi, mi precipitai sulle scale e svegliai il portiere. Era sorpreso. Parlammo a lungo,

Lovecraft sosteneva che l’emozione più antica dell’essere umano è la paura e che la paura più forte sia quella dell’ignoto.

 Ho sempre nutrito una profonda fascinazione per l’inconoscibile, per le stranezze e per le bizzarrie. Le ho inseguite in lunghissimi viaggi che godevo nell’affrontare da solo.

Quando sei solo puoi ragionare su quello che vedi, con gli altri devi verbalizzare e tutto finisce in burletta. Si parla troppo e si capisce poco. Quando sei con te stesso invece comprendi veramente lo spirito dei luoghi.

Il primo viaggio significativo?

In Francia. Un periodo di totale libertà. Dopo avermi organizzato una vacanza studio in Costa Azzurra, che nei piani sarebbe dovuta durare non più di un paio di settimane, mio padre Salvatore aveva assistito incredulo al prolungamento coatto della permanenza francese e aveva iniziato a preoccuparsi. Desiderava che tornassi e così aveva deciso di tagliare i fondi, convinto che bastasse per interrompere il viaggio. Si sbagliava.

 Sognavo a occhi aperti e dormivo ovunque trovassi un giaciglio: dagli ostelli in cui mi infilavo clandestinamente, con il serio rischio di prendere due calci in culo dai custodi, alle stanze fetide divise per un breve periodo con due prostitute sagge e generose.

Mangiavo quel che capitava, vedevo moltissimi film, confondevo l’alba col tramonto. Uno dei periodi più felici della mia vita.

Presto, prima di diventare maggiorenne, iniziò a lavorare nei giornali…

 Conclusa la “vacanza” francese tornai in Italia. Scrivere mi piaceva e mi industriai per dare alla mia passione la parvenza di un mestiere. A scuola, dopo quell’esperienza che mi aveva fatto sentire improvvisamente adulto, non avevo intenzione di tornare. Così mio padre mi presentò Ugo Ugoletti, l’anziano direttore de L’Araldo dello Spettacolo, un piccolo quotidiano che si occupava di sale, incassi ed esercenti.

La sua gavetta?

 Didascalie delle foto, notizie brevi, articoli inutili. In poco tempo però, misteriosamente, mi ritrovai a scrivere per uno dei migliori giornali italiani. Al direttore di Paese Sera, Fausto Coen, non dispiaceva l’idea che qualcuno ragionasse sull’incasso dei film. Da lì, complice anche il caso, presi il largo.

Uno dei principali critici del quotidiano infatti si era ammalato di tisi e mi ritrovai a sostituirlo in corsa. Rispetto a un certo conformismo comunista, lo feci in maniera completamente eterodossa. Parlavo bene dei film che mi piacevano e Coen, preoccupatissimo, era spesso costretto a richiamarmi all’ordine.

Nel 1966 invece ha esordito da attore al fianco di Alberto Sordi

 Ero andato a intervistarlo per il giornale. Lui parlava e ogni tanto si ammutoliva fissandomi con insistenza. Al momento del congedo, mentre salutavo, si avvicinò l’aiuto regista: «Tanto noi ci rivediamo», disse. E così mi ritrovai sul set di Scusi, lei è favorevole o contrario? nel ruolo di chierichetto.

Aveva mai pensato di diventare regista?

 Ancora no. Una spinta decisiva me la diede l’incontro con Sergio Leone. Non amava i lunghi dialoghi, neanche nella vita. Parlava per immagini e per inquadrature. Parlava con il linguaggio del cinema. Viveva di intuizioni e aveva un vero talento per scoprire il talento. Se qualcuno valeva qualcosa, Sergio lo capiva in un secondo.

In lei vide un talento.

 Fece una cosa da pazzo. Mise in mano a due sconosciuti, me e Bernardo Bertolucci, il soggetto di C’era una volta il West. Voleva fare un film diverso dai precedenti, desiderava affidare il ruolo principale a una donna. Pensava che gli sceneggiatori tradizionali del cinema italiano, di donne, non capissero nulla. Cercava ragazzi giovani e investì noi di quella responsabilità.

Bernardo lo incontrò quasi per caso, alla proiezione di un suo film, a due passi dal Viminale. Glielo indicai e volle conoscerlo. Bertolucci fu sciolto e spigliato: «Il suo cinema mi piace», disse sfacciato a Leone. «In particolare amo come riprende il culo dei cavalli: così bene lo fa soltanto John Ford». Leone fu conquistato dalla totale assenza di sovrastrutture e dopo pochi giorni ci propose di collaborare.

