BLA,BL,ABLA

BLA,BL,ABLA

Meno ideologia, più privati. Meno isterismo, più gradualità. Non ascoltate i critici. Il bla bla di Glasgow sul clima è un toccasana per il futuro

Un po’ meno Greta e un po’ più capitalismo. C’è una splendida notizia che arriva dal vertice sul clima di Glasgow. Una notizia che non troverete sulle prime pagine dei giornali ma che costituisce la vera svolta culturale sul tema della lotta contro il riscaldamento globale. La notizia è che il principale successo che arriva dalla Cop26 è l’essere riusciti a spostare il dibattito sul clima verso un binario che dista anni luce da una retorica catastrofista che aveva alimentato un’illusione farlocca: l’idea che fosse possibile occuparsi delle temperature che aumentano mettendo in campo politiche svincolate dalla crescita economica. Roger Pielke Jr., famoso politologo dell’universi – tà del Colorado, anni fa, in un saggio pubblicato sulla Yale Environment 360 e ripreso giovedì dal Financial Times, ha sostenuto con anticipo sui tempi “che le politiche climatiche che richiedono sacrifici pubblici e che limitano la crescita economica sono destinate al fallimento” e ha ricordato che per avere successo le politiche di riduzione delle emissioni devono promettere “benefici reali e devono contribuire a rendere l’energia pulita più economica”. In questo senso, si può dire, anche leggendo le bozze conclusive del vertice di Glasgow, che il successo della Cop26 è aver messo a tema tre punti non banali.

Claudio Cerasa

Primo: i privati, le imprese e i capitalisti non sono nemici ma alleati della transizione ( formidabile il principe Carlo al G20 di Roma, quando ha ricordato che i governi da soli non possono affrontare i problemi legati al cambiamento climatico e che per governare con realismo questo tema occorre affidarsi al settore privato). Secondo: non c’è transizione ecologica possibile senza crescita e, come ha detto Barack Obama, senza “gradualità” ( e a proposito di gradualità, con realismo l’italia ha scelto di non essere tra i paesi firmatari di un accordo presentato a Glaskow per mettere al bando le auto con motore termico entro il 2035: “dobbiamo affrontare la transizione ecologica con un approccio tecnologicamente neutrale”, ha detto giustamente il ministroGiancarlo Giorgetti). Terzo: gli obiettivi di riduzione delle emissioni saranno raggiunti solo a colpi di investimenti nell’innovazione, solo mettendo in concorrenza tra loro le fonti di energia ( neutralità tecnologica, of course), e non a colpi di politiche che puntano a restringere il perimetro dell’economia e a intaccare il benessere dei cittadini ( vedi il caso dei gilet gialli in Francia). Gli ambientalisti integralisti criti – cheranno la Cop 26 perché si riconosce che al traguardo delle emissioni zero si può arrivare passo dopo passo, e non in un momento preciso e prestabilito. Mala verità è che essere passati da una politica utopistica a una più realistica ( impegni a perseguire politiche coerenti, fattibili e realistiche, ognuno con le proprie politiche domestiche) è il segno che i grandi del mondo hanno capito che l’unico modo per parlare di clima è fare un passo al di là della stagione della demagogia.

Roberto Cingolani, ministro transizione ecologica

Nel 2015, ha notato ancora il Financial Times ieri in un articolo di elogio del bla bla bla di Glasgow ( per un ripasso, leggetevi il Carlo Stagnaro degli ultimi giorni), i più importanti paesi del mondo cercarono di arrivare agli accordi di Parigi sul clima portando sul palco degli incontri politici, ministri, scienziati, attivisti. Oggi a Glasgow, sul palco ci sono imprenditori, finanzieri e funzionari monetari. E sono qui non solo perché hanno a cuore forse più di un tempo l’agen – da della lotta contro il climate change. Ma sono qui per ricordare che la transizione deve aiutare gli stakeholder della globalizzazione a trasformare questa fase in una stagione di opportunità. E il fatto che al suo debutto in Borsa, tre giorni fa, un produttore di veicoli elettrici di nome Rivian, che ha alle spalle circa mille vetture prodotte negli ultimi anni e un solido investitore di nome Jeff Bezos, abbia registrato, al suo esordio al Nasdaq, un valore di mercato superiore a Ford, General Motors e Stellantis, è una finestra aperta sul mondo che verrà. Meno isterismo, più gradualità. Meno ideologia, più privati. La transizione del futuro è tutta qui.

Claudio Cerasa, Il Foglio Quotidiano

METAVERSO

METAVERSO

L’uscita di Marck Zuckerberg sul METAVERSO ha fatto discutere molto nel mondo. Si tratta di un progetto mastodontico e futuribile che pochi hanno capito, ma sul quale forse vale la pena dedicare qualche minuto di approfondimento: non si muovono decine e decine di miliardi di dollari solo per scrollarsi di dosso un periodo assai gramo, fitto di critiche e rimproveri piovuti sul fondatore di Facebook e del suo ruolo di monopolista del web e (in un prossimo futuro) della realtà virtuale. Il tema è stato oggetto di informati articoli apparsi su Il Foglio, il Corriere della Sera e sul Sole 24 Ore, che riassumiamo per i lettori di Ninconanco.

Nessuno sa niente del prossimo, mastodontico progetto di Mark Zuckerberg che dovrebbe cambiare la nostra vita. Per adesso non è niente di più di una partita di poker virtuale e immersiva. Però costa dieci miliardi di dollari

Il video con cui il presidente di Facebook, Mark Zuckerberg, ha cercato di spiegare il Metaverso il 28 ottobre scorso ( Lapresse)

Il video con cui la settimana scorsa il ceo di Facebook, Mark Zuckerberg, ha rivelato che la sua società cambierà nome in Meta e annunciato ambiziosi progetti per la costruzione del metaverso ha tutta una serie di pregi. E’ molto ben prodotto e mostra gli sforzi sovrumani di Zuckerberg, che ha presentato tutto l’evento, nel cercare di apparire una persona affabile e non robotica, com’è sempre in tutte le sue apparizioni pubbliche. Contiene anche una certa autoironia, come quando, nel corso delle varie presentazioni di mondi digitali simili a videogiochi, Zuckerberg parla a un robot e dice: “Ma il robot dovevo essere io!” ( anche qui, accenni alla personalità legnosa del fondatore). Soprattutto, il video rappresenta la prima volta in cui il capo della società che più di ogni altra al mondo ha investito e lavorato nella costruzione del metaverso spiega finalmente cosa sarà, questo metaverso. E’ una gran noia.

Un po’ di storia, per chi non ne avesse sentito parlare: la parola “metaverso” fu inventata nel 1992 dallo scrittore americano Neal Stephenson, che nel suo libro “Snow Crash” la usa per identificare un mondo virtuale in cui i suoi protagonisti si ritrovano per sfuggire alla realtà catastrofica del mondo reale. Concetti simili al metaverso di Stephenson sono stati adottati anche da altri autori fantascientifici ( si pensi a “Ready Player One” di Ernest Cline, da cui Steven Spielberg ha tratto un film), e più o meno da sempre il metaverso è un pallino di tanti imprenditori ed esperti di tecnologia. Gli imprenditori come Zuckerberg che vogliono costruire il metaverso parlano di un mondo virtuale – o di una serie di mondi connessi tra loro – a cui si dovrà accedere tramite dispositivi per la realtà virtuale, e in cui le persone potranno incontrarsi, lavorare e fare varie attività. Come nel mondo reale, ma meglio.

Se ne parla da decenni, ma qualche tempo la discussione è diventata più eccitata, e si è cominciato a dire che il metaverso sarà la nuova “big thing”, la nuova rivoluzione della tecnologia mondiale, capace infine di sostituire internet sia come strumento di comunicazione e svago sia come produttore di eccezionali profitti per le aziende che vi operano. Da ormai oltre un anno vari personaggi centrali del mondo tecnologico parlano in maniera sempre più esaltata e piena di aspettative del metaverso, e della montagna di soldi che sperano di farci investendoci sopra: da Mark Zuckerberg a Tim Sweeney, il capo dell’azienda che produce il videogioco Fortnite, ai dirigenti di Google e Microsoft. L’investitore tecnologico Matthew Ball, che l’anno scorso ha pubblicato un paio di lunghi articoli considerati i migliori sul tema, ha scritto che quando tutto sarà pronto il metaverso frutterà migliaia di miliardi di dollari.

Ma quando Ball tenta di spiegare cos’è per davvero, questo metaverso che genererà ricchezze indescrivibili e rivoluzionerà il mondo, le cose si fanno confuse. Ball elenca alcune caratteristiche basilari e dice, per esempio, che il metaverso dovrà essere “persistente”, cioè dovrà rimanere online anche quando l’utente si disconnette e torna nel mondo reale; dovrà essere “in sincrono e dal vivo”, che significa che tutte le persone che vi partecipano dovranno fare esperienza delle stesse cose allo stesso tempo, e non dovrà mettere limiti al numero di persone che vi possono partecipare. Il problema, dice Ball, è che il metaverso è difficile da descrivere e anche da immaginare: non lo si può paragonare a nessuna delle tecnologie attualmente esistenti, e anche sulla terminologia Ball è piuttosto puntiglioso. Consiglia di non definirlo come un “mondo virtuale”, uno “spazio virtuale” o una “realtà virtuale” ( benché l’unico modo per esperire il metaverso sia tramite dispositivi per la realtà virtuale, come occhiali e caschetti), perché il metaverso è qualcosa di più ampio e complesso – cosa, esattamente, è difficile dirlo. Questo perché il metaverso ancora non esiste. E’ un’idea concepita da alcuni scrittori di fantascienza e accarezzata da decenni da imprenditori tecnologici molto entusiasti che da qualche tempo hanno cominciato a parlarne come di una rivoluzione imminente. La rivoluzione, tuttavia, è ancora lontana dal realizzarsi, anche perché, come abbiamo visto, nessuno sa descriverla in maniera concreta. Poi è arrivato Mark Zuckerberg, che per primo, la settimana scorsa, ha presentato un progetto abbastanza concreto, e mostrato cosa dovrebbe essere il metaverso per lui.

Eliminiamo subito alcuni fraintendimenti: Zuckerberg non ha annunciato il cambio di nome della sua società e i suoi progetti per il metaverso per distogliere l’attenzione dai recenti scandali di Facebook dopo la pubblicazione dei cosiddetti “Facebook Papers”. Facebook ha acquisito Oculus, azienda che produce dispositivi per la realtà virtuale, nel 2014, e da allora Zuckerberg ha continuato a investire costantemente nel settore. I progetti sul metaverso non sembrano nemmeno un bluff, a giudicare almeno dai dati ufficiali: come ha scritto il New York Times, Facebook intende spendere soltanto quest’anno 10 miliardi di dollari in investimenti relativi al metaverso, e 10 mila suoi dipendenti stanno già lavorando a progetti legati alla realtà virtuale. E’ probabile, dunque, che Zuckerberg sia davvero convinto che il metaverso sarà la prossima grande rivoluzione tecnologica e che sostituirà internet, e che si stia muovendo con forza per essere tra i primi a controllare questa nuova tecnologia e godere delle sue presunte ed enormi possibilità di guadagno.

La ricerca della prossima tecnologia rivoluzionaria, della “next big thing”, è un tema frequente nell’industria tecnologica, specie quella americana. I grossi imprenditori e investitori americani entrano periodicamente in fibrillazione per ogni nuova tecnologia che promette di cambiare il mondo e aprire mercati nuovi e sterminati: se ne parla per qualche tempo come di una grande rivoluzione, si fanno ambiziosi progetti, si fondano nuove società e poi dopo un po’ si passa alla novità successiva. Soltanto negli ultimi tre- quattro anni, quest’enorme eccitazione del mondo tecnologico americano ha riguardato, a ondate successive, l’intelligenza artificiale, il 5G, le criptovalute, il cloud computing e altro ancora. Queste tecnologie hanno un enorme valore, hanno cambiato e cambieranno interi settori industriali, ma sono ben lontane dall’essere la rivoluzione planetaria descritta dai tecnocrati sovreccitati nei loro momenti di maggiore entusiasmo. Ora l’eccitazione è tutta concentrata sul metaverso, ed è tale che una delle aziende più ricche e potenti del mondo, Facebook, ha deciso di cambiare nome in suo onore, e diventare Meta. Zuckerberg e i suoi colleghi sono convinti che il metaverso sostituirà l’internet, e che quindi il suo impatto sarà enorme e globale: non soltanto cambierà l’industria tecnologica, ma influenzerà radicalmente gli stili di vita di miliardi di persone in tutto il mondo. Secondo Zuckerberg, presto tutto il mondo trascorrerà gran parte delle sue giornate con un caschetto per la realtà virtuale in testa, dentro a una realtà digitale costruita per noi.

Eppure l’eccitazione dei tecnocrati nei confronti del metaverso, sotto molti punti di vista, è meno giustificata di quelle per altre tecnologie. Per avere successo, una tecnologia ( ma un qualsiasi prodotto) deve soddisfare due requisiti minimi: deve funzionare, e quindi essere utilizzabile e fruibile, e deve soddisfare un bisogno reale, o comunque proporre un’esperienza a tal punto nuova o migliore da generare domanda nei consumatori e utenti. Il metaverso, almeno per ora, non soddisfa nessuno dei requisiti.

Partiamo dal “funzionare”. Il metaverso attualmente non esiste perché non esistono ancora le tecnologie per costruirlo, o sono estremamente immature. Lo mostra molto bene il video di Facebook in cui Zuckerberg ha presentato la sua idea di metaverso: tutte le dimostrazioni contenute nel video erano effetti speciali cinematografici. Di solito, quando si presenta un nuovo prodotto o progetto se ne mostra il funzionamento, almeno in parte: quando Steve Jobs presentò il primo iphone, ce l’aveva in mano perché tutti lo potessero vedere. Ma il metaverso è ancora così lontano che per provare a farcelo vedere Zuckerberg ha dovuto recitare davanti a un green screen. Attualmente, è di fatto impossibile costruire mondi digitali con le caratteristiche e il livello di dettaglio immaginati da Zuckerberg. Anche le tecnologie che già esistono sono rudimentali. Per entrare nel metaverso, è necessario utilizzare dispositivi per la realtà virtuale. Ma questi dispositivi, grossi caschetti o occhialoni, sono scomodi, farraginosi e spesso devono rimanere collegati a computer per funzionare. I computer, per altro, devono essere molto più potenti di quelli usati dalla maggior parte delle persone, specie per gestire la grafica dettagliata del metaverso di Zuckerberg. Come ha scritto sull’atlantic Ethan Zuckerman, un noto esperto di informatica, Zuckerberg promette tecnologie che non saranno disponibili ancora per i prossimi cinquedieci anni. Non è improbabile che un giorno avremo mezzi sufficienti, e che i dispositivi per la realtà virtuale evolveranno a tal punto da diventare piccoli come un chicco di riso. Ma mancano ancora molti anni.

Il secondo requisito per il successo del metaverso è che risponda a un bisogno degli utenti, o che li attragga a tal punto da diventare una parte importante delle loro vite. E’ qui che la grande presentazione di Facebook mostra i problemi più gravi, più ancora dell’assenza di tecnologia. La settimana scorsa, Zuckerberg aveva la possibilità di mostrare al mondo l’ampiez – za della sua visione, di renderla evidente con dimostrazioni spettacolari che avrebbero reso chiaro perché il metaverso sarà rivoluzionario. Ecco invece una lista non esaustiva delle cose che secondo Facebook si faranno nel metaverso, e che sono state mostrate da Zuckerberg: fare una partita di scacchi online, fare una partita di poker online, fare una videochat con amici, condividere dei videomessaggi, fare una lezione di yoga a distanza, fare una riunione di lavoro a distanza, lavorare su una scrivania digitale che simula la propria, e che anche nella presentazione sembra eccezionalmente poco efficiente. Questa è tutta roba che si fa già da anni, in alcuni casi da decenni. E certo, con un grosso casco per la realtà virtuale sulla testa tutte queste attività saranno immersive, realistiche e piene di vita, se e quando avremo la tecnologia per renderle tali. Ma davvero il mondo dovrebbe essere esaltato dall’idea di fare una partita di poker online molto immersiva? Ancora Ethan Zuckerman ha scritto sull’atlantic che il gran problema del metaverso proposto da Facebook è che “è noioso. Il futuro che immagina è già stato immaginato migliaia di volte prima, e di solito in maniera migliore”. Wes Fenlon, un giornalista che si occupa di tecnologia, è stato un po’ più brusco e ha scritto che “il metaverso è una stronzata perché nessuno sa davvero spiegare perché sarebbe meglio” della vita reale.

Molti altri critici del metaverso si sono concentrati su questioni ulteriori. Per esempio, alcuni si sono chiesti chi lo controllerà, una volta che sarà costruito. Ma questi sono questioni a cui pensare più avanti. Il problema, adesso, è che non siamo sicuri che il metaverso sia tecnicamente fattibile, e soprattutto non siamo sicuri che serva a qualcosa.

C’è un altro elemento non tecnologico che i critici citano di frequente: nei racconti di fantascienza che Zuckerberg e gli altri hanno usato come ispirazione, il metaverso è sempre inserito in orribili distopie. In “Snow Crash” di Stephenson, il libro che ha introdotto il termine, la società e l’ordine mondiali sono crollati, l’econo – mia è in mano a gruppi mafiosi o a losche corporation, e lo “snow crash” è il nome di una droga. In “Ready Player One”, le persone entrano nel metaverso ( che nel libro si chiama Oasis) per sfuggire a un mondo in cui la maggior parte della popolazione vive in baraccopoli degradate. Sui libri di fantascienza, il mondo virtuale diventa apprezzato e accettabile soltanto quando il mondo reale è diventato insostenibile.

Articolo di Eugenio Cau Il Foglio Quotidiano

METAVERSO: ecco cosa c’è di concreto nei mondi virtuali. Al di là degli annunci di Facebook (ora Meta) e Microsoft qualcosa si può già toccare. Ma ci sono da risolvere i limiti dell’hardware e il rebus di un ecosistema di contenuti plurale (e tutto da costruire).

Ci vorranno cinque anni, 10 miliardi all’anno, 50 milioni solo di sviluppo e almeno 10mila nuovi posti lavoro prima che il metaverso concepito da Mark Zuckerberg sia usato da milioni o miliardi di persone. Nell’attesa è già possibile accedere a pillole, piccoli frammenti su cui già stanno lavorando e che andranno forse ad animare la visione un po’ antica alla Ready Player One che il fondatore di Facebook ha voluto comunicare per generare interesse nel mercato degli sviluppatori. Diciamo subito che se vi aspettate i Fantasmi della forza di Guerre Stellari che si sono visti nei video di presentazione di Meta rimarrete delusi. Di concreto nel disegno virtuale di Meta c’è la piattaforma per la realtà virtuale di Oculus acquisita nel 2014 per due miliardi di dollari. In sette anni gli ingegneri hanno lavorato di innovazione incrementale sul visore, adattando i contenuti ai limiti hardware della tecnologia. L’ultimo nato uscito nell’ottobre dell’anno scorso si chiama Oculus Quest 2: è un “all in one“ (non necessita di altro hardware e può essere utilizzato senza un computer o altro dispositivo che lo comandi) e senza dubbio è il miglior visore di realtà virtuale che potete trovare a un prezzo non proibitivo (349 euro per il caschetto e due controller). È più leggero, più stabile e l’immagine è finalmente più nitida. La latenza è uno dei maggiori problemi che causano la motion sickness (o chinetosi) quel senso di nausea che ha sempre minato l’introduzione di questa tecnologia. Per ridurla i caschetti devono avere una frequenza di aggiornamento almeno di 90 Hz (Quest 2 supporta i 120Hz). Il problema sono i contenuti non sempre all’altezza. Vuole dire avere tempi lunghi, permettere al giocatore di prendere confidenza con i controlli, per esempio, se l’ambiente virtuale si muove in modo diverso da ciò che il cervello si aspetta, ci sarà un conflitto fra quelle che sono le aspettative e ciò che l’occhio vede effettivamente. Nel tempo Oculus e chi progetta esperienze in 3D sono riuscita a ridurre i malesseri da chinetosi ma non li hanno eliminati del tutto

E comunque parliamo di mascheroni lontani dagli occhiali alla moda mostrati nel video di Metaverso. Mentre l’app store di Oculus che è ad oggi la metafora interpretativa per intuire quello che ha in mente Zuck è già popolata di giochi, video a 360 gradi ed esperienze più o meno interattive come l’esplorazione di luoghi d’arte e gli spettacoli. In ambito aziendale invece la Vr trova applicazioni in alcuni settore come la manutenzione, formazione e comunicazione.