E come andò?

Umanamente io e Bernardo ci trovammo benissimo, ma il lavoro durò parecchi mesi e non fu semplice. C’era una volta il West è molto sottile, pieno di svolte, colpi di scena e personaggi che cambiano natura.

Alla fine consegnammo il trattamento e l’amicizia tra me e Sergio, un’amicizia che sembrava dover essere eterna, finì da un giorno all’altro. Per un lungo periodo avevamo condiviso emozioni e viaggi. Eravamo stati persino insieme a vedere con i nostri occhi il disastro che aveva provocato l’alluvione di Firenze nel 1966.

 Finì così, senza una ragione?

 Senza una ragione. Ma il cinema è così. Sembra che l’esperienza in comune leghi le persone per sempre e invece, una volta finito il lavoro, ci si perde di vista come in un branco di nebbia. Non parlai con Sergio, pur continuando a provare affetto per lui, per quasi un ventennio.

Poi, senza alcun preavviso, mentre era in grande difficoltà nella scrittura di C’era una volta in America, si fece nuovamente sentire. Cercava aiuto.

Gli eravamo tornati in mente io e Bernardo e contattò entrambi, separatamente, per tentare di riunire la squadra e chiedendoci se volessimo collaborare con lui. Ma ormai ognuno aveva preso la sua strada e, pur con rammarico, non se ne fece nulla.

Cos’è il set per lei?

Un luogo in cui non mi diverto mai. Non ho mai provato una grande felicità nel realizzare i miei film. Era un lavoro che facevo con metodo e applicazione quasi impiegatizia.

Un lavoro che non di rado mi lasciava totalmente svuotato e che affrontavo senza questa specie di falsa euforia che sembra essere il corollario indispensabile per potersi definire regista. Non ho mai creduto nella falsa euforia: facevo il mio storyboard, facevo in modo di rispettare il mio stile, cercavo di sopravvivere. (Sorride).

Hai mai più litigato su un set?

Mai violentemente perché la violenza non ha mai fatto parte della mia vita. Ma è chiaro che quando si lavora le divergenze di opinione esistono. Ma litigi veri, Musante a parte, mi sono accaduti soltanto con un’attrice spagnola, Cristina Marsillach. Dopo averla vista in uno spot l’avevo scelta per Opera.

Lei era molto giovane e perfetta per il ruolo. Durante la preparazione, tra l’altro, era andato tutto per il verso giusto.

Poi non so cosa successe, ma lei cambiò di colpo. Si vedeva che voleva litigare e iniziò a farlo su ogni singolo aspetto del film: dalle inquadrature alla trasparenza della maglietta. Il rapporto fu pessimo.

Lei ha un carattere dolce, ma ha un carattere.

 Sul set non accetto interferenze. Se un attore arriva con delle idee per migliorare la scena è sempre il benvenuto, se arriva per rompere proditoriamente i coglioni, invece, vuol dire che desidera sabotare il lavoro e io il lavoro non me lo faccio sabotare da nessuno. Il cinema è un meccanismo delicato, un gioco di squadra. Se qualcuno rema contro, arrivare a destinazione è molto faticoso.

I suoi film sono stati studiati in tutto il mondo, eppure in Italia non sempre è stato capito.

Il tempo è galantuomo e non mi sono mai preoccupato troppo della critica. Mi sarebbe piaciuto che alcuni film non fossero bollati pregiudizialmente, ma non me ne sono mai fatto un cruccio. A irritarmi erano altre cose. Mi ricordo una serata-processo al Dams di Bologna, sarà stato il 1972.

Presentavo 4 mosche di velluto grigio e le domande in platea erano insinuanti, ostili e offensive. Si partiva dal solito luogo comune −

«È il regista che sullo schermo fa morire soltanto le donne» − e si arrivava a definirmi senza troppi sofismi ora fascista, ora misogino. Io all’epoca ero stanco, stressato e pieno di problemi nella vita privata. Ma quella sera cercavo di trattenermi, di rispondere in maniera educata e gentile senza cadere nella provocazione.

Ma a un certo punto si alzò un ragazzo. «Smettetela», disse con tono flautato e conciliante, «se non vi piace il suo cinema non c’è bisogno di insultarlo».

Quella difesa pelosa mi fece infuriare più delle accuse gratuite e mi trasformai letteralmente in un altro: «Ascolta, anche tu che fai finta di essere equidistante, con quella cravattina da intellettuale, sei uno stronzo. Un vero stronzo, esattamente come tutti gli altri».