A partire dal 2022 Oculus Quest 2 si chiamerà Meta Quest e conterrà le Meta App. Detto altrimenti, il brand Oculus sparirà. L’applicativo che forse è più interessante è Horizon Workrooms, lanciato in agosto, che vuole essere una nuova piattaforma per fare smart working in VR. Non sarà un servizio di videoconferenza con gli avatar ma vuole essere un nuovo modo di lavorare nel quale si potranno condividere file e progetti, replicare desktop. La gestione dello spazio con i controller e quindi l’interfaccia è forse l’aspetto più critico del progetto insieme a quello legato alla produzione di contenuti da parte dei concorrenti o di sviluppatori indipendenti.

Meno immaginifica, più concreta nelle applicazione ma non meno complicata è invece la sfida di Project Aria: niente visore chiusi su mondi sintetici ma occhiali “normali” capace di inviare e ricevere informazioni dal web, registrare video, scattare foto e accedere a ologrammi e artefatti digitali. Di concreto Facebook ha lanciato i Ray-ban Stories con Essilor Luxottica che si limitano però all’aspetto social (video e foto). Esistono però altre esperienze di smart glass. La più convincente è la piattaforma Windows Mixed Reality (prima chiamata Windows Holographic). A Ignite 2021 Satya Nadella ha rilanciato il suo metaverso per le aziende che sembra meno ambizioso ma più realistico. Ma nonostante i numerosi smart glasses in circolazione manca un ecosistema di riferimento di applicazioni. Facebook ha lanciato la sua candidatura. Per ora di concreto c’è solo quello.

Articolo di Luca Tremolada, il Sole 24 Ore

Il mondo parallelo di Zuckerberg: alla conquista dello spazio virtuale. L’annuncio del nuovo Metaverse e la crisi del vecchio Facebook: l’universo-oltre del social network potrebbe cambiare la nostra vita?

Mark Zuckerberg aveva vent’anni quando nel pensionato universitario di Harvard immaginò il social network. Era il 2004, non esistevano ancora gli smartphone. Pochi lo presero sul serio.

Tre miliardi di utenti dopo, Zuckerberg ha una nuova visione. Cambia nome a Facebook che diventa Meta (dal greco «oltre»), sdoppia la sua creatura, e punta a dominare il mondo del futuro: la realtà virtuale. «Metaverse» è l’universo-oltre. Ce lo descrive come «un luogo dove giocare, comprare beni virtuali, collezionare arte virtuale, trascorrere il tempo libero con i sosia virtuali (avatar) degli altri, e partecipare a riunioni di lavoro sempre virtuali». L’annuncio coincide con una grave crisi d’immagine di Facebook, bombardata di accuse per non aver vigilato abbastanza contro fake news, ideologie violente, aggressioni e odio che dilagano sul social media. Nelle rivelazioni che intitola Facebook Files, il Wall Street Journal riferisce anche di uno studio interno all’azienda secondo cui «un utente su otto fa un uso compulsivo del social media con effetti sul sonno, il lavoro, i rapporti con i figli o le relazioni sociali». Sui media americani un coro di scettici ha liquidato la metamorfosi come un trucco per distogliere l’attenzione dalle polemiche. Però sulla realtà virtuale il 37enne miliardario più famoso del pianeta aveva già messo al lavoro da tempo diecimila ingegneri. Ora ne assumerà altrettanti (gran parte in Europa), e investirà dieci miliardi di dollari. Facebook stava già conducendo una campagna acquisti in questo settore, assicurandosi il controllo di molte startup innovative. Una occupazione del territorio, in vista della prossima rivoluzione digitale? «Realtà virtuale»: immaginarne l’espansione evoca una distopia post Covid, un mondo asettico che cancella ogni contatto fisico. O magari una utopia ambientalista che elimini ogni mobilità fisica per azzerare le emissioni carboniche. In alcuni scenari estremi affiora la pulsione verso qualche forma di immortalità: trasferendo caratteri e funzioni ai nostri avatar, riusciremo a custodire in queste creature virtuali ciò che il deperimento fisico distrugge? La fantascienza gioca con queste visioni da decenni.

Di fatto la tecnologia che crea un ambiente virtuale è già onnipresente. Un avatar (termine preso in prestito dall’incarnazione delle divinità induiste), è la rappresentazione grafica di noi stessi, proiettata nel mondo digitale. Architetti e costruttori fanno ampio ricorso a un mondo virtuale per progettare edifici. I militari combattono guerre simulate, wargame. Le applicazioni della realtà virtuale alla cura dell’Alzheimer sono in corso da anni. Il cinema sostituisce comparse e figuranti con dei sosia grafici (costano meno) e il film ibrido «Avatar» (regia di James Cameron, 2009) appartiene alla preistoria di questo genere. Las Vegas ha inaugurato i concerti «live» di Whitney Houston, in scena si esibisce l’ologramma tridimensionale della cantante morta nove anni fa. Per gli appassionati di videogame incarnarsi nella propria identità digitale è parte del gioco. Il boom delle criptovalute che non hanno incarnazione materiale, asseconda lo sviluppo di un universo parallelo a quello fisico.

La banalizzazione della realtà virtuale è a portata di mano nel commercio: per acquistare abbigliamento e calzature online, faremo provare i prodotti al nostro avatar, che ha le nostre misure fisiche. In America i consumatori Millennial hanno imparato a decidere l’acquisto di un mobile, un arredo, una cucina, simulandone il montaggio dentro la copia virtuale della propria abitazione. Una ricerca compiuta in Germania elenca settori pronti ad essere trasformati dalla realtà virtuale: commercio, manifattura (in particolare l’industria dell’auto), servizi informatici, spettacoli, istruzione. A scuola si può immaginare un corso di storia in cui i ragazzi manovrano i loro sosia digitali in una replica dell’antica Roma; imparano la geografia grazie ai loro avatar che viaggiano virtualmente. Per adesso vediamo frammenti sparsi di quello che potrà diventare un meta-universo onnicomprensivo. Zuckerberg vuole comporre il mosaico intero, e padroneggiarne gli accessi.

Quando Zuckerberg esalta il Nuovo Mondo dove potremo lavorare, fare acquisti, giocare come in quello reale», sorvola sui rischi. La sua Meta incontrerà gli stessi problemi di Facebook. Come tutelare la privacy e la sicurezza dei dati. Se la realtà virtuale diventa un luogo di fuga, un videogame moltiplicato all’infinito, fino a risucchiare buona parte delle nostre vite, altri pericoli balzeranno in primo piano: come i danni alla salute mentale.

Il fondatore di Facebook si concentra sulle opportunità. Nella costruzione di questo nuovo ecosistema, di questo Internet parallelo, può venderci già una parte dell’hardware, strumenti ottici come l’headset Oculus per farci trasportare nella realtà virtuale. Sotto la denominazione Meta potrebbero nascere presto negozi fisici che venderanno apparecchi ottici elaborati dalla divisione Reality Labs, per assuefarci a frequentare l’universo «oltre». Zuckerberg assegna a Meta una missione strategica: fermare l’esodo dei giovani, problema esistenziale che affligge Facebook. Proiettato verso il successo iniziale da adolescenti e ventenni, oggi il social media vive su un pubblico sempre più maturo mentre le nuove generazioni migrano verso TikTok, Snapchat. Un’altra chiave di lettura dietro la nascita di Meta è tecnologica. Oggi il social media dipende da piattaforme digitali concorrenti, cioè Apple per gli iPhone e il software Android per tutto l’ecosistema Google. Si è visto il prezzo di questa dipendenza: quando Apple ha cambiato le regole sulla privacy, ha limitato la capacità di Facebook di raccogliere dati sugli utenti. Invitandoci dentro la realtà virtuale, Zuckerberg ci sposta nell’universo di cui vuole controllare standard tecnici e coordinate. Il suo business principale resta la pubblicità (98% del fatturato) e la realtà virtuale è un nuovo spazio per la vendita. Né si può escludere una mossa difensiva verso l’antitrust. La sinistra democratica è favorevole a uno smembramento dei colossi digitali. Zuckerberg ha già sdoppiato il suo.

La critica prevalente liquida Meta come una fuga in avanti dettata dalla strategia di relazioni pubbliche. Frances Haugen, ex manager del social media, è la fonte di una valanga di rivelazioni. Al centro c’è la débâcle di Zuckerberg nella prevenzione di false notizie e aggressioni. I sistemi di intelligenza artificiale usati a questo fine hanno funzionato poco e male. Facebook ha investito col contagocce in questo campo, la manodopera umana che ha adibito a vigilanza e censura sui contenuti è insufficiente. «Ha dato la priorità ai profitti rispetto alla sicurezza delle persone e del Paese», è l’accusa risuonata nelle audizioni al Congresso. Ma uno studioso di social media, Nicholas Carr, prende le distanze dall’ossessione sul loro ruolo nella lacerazione della società: è illusorio attribuirgli il compito di disciplinare il discorso pubblico, quando l’America ha perso il senso del bene comune. Un altro autore che analizza la polarizzazione culturale, David French, ricorda che gli americani non ebbero bisogno dei social per massacrarsi fra loro durante la guerra civile o per spaccarsi nelle contese valoriali degli anni Sessanta. In quanto al sogno di traghettarci dentro un meta-universo virtuale, l’esperta di tecnologie del New York Times, Shira Ovide, invita a non sottovalutarlo: «Nell’indovinare il futuro, Zuckerberg ha già avuto ragione una volta».

Articolo di Federico Rampini per il Corriere della Sera

L’America di Sergio

L’America di Sergio

C’era una volta in America è la fine del mondo, la fine di un genere, la fine del cinema“. Il capolavoro di Sergio Leone raccontato dallo stesso. L’aria “qualunque” di Robert De Niro, la scena necessaria dello stupro, l’idea di fare un film sul tempo. Leone parla di tutto il suo percorso artistico in questo pezzo tratto dal suo libro C’era una volta il cinema (Il Saggiatore).“

C’era una volta il cinema è il frutto di quindici anni di dialogo ininterrotto con Noël Simsolo tra Parigi, Cannes e Roma. Leggere questo memoir-intervista è come ritrovare in una vecchia cassetta una voce che si credeva smarrita. Una voce acuta, divertita, ferocemente anticonvenzionale, che fra un aneddoto di vita sul set e una riflessione sul cinema finisce per rivelare i segreti di un regista che ha saputo trasformare gli anni del proibizionismo nel romanzo struggente delle amicizie tradite, delle vendette e degli amori perduti. E che, nell’oblio di una fumeria d’oppio come sulle carrozze di un treno a vapore, ha dipinto l’immagine del tempo mentre fugge via. Il libro è anche una vera lezione sul cinema, sulle sue tecniche, rivela la cultura iconografica del regista, i suoi gusti, la meticolosa e tormentata, decennale preparazione in cui tutto alla fine confluisce e si trasforma, esaltando vicende e luoghi e il sentimento del tempo che essi conservano.

La fine del mondo. La fine di un genere. La fine del cinema. Per me, è proprio questo. Sperando che non sia davvero la fine. Preferisco pensare sia il preludio all’agonia. Tuttavia, c’è una sorta di speranza nello sguardo finale di De Niro. Come a dire: «Se avete capito che con film come questo si può salvare il cinema, amate i film e andate a vederli»

Com’è entrato in gioco Robert De Niro?
L’ho conosciuto quando stava lavorando in Novecento e non era ancora una star: si era semplicemente fatto notare in Mean Streets di Martin Scorsese. In quell’occasione gli ho parlato del mio film, promettendogli che sarebbe stato uno degli interpreti. Quando Milchan ha fatto ripartire la produzione, aveva da poco terminato di lavorare in Re per una notte con Scorsese, di cui era diventato amico. De Niro era già impegnato per ben diciotto mesi con un altro film, ma, senza dirmi nulla, ha sciolto il contratto per interpretare la parte di Noodles. Nel giro di pochi anni è diventato il più grande attore del mondo.

Come si è mosso per il ruolo di Max?
Preferivo fosse interpretato da un volto nuovo. Abbiamo fatto più di duecento provini, finché ho scoperto James Woods in uno spettacolo teatrale. Mi è piaciuto. Il suo provino non è stato decisivo, ma avvertivo una vera nevrosi dietro il suo strano viso. Era quello ad affascinarmi. E ho convinto De Niro che la parte dovesse essere sua, anche se Robert avrebbe preferito un attore del suo giro. E abbiamo fatto numerosi provini ai suoi amici! Per fortuna, è una persona onesta e, guardando i provini, ha ammesso che nessuno di loro avrebbe potuto davvero interpretare Max.

Con Joe Pesci le cose sono andate in modo diverso. Milchan gli aveva promesso il ruolo di Max. Io l’avevo trovato strepitoso in Toro scatenato, ma l’ho avvertito subito che non gli avrei dato quella parte: avrebbe interpretato un altro personaggio a sua scelta. E ci siamo messi d’accordo. Poi, De Niro mi ha presentato una sua amica, Tuesday Weld. In alcuni dei suoi primi film, era bella come Brigitte Bardot. E, dopo i primi provini, era evidente che poteva impersonare il personaggio di Carol…

Sergio Leone

E per i bambini?
Non volevo delle baby star. Solo dei ragazzi spontanei che sapevo come dirigere. Cis Corman, il responsabile del casting, mi è stato di straordinario aiuto…

Come sono andate le riprese con De Niro?
Giusto all’inizio, abbiamo avuto qualche discussione piuttosto animata. Ma ci siamo capiti molto in fretta. Un’intesa rara. Non solo comprendevo quello che voleva, ma mi accorgevo anche di desiderare la stessa cosa. Per fortuna, mi ha affiancato un ragazzo fantastico, Brian Freilino, che mi faceva da braccio destro. Parlava perfettamente sia l’inglese sia l’italiano. La sua presenza ha davvero cementato l’intesa tra me e De Niro. Tutti gridavano al miracolo, anche lo stesso Milchan, che aveva assistito personalmente agli interminabili battibecchi tra l’attore e Scorsese durante la lavorazione di Re per una notte. Con me, non ci sono state discussioni. Un’intesa totale e una fiducia assoluta. Bob rideva quando simulavo le scene. E queste risate erano una vera dimostrazione di complicità.

Per lei, C’era una volta in America è il più italiano dei film americani o il più americano dei film italiani?
Credo si possa dire che è il più americano dei film italiani. Prima di tutto, perché io sono romano e un po’ napoletano. Ho fatto un bilancio della mia vita e di tutta la mia esperienza con quel film. In fin dei conti, è una biografia su due livelli: la mia vita personale e la mia vita da spettatore di cinema americano. Nel dopoguerra, non mi stancavo mai di vedere film. Il cinema era diventato la mia droga. Così, in C’era una volta in America, compaiono degli omaggi che avevo il dovere di fare. Come la scena della charlotte russa sulle scale. È un omaggio a Charlie Chaplin. Non ho imitato un suo film, non ho citato una sequenza girata da lui. È la semplice manifestazione dell’amore che nutro per lui. E mi permetto persino di credere che avrebbe potuto girare quella scena esattamente così…

Sergio Leone con Joe Pesci, De Niro e Woods

Ma prima di parlare in modo più dettagliato del film, ci tengo a dire quanto la versione tagliata svuoti l’opera della sua anima. È stata ridotta a uno sceneggiato televisivo di centotrenta minuti in cui si segue un ordine banalmente cronologico: l’infanzia, la giovinezza e la vecchiaia. Non c’è più il tempo. Non c’è più il mistero, il viaggio, la fumeria e l’oppio. È un’aberrazione. Non posso accettare che mi si dica che la versione originale era troppo lunga. Ha la durata esatta che deve avere. Dopo la proiezione al Festival di Cannes, Dino De Laurentiis mi ha detto che era magnifico, ma che si sarebbe dovuto tagliare una mezz’ora buona. Gli ho risposto che non era nella posizione per parlarmi in quel modo, dato che fa dei film di due ore che sembrano durarne quattro, mentre io faccio dei film di quattro ore che sembrano durarne due. È per questo che Dino non può capire. Ho aggiunto che era il motivo per cui non abbiamo mai potuto lavorare insieme.

Robert De Niro con James Woods

In C’era una volta il West, si raccontava la fine di un mondo e l’inizio di un altro mondo. In Giù la testa, la manifestazione di una malattia. Mi sembra che, per lei, C’era una volta in America rappresenti la fine del mondo…
La fine del mondo. La fine di un genere. La fine del cinema. Per me, è proprio questo. Sperando che non sia davvero la fine. Preferisco pensare sia il preludio all’agonia. Tuttavia, c’è una sorta di speranza nello sguardo finale di De Niro. Come a dire: «Se avete capito che con film come questo si può salvare il cinema, amate i film e andate a vederli». Sì, è la fine di un genere. Sì, è la fine della sicurezza. Sì, è la fine di un mondo. Ma non è la fine di un sogno. E dopo l’uscita del film, ho capito quanto tutto questo fosse vero. Ne sono molto consapevole oggi, in questo autunno del 1986. Ho cinquantasei anni. Quando ho girato il film, ne avevo cinquantadue. E pensavo che stessi facendo qualcosa per le persone della mia età, con il ricordo di determinate esperienze e di un certo cinema. Non mi sbagliavo, perché a quella generazione il film è piaciuto molto. Ma sono i ragazzi di vent’anni ad averlo amato alla follia: alcuni di loro sono andati a vederlo venticinque volte di fila. Ragazzi che non hanno conosciuto quel tipo di cinema e ai quali i nomi di Griffith, Stroheim, Ford e persino di Chaplin non dicono nulla. Ragazzi che avevano solo dieci anni quando è uscito Giù la testa. E mi dimostra che esiste un desiderio naturale di vedere un certo cinema. Ed è questa la speranza!

Il film è anche la storia d’America trasfigurata dal sogno d’oppio?
La particolarità dell’oppio è di essere una droga che fa immaginare il futuro come fosse il passato. L’oppio crea delle visioni su quello che accadrà, mentre gli altri stupefacenti mostrano solo ciò che è stato. Così, mentre Noodles sogna come potrà essere la sua vita e immagina il suo futuro, io – regista europeo – ho la possibilità, grazie all’oppio, di sognare dentro il mito americano. Ed è questo il binomio perfetto. Si procede insieme. Noodles con il suo sogno. E io con il mio. Sono due poemi che si fondono. Poiché, a mio avviso, non è mai uscito dagli anni trenta, Noodles sogna tutto. Tutto il film è il sogno d’oppio di Noodles attraverso il quale io sogno i fantasmi del cinema e del mito americano.

In C’era una volta in America, le donne e il sesso hanno un’importanza maggiore rispetto ai film precedenti…
Era necessario. Non si tratta più di un western, ma di cinema americano, nel senso più globale del termine: sesso, passione, tradimento, amicizia e amore. E poi, oltre a Noodles e al mio sogno, c’è un altro protagonista: il tempo. E il tempo cambia tutto. All’inizio, Noodles è parte del gruppo. Fa dei lavoretti per i ladri più grandi di lui. Fino all’arrivo dell’arcangelo Gabriele, che è Max. E Max gli dice: «Noi ci facciamo ammazzare da soli. Senza padroni». È Max, l’anarchico! E Noodles impara la lezione, tanto che finisce in prigione al posto di tutti gli altri. Passa quindici anni in una cella. Quando esce, non ha cambiato idea. Ma il tempo ha cambiato le cose. E dovrà spingersi fino al tradimento per rimanere se stesso. Perché Max fa parte del sistema ora: sogna la politica, vuole lavorare per il sindacato. Noodles, invece, rimane fedele ai suoi ideali di sempre. Attraverso il sogno d’oppio, certo; ma, come ho già detto, grazie a questo sogno ho la possibilità di dare valore a tutto il mio amore per il cinema, al mito e alla ragione del fare cinema. È qualcosa di complesso. Tanto che non potevo mostrare direttamente la morte di Max alla fine del film. In particolare, non si poteva fare un primo piano di Max quando Noodles se ne va da casa sua. Non in quel momento, visto che il mondo che Max si è costruito ormai serve solo per essere gettato nella spazzatura dell’America di oggi. Non si tratta più di individualismo, ma di sindacato. Ed è la fine dell’idea di libertà.