Lo mandai a fare in culo e lo stesso feci con il pubblico che definii «branco di pecore». Alla fine dell’intervento, un intervento sull’importanza del libero pensiero, invece di aver acceso la fiamma del dibattito mi accorsi di averlo spento.

Sempre acceso, con lei, è stato invece il dibattito sulla censura. Con i suoi film ha dovuto combatterla per anni.

 L’operato della censura è stato spesso orrendo con i miei film, tanto da spingermi a vere acrobazie per salvare alcune copie di lavori che dai tagli erano stati devastati. Opera, un film che mi era costato tanto come preparazione e impegno, per esempio dai tagli venne massacrato. Fu una botta durissima. E io caddi in depressione.

Le è capitato spesso?

 Mi è capitato di soffrire per l’esito di alcuni film e di sentirmi a volte svuotato, spossato, senza la voglia di andare avanti. Ho ottant’anni e per lunghissimi periodi della mia vita ho vissuto in albergo. Mi sono sempre piaciuti, gli alberghi. Sono impersonali, perfetti per concentrarsi, non ti appartengono esattamente come tu non appartieni a loro.

Perché me lo racconta?

 Perché in uno dei miei preferiti, l’Hotel Flora, a due passi da via Veneto, nell’inverno del 1976 rischiai di suicidarmi. Stavo preparando Suspiria e le cose sul lavoro andavano alla grande, ma era con me stesso che da qualche tempo le cose non andavano benissimo.

Mi era capitato di svegliarmi una notte con il nitido desiderio di lanciarmi dalla finestra e la stessa cosa mi era successa qualche settimana dopo quando mi era addirittura accaduto di immaginare il dopo, il mio corpo che precipitava a terra, lo schianto, il rumore, i titoli dei giornali.

Mi ero diretto senza dubbi verso gli scuri, ma i mobili, i tavolini e le suppellettili mi avevano impedito di realizzare il proposito. Mi ero risvegliato la mattina dopo in lacrime, aggrovigliato tra le tende e avevo immediatamente telefonato a un amico medico.

«Il suicidio è una strada a senso unico, se la imbocchi tornare indietro è impossibile, ma se devii in tempo dal tuo percorso non ti accadrà più di intraprenderlo».

Come fece a dominare quella pulsione?

 Il mio amico mi consigliò di mettere tutti i mobili della stanza davanti alla porta-finestra. Funzionò. Dovetti combattere ma mi rialzai. Mi tirai su e da allora non ci ho mai più pensato.

La solitudine ha un prezzo.

 In quell’albergo per esempio ogni tanto invitavo qualcuno nel dopo cena per fare festa, ma regolarmente una volta andato via l’ultimo ospite mi sentivo solissimo. Oggi, come ieri, non ho molti amici. La pulsione al piacere della solitudine, come dice lei, un prezzo lo richiede sicuramente. È una dipendenza, la solitudine.

Che rapporto ebbe con le dipendenze?

L’hashish mi ha fatto compagnia per moltissimo tempo. Non mi ricordo neanche chi mi iniziò al vizio, ma se avessi potuto avrei continuato. Ho dovuto smettere, con grande dolore, perché bronchite e tosse non mi davano tregua. Per un breve periodo feci uso anche di cocaina, ma a differenza delle canne, non solo non era una dipendenza forte, ma neanche rimpianta. La cocaina mi dava fastidio. Mi faceva star male. Non mi rilassava. Abbandonarla fu naturale.

Cosa ricorda del suo arresto?

 Qualcuno che non conoscevo aveva spedito un pacco con delle sostanze proibite a mio nome a Fiumicino.

La narcotici l’aveva intercettato ed erano venuti a cercarmi. Feci entrare i finanzieri in casa e candidamente, a precisa domanda, ammisi di essere un fumatore mostrando la modesta quantità di hashisch che detenevo.

Mi portarono via, a Regina Coeli, ma non volevo che la situazione né i titoli dei giornali suonassero come «il grande regista arrestato per droga», così mentre andavamo via cercai comunque di sdrammatizzare.

E come sdrammatizzò?

 «Ahò, mò non famo che me ne vado e ve fumate la robba mia», dissi in romanesco e con il sorriso sulla faccia. Gli agenti risero poco, erano imbarazzati.

Ridere le è sempre piaciuto.

 Almeno quanto spaventare. Nei miei film, anche nelle situazioni più drammatiche, ironia e grottesco non mancano mai.

Cos’è la paura per lei?