Robert De NIro con Sergio Leone sul set del film

Data la compresenza di tutti questi sentimenti, ho chiesto a Ennio Morricone un lavoro diverso dal solito. Siamo partiti da una canzone dell’epoca, Amapola. Poi ho voluto aggiungere dei brani ben precisi: God Bless America di Irving Berlin, Night and Day di Cole Porter e Summertime di George Gershwin. Oltre alla musica originale di Morricone e alle grandi melodie del passato, ho aggiunto qualcosa di odierno: Yesterday di John Lennon e Paul McCartney. In modo da toccare alcuni punti essenziali: la nostalgia di un mondo, la lucidità di questa nostalgia nella mia testa, e forse nella realtà… Si applica al mio immaginario.

Peraltro, in questo film, è la pittura di Edward Hopper, Reginald Marsh e Norman Rockwell ad avere un ruolo catalizzatore. Non più Max Ernst o Giorgio De Chirico, com’era stato nel Buono, il brutto, il cattivo. Anche per la scenografia del ghetto è stato necessario recuperare tutta una realtà, sommersa nel passato. Mi hanno proposto di utilizzare le strade in cui Coppola aveva messo in scena Il padrino – Parte II, ma non le trovavo così interessanti. Ho preferito servirmi di alcuni scorci del ghetto, con il ponte di Brooklyn sullo sfondo. Mi emozionavano di più. Oggi, però, in quei luoghi non si trova più il quartiere ebraico. Ci abitano i portoricani e, per questa ragione, mi hanno sconsigliato di girare lì perché troppo pericoloso. Ma non ho ceduto a queste pressioni. E ho avuto ragione, dato che i portoricani non hanno creato il minimo problema. Sono sempre rimasti lì, ma si sono comportati in modo corretto e non ci è stato rubato nulla. Forse perché eravamo italiani. Magari ci hanno persino protetto molto più di quanto pensassimo, ladri intenti a controllare che non ci rubassero nulla!

C’era una volta in America fonde una scrittura classica e una struttura frammentata e moderna.
Ci ha richiesto un lavoro immenso. All’inizio del film, viene fornita una mole di informazioni che lo spettatore riesce a comprendere solo in seguito. Come le ho già detto, tutta la struttura di C’era una volta in America si basa sul tempo. E ci sono anche molte carrellate di cui non è semplice capire il significato, perché non vengono usate per descrivere una città, una strada o un luogo. La camera si muove per seguire un personaggio che si sposta in uno spazio che non è nient’altro che il tempo. Ed è ovviamente meno spettacolare, dato che metto la tecnica al servizio dei sentimenti, non la uso più come mezzo per far scoprire un mondo, una storia o un universo, come nel caso di C’era una volta il West. In quel caso, quando la gru si alzava, mostrava una città che stava sorgendo. Qui, invece, la città c’è già. Dunque non c’è bisogno di mostrarla.

Sono consapevole dell’apparente staticità del film. In realtà, non smette mai di muoversi. Ma questa staticità viene percepita proprio perché riguarda il tempo: tutto si è fermato nella fumeria d’oppio. E tutto parte proprio da lì.

Tutto questo però non esclude il realismo.
Diciamola tutta: in un sogno del genere serve il realismo. Per far sì che la storia funzioni, con così tanta mitologia del cinema, è necessario darle una dimensione documentaristica. Girare come se la cinepresa fosse nascosta. Produrre degli effetti simili a quelli che mi facevano vivere il cinema di una volta. È necessario che sia credibile! Ed è per questo che tutti i luoghi sono reali. Sono andato a cercarli. Anche in questo caso, è stato un po’ come andare alla «ricerca del tempo perduto». La stazione centrale di New York di quell’epoca non esiste più, è stata distrutta. Ma sapevo che si trattava solo di una replica della Gare du Nord di Parigi, e così ho girato quelle scene proprio alla Gare du Nord di Parigi. Le stesse vetrate, le stesse colonne di cemento e di pietra: gli stessi materiali. Stessa cosa per l’hotel di Long Island, dove Noodles porta Deborah. Quel luogo non esisteva più, ma assomigliava molto ad alcuni palazzi di Venezia. Così, ho girato la sequenza a Venezia. È ovvio. Gli Stati Uniti non hanno fatto altro che imitare l’Europa per questo genere di luoghi. Seguendo il mio intuito, ho girato all’interno di modelli originali. Non per snobismo o sciovinismo, ma soltanto perché quell’epoca non si poteva più trovare in America. Tutto è perduto, dimenticato, distrutto… E io, per fare un film sui ricordi e sulla memoria, dovevo ritrovare delle vestigia della realtà. Per rendere in maniera compiuta la mia concezione del mito e del sogno, dovevo lavorare sulla più solida delle realtà. A partire da questo, tutto discendeva a cascata. Il tempo è il protagonista del film e il tempo ha sempre ragione. Ecco perché Noodles ritorna al presente sulle note di Yesterday, attraversando un quadro di Reginald Marsh, con la mela rossa dell’America di oggi. Non si vendono più biglietti dell’autobus, la Hertz ora noleggia automobili per entrare all’inferno. È logico, essendo il mio film anche un viaggio negli inferi.

Il Ponte di Brooklyn a N.Y.

Lei prova un grande affetto verso il personaggio di Noodles?
Ho scritto qualche riga a questo proposito. Gliele leggo subito. Le spiegheranno che rapporto ho con questo personaggio… Ascolti: «Vedevo Noodles bambino nel Lower East Side di New York. Lo vedevo ragazzino al servizio dei gangster. Poi, lo vedevo uccidere dei cristiani con calcolo e passione. Dopodiché, lo osservavo mettersi in gioco da solo per fare una guerra senza successo ai grandi capi del crimine organizzato. Ma Noodles non era Dutch Schultz o Peter Lorre, Alan Ladd o Lucky Luciano, Al Capone o Humphrey Bogart. Nessuno faceva caso a lui: lo sguardo del mondo l’aveva attraversato come se fosse la vetrina di un bar. Era Noodles. Tutto qua. Un trascurabile ebreo del ghetto. Un signor nessuno che aveva tentato la fortuna con un mitra Thompson in mano, nell’era in cui l’alcool era vietato e il gioco della violenza urbana ancora vivo nella memoria. Come migliaia di altri piccoli delinquenti, sopravvissuti alla guerra tra gang, poi rinchiusi dietro le sbarre di un penitenziario, era stato crocifisso su una croce troppo grande per lui. Pure d’estate portava quel cappotto grottesco, tipico del gusto dei gangster. Nonostante il suo fascino abietto e il suo aspetto evocassero l’Actors Studio, quel cappotto ballonzolava intorno a lui. Troppo largo, come se fosse il regalo di un buon samaritano crudele a qualche ubriacone della Bowery. Non gli andava proprio bene. E le cose avevano preso una brutta piega per lui. Tradito, ricercato, disconosciuto, dilaniato, era dovuto fuggire. Ma ero solidale con lui per altre ragioni. Mano armata confermava una mia vecchia idea. L’idea che l’America era un mondo di bambini… Anche Chaplin, a suo tempo, lo aveva dovuto credere. E oggi, sono certo che lo pensi anche il mio amico Steven Spielberg. Noodles era uno di questi bambini. Non un boyscout di Frank Capra, con la vocazione di aiutare Mr. Smith a salvare il mondo. Era piuttosto un bambino che mostrava i denti e stringeva il coltello in tasca. Una specie di Mickey Rooney sfortunato che non avrebbe mai incontrato Spencer Tracy vestito da prete nella Città dei ragazzi…».

Parigi, gard du nord nel 900

La scena in cui Noodles stupra Deborah mi sembra di importanza capitale.
Assolutamente. Durante il Festival di Cannes, una imbecille mi ha accusato di compiacimento misogino e di sadismo antifemminista a causa di questa sequenza. Non aveva capito nulla. Le ho detto che non ero antifemminista ma che, se tutte le femministe fossero state come lei, mi sarei dato da fare per realizzare in fretta un film contro di loro! Ero veramente arrabbiato perché le sue accuse erano del tutto assurde. Questa scena di stupro è un grido d’amore! Noodles ha appena scontato quindici anni in prigione, durante i quali non ha mai smesso di pensare a quella donna che viveva fuori dal carcere. L’ha sempre amata alla follia. E non appena ritorna libero le chiede di uscire insieme. Le racconta tutto di sé… tutto quel che ha fatto! È un gangster di professione, ma il suo amore è così grande che non può nasconderle nulla. La porta in un luogo splendido che affitta per una fortuna… e solo perché lei possa scegliere il tavolo che più le piace. Per restare soli e felici… Lui la ama così tanto che si comporta come un principe. Trasforma quella serata in una favola e le confessa tutto il suo amore. Le racconta quale luce sia stata per lui durante i quindici anni di reclusione. E allora lei gli risponde: «Sono qui solamente per salutarti. Domani parto per Hollywood». Lei sta per andarsene e diventare un’effigie a Hollywood, tornando a essere un’effigie per Noodles! Lui la ascolta in silenzio. Tranquillo. Ha incassato questa terribile lezione senza battere ciglio. Ma ecco che lei in macchina gli dà un bacio di consolazione. Come per dire: «Povero piccolo. Ti do un bacio, visto che sei un po’ arrabbiato con me». A quel punto, Noodles non ci sta. Vuole che parta con un ricordo che non scorderà mai più. E la distrugge con il massimo della violenza. Potrebbe prenderla con dolcezza, violentarla senza brutalità. Lo sa. Lo sente. Lei lo lascerebbe fare. Ma preferisce la brutalità, in modo che lei se lo ricordi per sempre. Pensa che si sia già dimenticata di tutta la bellezza che le ha offerto quella notte. Vuole essere certo che lei si ricordi della violenza del suo atto, ed è la violenza più disperata che possa esistere.

Quando ho girato la loro lotta, ho voluto che si vedesse Deborah abbozzare un gesto di tenerezza nei suoi confronti. La verità affiora così durante il sacrificio. Lei ama Noodles. Capisce tutto. Capisce in particolare che nessuno la amerà mai quanto la possa amare Noodles. E quando, poi, lei lo respinge in nome di Hollywood e della sua carriera, lui cerca di scusarsi per l’abuso compiuto. Per capire meglio questa sequenza, è opportuno conoscere la mentalità di un gangster: è un uomo che ha sempre considerato le donne come oggetti sessuali. Ma stavolta, a dispetto dello stupro, si tratta di una questione di rispetto. Di amore. È l’amore. Ed è il suo sogno più grande, quello che Deborah ha appena mandato in frantumi, annunciando la sua partenza. Era un’effigie. E sta per ritornare a essere un’effigie. In quell’istante di esasperazione, Noodles può conoscere la sua carne. Ma niente di più.

Lei vuole diventare un’attrice. E, in fondo, gli attori non sono che maschere e automi. Sono perduti, si dimenticano della loro identità originaria. E quando la ritrova, trentacinque anni dopo, lei indossa una maschera di trucco bianco. Ora è soltanto l’attore! E Noodles le cita una frase dell’Antonio e Cleopatra di Shakespeare: «L’età non può invecchiarla…». Deborah può mostrarsi solo nelle vesti di un mito, come una rappresentazione dell’attore. Essere attore è come una malattia. Durante le riprese di Giù la testa, ho detto a Rod Steiger: «Che cos’è la tua vita? Interpreti Napoleone. Per un anno, sei Napoleone. Durante i sei mesi successivi, continui a esserlo per via della stampa e della promozione del film. E sei mesi prima dell’inizio della lavorazione, ti sei già immedesimato per prepararti alla parte. Ed ecco poi che passi da Napoleone a uno sbirro testardo per interpretare La calda notte dell’ispettore Tibbs. E diventi questo stronzo di poliziotto per mesi e mesi. Un processo che si ripete senza fine. E più credi nel sistema dell’Actors Studio, più entri nella psicologia dei personaggi che interpreti. Ma dov’è il vero Rod Steiger? Ti ricordi di lui? Mi puoi dire com’è?». E Rod mi ha risposto: «No. La mia vita è questa». Ecco perché gli attori sono bugiardi. La loro malattia li trasporta sempre in un altrove.

Rod Steiger in Giù la testa

De Niro è camaleontico, un uomo che non si nota per strada. Non è un po’ come Noodles?
È un signor nessuno. Per interpretare la parte di Noodles anziano, si è realmente trasformato esteriormente e interiormente. È una cosa che pochi attori sanno fare. E volevo questo realismo di fronte a Max. L’invecchiamento di Woods è, al contrario, volontariamente teatralizzato. La differenza è enorme. Max è invecchiato come in un incubo: è il teatro! Solo Noodles è dentro la realtà.

Perché pensare ancora al Viaggio al termine della notte? Con questo film, lei lo ho già realizzato. Non è d’accordo?
Le confesso che ne sono totalmente consapevole. E le dirò di più. Trovo difficile pensare a nuovi progetti. Già dopo C’era una volta il West avevo parecchi dubbi. Mi domandavo se non stessi per dire addio al mio lavoro. In questo caso, è un po’ diverso perché si tratta di un film prima di tutto sul cinema. Non ci sono solamente la nostalgia e il pessimismo. Ho scritto qualcosa a proposito: «Ai miei occhi, Mano armata era una di quelle palle di cristallo per turisti, con dentro una piccola Tour Eiffel, un Colosseo in miniatura o una mini Statua della Libertà. Si rovescia la sfera e, con fiocchi grossi e fitti, si vede cadere la neve. Ecco che cos’era l’America di Noodles. E la mia. Minuscola, favolosa, perduta per sempre».

Devo aggiungere che questo film rappresenta anche una dolorosa vendetta. Sì, mi sono vendicato di tutto quel che l’America e il cinema mi avevano messo in testa. E riconosco quanto C’era una volta in America sia diverso dalle mie opere precedenti. Questa volta, lavoravo con una lucidità totale sulla direzione di quel che stavo facendo. Nessun interrogativo. Né la minima perplessità. Non avevo dubbi. Ero trasportato in un viaggio del cui corretto svolgimento ero sicuro. Parlo anche della lavorazione. Sono davvero contento di aver aspettato quindici anni per realizzarlo. È stato importante tutto questo tempo. Ci ho riflettuto quando ho visto il film, una volta terminato. E ho capito che, se l’avessi girato prima, sarebbe stato solo un film come gli altri. Ora, C’era una volta in America è il film di Sergio Leone. E io sono questo film. Una pellicola del genere si può fare solo nella maturità, con i capelli bianchi e con tante rughe intorno agli occhi. Non avrei mai potuto realizzarla in questa maniera se l’avessi girata a quarant’anni…”

Sergio Leone (1929-1989) è stato un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico italiano.

LEONE

LEONE

L’ultimo film del regista fu il suo capolavoro ma anche la sua condanna. Un visionario tradito dalla sua America.

Esce per Einaudi un libro di Piero Negri Scaglione intitolato Che hai fatto in tutti questi anni, titolo preso dalla famosa battuta del film “C’era una volta in America” di Sergio Leone. Un film definito esoterico e inafferrabile come la vita, nell’articolo che pubblichiamo.

“… Sergio Leone, morto nel 1989 per un arresto cardiaco, passò diciotto dei suoi sessant’anni di vita a tentare di realizzare, tra infinite vicissitudini, C’era una volta in America: tanti ne erano trascorsi dall’idea originaria al momento in cui nel 1984 lo presentò al Festival di Cannes. Un’eternità. In un universo parallelo poteva andare in modo molto diverso: Leone avrebbe potuto accettare l’offerta della Paramount di dirigere Il Padrino, ma disse di no; avrebbe potuto fare cento altre cose, tra cui un film sull’assedio a Leningrado, e invece no: “Nel nostro universo non molla mai la presa su C’era una volta in America”, scrive il giornalista Piero Negri Scaglione, che all’opera più celebre del regista ha dedicato un libro da poco uscito per Einaudi, intitolato Che hai fatto in tutti questi anni. La frase viene da una battuta del locandiere Fat Moe: Noodles/ Robert De Niro riappare a New York, e lui rivedendolo gli chiede cos’abbia fatto nella mole di tempo in cui non è stato lì, vale a dire da quando, trentacinque anni prima, aveva lasciato la città dopo la morte dei suoi amici e soci in affari (Noodles risponde “Sono andato a letto presto”, citazione di Proust). Ma la domanda è rivolta anche al regista, ovunque sia, e in copertina è senza punto interrogativo perché a raccontare quel grande sogno ci pensa Negri Scaglione, che a sua volta ha investito nella biografia (questo è) di C’era una volta in America dieci anni di lavoro, e lo definisce “un film esoterico, ambiguo e inafferrabile come la vita”.

Sergio Leone

Per Leone, il sogno si mette in moto mentre sta lavorando al montaggio de Il buono, il brutto, il cattivo, quando Giuseppe Colizzi, che desidera collaborare con lui, scova in un’edicola di Roma il romanzo Mano armata di Harry Grey ( pseudonimo di Herschel Goldberg) e glielo fa leggere. E’ una storia di gangster ambientata in pieno proibizionismo: si dice sia il racconto autentico della vita di Grey. Qui il vero Noodles, ebreo newyorchese, scrive del suo passato da malavitoso nel Lower East Side, della banda formata con gli amici di sempre, dell’amore per Dolores ( che nel film diventa Deborah), del ritorno dal riformatorio e degli anni passati a gestire una serie di speakeasy, i locali segreti in cui nella New York dell’epoca era possibile bere alcolici. Poi un giorno cambia tutto: Max, che degli amici è quello a cui Noodles è più legato (sono la vera metà l’uno dell’altro), si mette in testa di fare le cose in grande, e l’impalcatura inizia a precipitare, fino alla morte sua e degli altri membri della banda.

Il film di Sergio Leone è insieme quella cosa lì e un’altra dalla natura molto più profonda, una vicenda circolare fatta di continui salti in avanti e all’indietro; lui lo descriveva come un’autobiografia su due livelli, in cui c’erano la sua vita personale e la sua vita di spettatore di film americani. Dice Negri Scaglione: “E’ l’america che tutti abbiamo immaginato, alcuni sognato, della quale l’eroe (o antieroe), la sua massima espressione, è il gangster, che ci piaccia o no. Il gangster è, letteralmente, tutti noi. Da lui dipende il nostro destino”.

Leone a un certo punto definisce C’era una volta in America un progetto maledetto, ma chi lo conosce bene sa che non smette mai di pensarci: si alza la mattina e medita sul suo film, va al cinema e non bada a ciò che ha davanti perché in mente ha il suo film, gli accadono i giorni, i mesi, il tempo lineare, e qualunque cosa stia facendo, nella sua testa sta sempre girando C’era una volta in America. Poteva la vita essere sufficiente? Il libro di Negri Scaglione, frutto di un lungo lavoro di ricerca pieno d’amore, contiene molti racconti delle tante persone che contribuirono alla realizzazione di questa opera- mondo, anche tangenzialmente. C’è per esempio la testimonianza dello sceneggiatore Ernesto Gastaldi, che a Leone disse di no, no che non poteva prendere e partire per quel lavoro pazzo: doveva stare vicino ai figli piccoli e alla moglie attrice Mara Maryl, perché lei per la famiglia aveva rinunciato a recitare con Roger Vadim. “Leone sapeva che sarebbe morto presto”, racconta Gastaldi. “Mi ha detto che aveva una crepa nel cuore, una fessura minuscola, che gli avevano proposto il trapianto, all’epoca parecchio pericoloso, e aveva rifiutato”. Forse è a questo che serve, una crepa nel cuore: a sentire la morte che arriva e a infischiarsene, o meglio, a usarla come razzo propulsore e a non avere più scuse. Lo scrittore hawaiano Kawai Strong Washburn dice: scrivi come se sapessi che un giorno dovrai morire. Vale per tutte le vite in cui si crea. La consapevolezza della mortalità, che quasi nessuno ha davvero, quando arriva costringe a fare i conti con ciò che si vuole lasciare a chi rimane. E Leone non voleva andarsene da questa terra senza aver finito C’era una volta in America. Il film viene scritto a pezzi, a più riprese: Leone chiede a Leonardo Sciascia di occuparsi della sceneggiatura, Sciascia ci pensa e alla fine rifiuta. Poi si cerca a lungo un americano. Per un periodo ci lavora Norman Mailer, ma la sua bozza viene giudicata orrenda, illeggibile, “ai limiti dell’horror”, così Leone la getta via e inizia a mettere insieme una squadra di sceneggiatori italiani. Uno di loro è Franco Ferrini, di La Spezia, giovane critico della rivista “Cinema e Film”. Sarà lui a farsi venire in mente la ragione per cui Noodles torna a New York: lo convoca la sinagoga, a riscattare le tombe degli amici morti. “Non fu una passeggiata di salute”, racconta Ferrini a Negri Scaglione, guidandoci in quel periodo concitato. Poi però: “Ho fortuna, mi viene la tonsillite. Mi metto a letto e posso pensare tranquillamente”. Ed ecco che anche un malanno diventa una gioia, e in quei giorni spesi a letto si fa strada l’idea giusta ( lo spunto era stato un problema simile accaduto in famiglia, la tomba di una zia che andava spostata).