 Noir, horror e giallo sono solo parole. Contenitori per i nostri sogni.

La paura è un sentimento.Un’emozione diversa dal brivido che avverti guardando un film che ti terrorizza. La paura nasce dal subconscio e il subconscio, anche se spesso facciamo finta che non esista, ce l’abbiamo tutti.

Si sente un uomo fortunato?

 Fortunatissimo. Non avevo mai pensato di fare cinema e invece fare cinema è diventata un’esigenza fortissima che continua a darmi energia. Ho ancora tanti film in testa, tante storie. E le voglio girare perché senza cinema il mondo mi sembra un posto più povero, vuoto e insignificante. Non ho molte certezze, ma una brilla chiarissima.

Quale?

 Finché in una sala ci sarà qualcuno da impaurire potrò considerarmi una persona contenta.

A maggio tornerà a girare.

 C’è già il titolo, Occhiali neri, e forse anche il cast. È una storia forte a cui penso da molti anni.

Che impressione le fa averne 80?

 Un’impressione strana. Non mi accorgo di avere l’età che ho. Poi accade una cosa curiosa: mi pare che più vado avanti con gli anni e più il mio pubblico ringiovanisca.

Alla morte pensa mai?

Malcom Pagani per “Gq” – www-gqitalia.it

BRUCK

BRUCK

“L’antisemitismo è una nuvola nera sull’Europa”

Edith Bruck, sopravvissuta ai campi di Auschwitz, Bergen-Belsen e Dachau, oggi scrittrice e poetessa, racconta il suo inferno e ritorno “L’ignoranza del passato alimenta un nuovo odio verso gli ebrei”

Il ritorno dai campi di concentramento è stato per molti “la fatica delle pianure”, avrebbe detto Bertolt Brecht. La crudele quiete dopo l’inferno, l’esperienza dolorosa di un mondo che voltò ostinatamente le spalle ai tanti che tornavano dall’abisso. Edith Bruck, nata novant’anni fa in un piccolo villaggio ungherese e deportata a tredici, ha attraversato sette campi di concentramento e di sterminio, da Auschwitz a Dachau a Bergen-Belsen. Nel suo ultimo, struggente libro, Il pane perduto (La nave di Teseo), la poetessa e scrittrice ripercorre la sua discesa agli inferi, ma si sofferma anche sul ritorno in un mondo insofferente.

Che ha consentito all’antisemitismo di non estinguersi mai.

La voce profonda e musicale di Edith, dall’altro capo del telefono, è la stessa che dalla fine della guerra non ha mai smesso di raccontare e ricordare. A sessant’anni dal suo primo libro, ha sentito l’esigenza di tornare sulla sua storia. Perché “i musi di latte”, i ragazzi con cui parla nelle scuole, sono sempre più inconsapevoli, sempre più impreparati, quando incontrano una delle più straordinarie testimoni della Shoah.

«L’antisemitismo è tornato, è una nuvola nera sull’Europa». E perché è tornato, o perché non è mai andato via, ce lo spiega a partire dalla copertina del libro. È una foto di Edith, il suo volto bellissimo, pensoso e contratto dal dolore, mentre la sua mano sfiora un muro.

Edith, dov’era in quella foto?

«Ero nel mio villaggio, in Ungheria.

Ci sono tornata negli anni ’80, per un documentario che hanno girato sulla mia vita. Quando sono andata a visitare la scuola, i bambini avevano tutti il fiocco rosso. Erano ancora gli anni del comunismo.

Dopo che avevano letto ad alta voce un brano del mio libro, ho chiesto alla classe: “cosa sapete della storia del villaggio?”. Si è alzata una bambina e ha detto: “c’era una signora molto ricca, ebrea, che viveva al cimitero. Un giorno sono venute delle persone — la bambina non era in grado di dire chi fossero — e le hanno detto di andarsene”.

Questo hanno insegnato ai bambini. Il nulla! Nessuno sapeva che eravamo stati deportati, perseguitati. Non ci possiamo meravigliare che adesso in Ungheria gli ebrei vengano insultati per strada. Che siano tornate quelle storie orribili. Sugli ebrei ricchi, sugli ebrei che controllano il mondo. Che ci sia quest’antisemitismo feroce. Io ho scritto questo libro perché credo che sia molto più importante ricordare oggi che 60 anni fa.

Sull’Europa intera sta tornando una nuvola nera».

Nel libro lei racconta anche la delusione del ritorno, dopo la liberazione.