Gabriella Pescucci, costumista che ha lavorato con Pasolini, Fellini, Visconti, e ha vinto un Oscar per L’età dell’innocenza di Martin Scorsese, di Leone ricorda il senso della bellezza. “Ne ho conosciuti pochi di registi come lui. Non l’avresti mai detto, a vederlo così, un corpaccione di uomo che voleva fare il duro e forse per tanti aspetti lo era. Ma era soprattutto un esteta”. Leone convocò Pescucci qualche mese prima dell’inizio delle riprese, e lei nel libro racconta il loro primo incontro. “Mi chiamò, io andai nella villa all’eur, sua figlia Raffaella mi portò nello studio del padre. Sergio aveva sempre un’aria molto brusca e io timidamente misi subito le mani avanti: guardi, signor Leone, si dice che sul set lei tratti male la gente. Io l’avviso: sono molto permalosa, se lei mi tratta male non mi vede più. Lui si mise a ridere”. Chi lo conobbe allora descriveva i suoi occhi come più vivi che mai. “Nei decenni che verranno la vista del Manhattan Bridge da Washington Street apparirà negli album di ricordi di ogni turista”, dice Negri Scaglione della celebre inquadratura girata a Dumbo, Brooklyn, che oggi fa da sfondo a centinaia di foto al giorno. “E’ una visione che ha avuto per primo, forse in sogno, un regista italiano, anzi romano, cresciuto a Trastevere sui 126 scalini di viale Glorioso”.

Claudio Mancini, che della più grande avventura di questo romano fu produttore esecutivo, ha raccontato: “Dopo che ho lavorato con lui non è più stata la stessa cosa. Mai più. Sergio era un gran lavoratore, un visionario, un grande bugiardo, il che non guasta mai”. Un visionario lo era sempre stato, uno che immaginava e girava tutto nella sua mente, prima che su pellicola. E a chiunque abbia visto e amato C’era una volta in America, che inizia e finisce nello stesso momento, in una fumeria d’oppio, rimane il dubbio: e se fosse tutta un’allucinazione, un viaggio onirico? Qui il tempo è, insieme al sogno, un elemento fondamentale, il cerchio che tiene unita ogni cosa. Leone spiegava che il suo era “un film tessuto sui ricordi, autunnale, girato nella notte del cinema”, e per averne prova basta soffermarsi sulla fotografia di Tonino Delli Colli, che per rispondere al desiderio di marrone e di buio del regista è giocata tutta sul seppia nell’infanzia, su colori neutri nella vecchiaia, e su tonalità nere e metalliche nell’epoca di mezzo in cui Noodles, Max e i loro amici sono gangster in piena attività. E’ vero: l’autunno è sempre presente. Quanto al sognare, Leone sognava in grande, perché sapeva da quando si era messo in testa quest’idea che sarebbero serviti molti milioni di dollari, tanto che più di un produttore gli aveva detto di no. Almeno fino all’arrivo dell’israeliano Arnon Milchan, e poi della Ladd Company (finanziata dalla Warner). L’entrata in scena degli americani era la realizzazione di un grande desiderio, era la visione del regista di viale Glorioso divenuta all’improvviso viva e dorata. Fu però anche, in un certo senso, la sfortuna del film, almeno per quel che riguarda l’uscita in sala negli Stati Uniti e la crepa che da tempo attendeva nel cuore di Sergio. Quando il girato fu pronto per il montaggio, divenne chiaro che bisognava tagliare, che il regista aveva in mente una cosa troppo grande e lunga, e questa cosa andava ridimensionata. La Ladd Company voleva un film di due ore e mezza, Leone non aveva intenzione di scendere sotto le tre ore e quarantacinque minuti, anzi pensava a una versione in due segmenti di tre ore ciascuno da mandare in sala separatamente. Al montaggio si lavorò per mesi, da mattina a notte.

Il film fu presentato una prima volta a Boston, il 17 febbraio 1984, a una proiezione di prova per un pubblico campione. Si ruppe il proiettore, l’intera serata fu un disastro: Arnon Milchan la ricorda come una delle peggiori della sua vita; tornato in hotel attese le tre del mattino per poter chiamare l’italia, spiegò a Leone che bisognava trovare il modo di salvare il film negli Stati Uniti, il regista rispose che di tagli non ne avrebbe fatti altri. Cercò di mediare anche Robert De Niro, senza risultati.

Da qui la storia di C’era una volta in America prende temporaneamente due strade, una americana e una nel resto del mondo. Andò così: venne presentato a Cannes il 20 maggio dello stesso anno, nella versione voluta da Leone, lunga 218 minuti. Un trionfo, seguito da un quarto d’ora di applausi. A inizio giugno uscì invece in America, all’insaputa di Leone, in una versione di 139 minuti, cioè tagliata di un’ora e venti rispetto a quella curata dal regista (che pure era la cosa più corta a cui secondo lui si potesse arrivare). Non solo: il film era stato rimontato in ordine cronologico, e questo fu forse lo scempio da cui la crepa nel cuore cominciò ad allargarsi. La questione del tempo, dell’andare e venire, della spirale che le tre dimensioni di gioventù, età adulta e vecchiaia costituiscono insieme a quella del sogno, era l’essenza più profonda dell’intera opera. Otto anni più tardi Milchan dirà al New York Times che era stato un grave errore: “C’era chi pensava che il pubblico americano non fosse pronto per un film così lungo. E parte della colpa è mia. Non mi sono battuto abbastanza per salvare la versione completa, ero entrato da poco in questo business. Nel resto del mondo, dove è uscita quella, i critici l’hanno definito un capolavoro. In Europa è stato un enorme successo. Sergio la versione tagliata non l’ha mai voluta nemmeno vedere”.

Il film uscì quindi una seconda volta in sala negli Stati Uniti, otto anni e mezzo dopo il debutto a Cannes. Era un modo per riparare al torto del 1984, ma anche una mossa astuta, poiché nel frattempo in quel paese il film era diventato un culto grazie alle videocassette: messe in commercio senza tagli, avevano fatto guadagnare alla Warner dieci milioni di dollari, e allora perché non riportare C’era una volta in America al cinema nella versione voluta dal regista? Quando successe, nel 1992, Sergio era già morto da tre anni. La crepa nel cuore aveva chiamato e lui l’aveva seguita nello spazio misterioso da cui era venuta. Della sua vita erano rimasti quattordici film, sette da produttore e sette da regista, la moglie Carla, i tre figli, tanti amici e collaboratori. Gastaldi, che a Negri Scaglione ha raccontato il dettaglio della crepa, dice anche che appena seppe della morte di Leone corse a casa sua con l’intenzione assurda eppure netta di discutere con lui, per l’ultima volta, di C’era una volta in America. Un impulso simile lo racconta Joan Didion in L’anno del pensiero magico: uscendo dall’ospedale dopo la morte del marito, aveva fretta di rientrare a casa per poter parlare con lui di ciò che era appena successo.

Forse cose simili accadono quando una parte di noi percepisce che il tempo lineare è solo una fandonia che ci raccontiamo, e che il tempo vero è in realtà un insieme fatto di strati e di pieghe, in cui si può scomparire per poi riapparire di nuovo. Sergio Leone questo l’aveva sempre saputo.

Articolo di Francesca Pellas per il Foglio Quotidiano

Sempre su questo sito il 18 novembre, sotto il titolo L’America di Sergio, sarà pubblicata un’ampia intervista al regista, con i retroscena e le vicissitudini che hanno portato alla realizzazione del film.

MARIO IL VISIONARIO

MARIO IL VISIONARIO

Da Hangzhou alle stelle. Chi era davvero Mario Tchou, l’ingegnere cinese nato in Italia che voleva rivoluzionare la Olivetti e la tecnologia.

E’ di questi giorni la notizia che la Italvolt, società italiana, con base a Milano, intende realizzare la più grande fabbrica per la produzione e lo stoccaggio di batterie a ioni di litio per veicoli elettrici di batterie d’Europa a Scarmagno, nella periferia di Ivrea, in Piemonte. In proposito scrive Linkiesta: ” il progetto è di Lars Carlstrom, imprenditore del settore automotive con oltre 30 anni di esperienza – già fondatore e azionista di Britishvolt – che ha deciso di costruire la prima gigafactory italiana con un investimento da 4 miliardi di euro: la prima fase del nuovo stabilimento dovrebbe essere completata nel 2024, con una produzione stimata di 45 Gwh l’anno (destinata a crescere fino a 70 GWh).” Si prevede da 10 a 15 mila assunzioni. Per costruire il colossale stabilimento di circa 300 mila m2 saranno anche utilizzati l’area e gli edifici che videro sorgere nel 1908 la Olivetti di Camillo Olivetti, il fondatore, e poi di Adriano, il figlio, il più avveniristico fra gli imprenditori italiani del secolo scorso. Torna così di attualità l’Olivetti e con lei la figura di Mario Tchou che “era stato capo e maestro, era stato compagno ed elemento trainante della più grande avventura tecnologica italiana. Lasciava dietro di sé un vuoto incolmabile. Aveva solo 37 anni”. Nell’articolo che pubblichiamo ne viene ricordata la figura.

Immaginate cosa potrebbe succedere oggi se il figlio di un diplomatico cinese in Italia iniziasse a lavorare per un gigante italiano della tecnologia. Se quel ragazzo si facesse strada tra i migliori talenti, sin da giovanissimo, e fosse messo a capo di un laboratorio di ricerca molto promettente. Di sicuro in America non potrebbe farlo.

Mario Tchou

Basti pensare al caso di Xiaoxing Xi, scienziato prolifico e autorevole, ex presidente del dipartimento di Fisica della Temple University di Filadelfia. Xi è nato in Cina, nel 1989 si è trasferito negli Stati Uniti, si è sposato, ha fatto due figlie, ha ottenuto una cattedra e un laboratorio di ricerca, e soprattutto è diventato un cittadino americano. “L’america mi ha dato l’opportunità di raggiungere un livello professionale che non avrei potuto immaginare quando ero un ragazzo in Cina”, ha raccontato Xi a un evento alla Camera dei rappresentanti americana e la fuga dei cervelli. “Il mio sogno americano è stato interrotto il 21 maggio 2015, poco prima delle 7 del mattino, quando qualcuno ha bussato forte alla mia porta e mi ha svegliato. Sono corso ad aprire e ho visto molte persone fuori dalla mia casa. Alcune erano armate, altre avevano un ariete pronto ad abbattere a mia porta. Un agente dell’fbi mi ha mostrato il suo distintivo, ha chiesto il mio nome e ha annunciato il mio… arresto”. Xiaoxing Xi è stato portato via dai federali con l’accusa di trasferire tecnologie e informazioni a Pechino, ma tutta l’accusa si basava su “quattro email trovate nel mio indirizzo ufficiale della Temple University”, e il tema riguardava collaborazioni accademiche nell’ambito di ricerche già note. Nel giro di quattro mesi è stato rilasciato, “Ma la nostra vita era stata distrutta, professionalmente, emotivamente, fisicamente e finanziariamente”, ha detto Xi.

Tre anni fa il governo super anticinese di Donald Trump ha lanciato un nuovo programma del dipartimento di Giustizia con l’obiettivo di reprimere lo spionaggio economico e le operazioni segrete d’influenza da parte della Cina. Del famigerato “China Initiative” si è parlato molto soprattutto per criticarlo, perché secondo analisti, studiosi e accademici non fa altro che sospendere ogni tipo di cooperazione scientifica tra America e Cina, e aumenta la discriminazione nei confronti degli asiatici-americani. I furti e lo spionaggio esistono da sempre, la competizione tra potenze nel campo tecnologico è la storia più vecchia del mondo: in America alcuni casi vengono scoperti, altre volte però l’fbi fa degli errori macroscopici. L’Amministrazione Biden non ha ancora deciso cosa fare della China Initiative, ed è un problema per quei 370 mila studenti e studiosi cinesi che sono negli Stati Uniti: non tutti sono delle spie, non tutti vogliono influenzare l’opinione pubblica e anzi, molti di loro a contatto diretto con la democrazia occidentale riconoscono i limiti del Partito unico cinese e del nuovo rinnovato autoritarismo di Xi Jinping. Spesso, per pregiudizio e ignoranza, l’ostilità si estende agli asiatici in generale.

Chissà che cosa avrebbe pensato di tutto questo Mario Tchou. Lo straordinario scienziato di origini cinesi, che nel 1955 iniziò a lavorare per la Olivetti e costruì il primo computer a transistor italiano – probabilmente il primo computer della storia – e morì in un incidente d’auto insieme con il suo autista il 9 novembre del 1961. Mario Tchou è una figura indimenticabile dell’industria italiana e internazionale, che diede un contributo fondamentale non solo alla Olivetti ma anche all’accademia americana. Di lui si parla spesso ma guardando solo agli ultimi anni della sua vita, quelli legati al nome di Adriano Olivetti e del colosso di Ivrea. Di lui si parla quando riemergono periodicamente le teorie del complotto, smentite dai fatti, riguardo alla sua morte. In realtà tutta la vita di Mario Tchou ha attraversato momenti fondamentali della storia delle relazioni internazionali, ed è un magnifico affresco della diplomazia, non solo politica ma anche scientifica, e dell’incapacità, tipica degli uomini visionari, di ragionare all’interno di confini ristretti. In un periodo come questo, in cui la polarizzazione della politica fa guardare con sospetto ai mondi lontani, Ciaj Rocchi e Matteo Demonte, videomaker e autori di fumetti, hanno appena pubblicato per Solferino “La macchina zero. Mario Tchou e il primo computer Olivetti”. E’ la prima, forse l’unica vera biografia dell’ingegnere italocinese. E sì, Walter Veltroni non se ne stupisca, si tratta di un fumetto, anzi, una graphic novel: una forma narrativa perfino più efficace, in questo caso, della sola parola scritta. Perché alla capacità di Rocchi e Demonte di ricostruire una storia poco investigata – hanno studiato documenti originali in mandarino, sono risaliti alle connessioni tra l’Italia e l’Oriente – si affianca anche quella di trasformare in immagini potenti una vicenda che coinvolge uno dei periodi più importanti della storia del nostro paese e della Cina.

“La storia di Mario Tchou è simbolica”, scrive Ciaj Rocchi in uno dei contributi in postfazione, “E’ stato il primo italo- cinese in assoluto, di estrazione alto borghese, testimone e partecipe di un’epoca che si apriva al futuro senza remore. L’incontro con Olivetti è stato sì fondamentale, ma il contesto famigliare, l’ambiente diplomatico, la cultura cinese, gli studi classici, la specializzazione in campo scientifico negli States… sono tutti elementi che concorrono alla definizione di una personalità dai tratti unici, capace di metabolizzare e poi miscelare diversi ambiti, di sperimentare”. Sapeva bene chi fosse e cosa volesse, scrive Rocchi: “Parlava e si vestiva come un italiano, ma dentro di sé pensava anche in cinese”.

Il 26 giugno del 1924 il signor Tchou Yin riceve una telefonata a villa Alberoni a Roma, la sede dell’ambasciata cinese. Il suo secondogenito, un maschio, è appena nato. Decide di chiamarlo Mario. Tchou Yin è un uomo molto influente a Roma: viene da Hangzhou, aveva vissuto, nel 1911, la rivoluzione che aveva portato al rovesciamento della dinastia Qing. Nel 1915 parte per la prima volta per l’europa, cerca novità sulla produzione della seta, scopre l’Italia. Nel frattempo il Kuomintang e la neonata Repubblica di Cina di Sun Yatsen ( che poi, dopo moltissime vicissitudini, diventa l’attuale Taiwan) decidono di espandere la propria influenza all’estero con sedi diplomatiche in tutto il mondo. Tchou Yin nel 1918 diventa terzo segretario incaricato d’affari dell’ambasciata cinese in Italia, che allora era in viale Pola 12. Dopo tre anni lo raggiunge la sua promessa sposa, Evelyn. Il loro era un matrimonio combinato, ed Evelyn potrebbe sembrare un personaggio secondario in questa storia, ma ebbe una enorme influenza sui suoi figli, compreso Mario: era una donna emancipata, indipendente, nei limiti dell’epoca; “si interessava di diritti delle donne, aveva proseguito gli studi a Londra dove era entrata in contatto con a Women’s Suffrage Society e con la Women’s Rights League”. Una femminista! Fu proprio lei a portare i suoi tre figli, Maria, Mario e Laura, nel loro primo viaggio in Cina, a conoscere i nonni materni. Nel 1928 raggiunsero Hangzhou, e la famiglia di Evelyn: “La nonna era una donna in forma nonostante l’avanzare dell’età. Era stata una delle prime donne cinesi a non tenere più i piedi fasciati. Suo marito apparteneva a una famiglia progressista di letterati e giornalisti molto attivi nel paese”. I bambini restano in Cina per tre anni, una Cina estremamente diversa da quella che conosciamo ora. Si respira l’aria della democrazia, della libertà: “Voi ancora non sapete che cos’è una Repubblica”, dice la nonna ai bambini nella ricostruzione di “La Macchina Zero”, “Ma sappiate che è stato anche grazie al vostro antenato Wang Kangnian che in Cina oggi siamo tutti liberi di esprimere le nostre idee… Da allora, ci sono Wang in quasi tutti i continenti e hanno tutti grandi incarichi: come vostro padre Yin, fanno scelte importanti per il nostro paese”. E allora Mario fa la domanda più semplice, e più importante: “Ma noi, nonna, siamo italiani o cinesi?”. E la nonna risponde, davanti a una bandiera della Repubblica di Cina – quella che oggi rappresenta Taiwan, rossa e blu: “Cinesi, cinesi. Siete nati in Italia, ma restate cinesi, è la Cina la vostra patria, non abbiate mai dubbi su questo, la vostra forza viene dal clan”. Quando rientrano in Italia, la famiglia Tchou vede la propria situazione cambiare rapidamente. Dopo un primo innamoramento da parte del fascismo e di Mussolini per la Cina nazionalista, tutto viene subordinato all’alleanza col Giappone. In più, nel 1938, viene pubblicato il manifesto della razza. L’Italia fascista chiude l’ambasciata cinese. Tchou Yin riesce a farsi trasferire all’ambasciata presso la Santa Sede pur di restare a Roma. Poi arriva la guerra, e finalmente il Dopoguerra, la riapertura dei rapporti diplomatici. E’ in questo passaggio drammatico che Tchou Yin diventa il punto di riferimento dell’intera comunità cinese in Italia, “per i cinesi prigionieri nei campi fascisti”, scrive il professor Daniele Brigadoi Cologna nella postfazione, e “nell’immediato Dopoguerra rappresenterà la Cina presso la Commissione profughi del Comitato alleato, contribuendo alle operazioni di riconoscimento, certificazione, indennizzo e rimpatrio dei cinesi, allora ancora in gran parte sfollati in campi profughi”.

Nel frattempo Mario Tchou aveva finito le scuole italiane, e si era iscritto al corso di Ingegneria industriale della Sapienza, dove insegnava Edoardo Amaldi. Nel 1946 parte per gli Stati Uniti. L’istituto cinese di Washington, New York, i problemi economici, il matrimonio con Mariangiola Siracusa, poi quello con sua cugina, Elisa Montessori, e poi finalmente le grandi opportunità del mondo tecnologico in pieno fermento. Già da soli, gli anni americani raccontati nella biografia “La Macchina Zero” aiutano a capire perché Mario Tchou era destinato a grandi cose, anche prima della telefonata di Adriano Olivetti che cercava di mettere in piedi un team per la realizzazione di un calcolatore elettronico. Il primo. Quello che studiò, disegnò e inventò la squadra guidata da Mario Tchou. “Era stato capo e maestro, era stato compagno ed elemento trainante della più grande avventura tecnologica italiana. Lasciava dietro di sé un vuoto incolmabile. Aveva solo 37 anni”. L’incidente in cui morì Mario Tchou e il suo autista avvenne un anno dopo la morte di Adriano Olivetti. La divisione elettronica poco dopo venne smembrata e venduta, nel 1964, alla General Electric americana. “L’italia aveva definitivamente perso la sua occasione”. Un sogno italo- cinese.

Articolo di Giulia Pompili per il Foglio Quotidiano

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