«Quando ero nei campi e lottavo tutti i giorni per sopravvivere, pensavo: “se ne uscirai viva il mondo ti chiederà perdono in ginocchio”. E invece quando siamo tornati dai campi abbiamo scoperto con profondo dolore che il mondo continuava a tenere gli occhi chiusi, che non ci voleva vedere. Che eravamo soltanto un peso. Con mia sorella ci siamo dette “ma perché siamo sopravvissute, perché abbiamo lottato per la vita?”. È stato un momento molto amaro.

Eravamo molto sole».

Il rifiuto l’ha spinta ad attraversare per mezza Europa e il Mediterraneo, ma poi è approdata a Roma e non l’ha più abbandonata.

«Quando siamo tornate, tutti ci dicevano, ogni volta, “lavatevi, lavatevi”. Anche quando eravamo già spidocchiate, quando eravamo pulite. Ci dicevano “ho da mangiare per tre o quattro giorni”, poi ci cacciavano. Non sapevano cosa fare di noi. Eravamo degli avanzi di vita.

E ci dicevano “anche noi abbiamo sofferto”. Al mio villaggio ci hanno inseguito con l’accetta. Avevano paura li denunciassimo, a noi non passava neanche per l’anticamera del cervello».

Ha mai incrociato qualcuno dei suoi aguzzini?

«Sì, due volte. Una volta la kapò Aliz, in Israele. Sono scappata. E un’altra volta a Roma, sempre una kapò.

Non le ho mai denunciate».

Aliz fu la kapò che le disse indicando il fumo della ciminiera: quella è tua madre. Perché non l’ha denunciata?

«Io non ho mai accettato di fare la spia, di fare ad esempio la Läuferin .

Erano quelle che portavano le notizie da una baracca all’altra per una briciola di pane in più. Non mi sono fatta disumanizzare. Ma sono stati i tedeschi a ridurre tanti così.

Ecco perché non ho mai denunciato le kapò. Però, e di questo ho discusso spesso con Primo Levi, per me non è vero che sono le circostanze che ti rendono una carogna. Mia madre mi aveva dato un’educazione molto forte, morale, e io non l’ho mai dimenticata. E poi, forse perché ero nata povera, ho sempre avuto pietà per i diversi, i deboli».

Nel libro lei parla per la prima volta di odio non in riferimento ai nazisti che la torturarono per anni, ma a un inglese, un liberatore.

Perché?

«Eravamo ancora vicino a Bergen-Belsen, nelle baracche di transito, in attesa di essere rimpatriati. Rubammo un pollo in un villaggio. Ci sembrava la manna dal cielo. Lo arrostimmo, con l’acquolina in bocca, eravamo euforici. Arrivò questo ufficiale inglese che diede un calcio al pollo perché non l’avremmo dovuto rubare. Il pollo finì nel fango, divorato dai cani. Ero infuriata.

Perché quell’uomo era un liberatore, era un uomo, non un nazista. Non ho mai avvertito odio verso i tedeschi, mai. Perché per me non appartenevano al genere umano. Le faccio un esempio. Una volta incrociammo un gruppetto di ragazzini della Hitlerjugend. Cominciarono a sputarci addosso. E miravano al nostro sesso. Io li guardai e mi dissi, che pena che mi fate».

Dopo le sofferenze nei campi e il rifiuto del dopo, cos’è che l’ha spinta a vivere?

«Già quando ero in Germania, sono stati alcuni gesti piccoli, semplici che mi hanno restituito la fiducia negli esseri umani. Un tedesco a Dachau che mi ha chiesto come ti chiami, “we heisst du”. Non credevo alle mie orecchie: allora sono un essere umano, pensai, e non un numero. Un soldato che mi lasciò un po’ di marmellata nella gavetta. Una bambina che mi regalò un pettinino per i miei capelli, che erano lunghi un centimetro. Sono queste le cose, queste luci che ti fanno andare avanti. Che ti fanno pensare che non è tutto buio pesto».

In Ungheria sono stata in una scuola: gli studenti non sapevano niente delle deportazioni, delle persecuzioni Non gli avevano insegnato nulla Non ho mai denunciato le kapò neanche quelle che incontravo per strada. Mi sono sempre rifiutata di fare la spia, di farmi disumanizzare

Articolo di Tonia Mastrobuoni

Edith Bruck è nata in Ungheria nel 1931, sopravvissuta alla Shoah, è scrittrice poetessa e saggista. E’ stata sposata col regista Nelo Risi, deceduto nel 2015

Il libro Il pane perduto di Edith Bruck è edito da La nave di Teseo (pagg. 128, euro 16)

Contact Us